Banca d’Italia, poliziotti e denti rotti
di Martina Fabbri
Venerdì 17 maggio alle 9.45 si terrà a Bologna l’udienza preliminare del processo che vede imputato Pasquale Bonofiglio, il poliziotto che davanti a Bankitalia il 12 ottobre mi frantumò quattro denti colpendomi con un manganello. Nella prima udienza, poi rinviata, i difensori avevano espresso volontà di richiedere il rito abbreviato, che si concretizzerà adesso.
Il 17 maggio andrà dunque in scena l’atto unico di questa rappresentazione: in una sola udienza, senza possibilità di sentire testimoni o acquisire nuove prove, il giudice dovrà emettere la propria sentenza a partire dagli indizi che faticosamente, a causa dell’omertà del settimo reparto celere, sono stati raccolti nei mesi scorsi. Il materiale per questa identificazione è stato fornito e depositato da chi era in piazza quella mattina, mentre il reparto mobile si è mostrato restio a fornire fotografie e ha cercato di rallentare le indagini, così come le telecamere della Digos non hanno prodotto immagini utili per fare chiarezza. Ora siamo giunti al tentativo finale per impedire di andare a fondo nell’accaduto, che dimostra la volontà di nascondere i fatti: nessun testimone prima e nessuno a testimoniare ora.
Così, in una sola mattina, si conclude tutto: poche ore probabilmente basteranno a quel poliziotto per uscire dalla porta di servizio di una storia breve che, per me, ha significato soprattutto 15 mesi di operazioni e cure dentistiche, denti provvisori, viti e innesti ossei; più di un anno in cui si sono susseguite dichiarazioni vergognose di esponenti politici e sindacati di polizia, nelle quali sono stata spesso utilizzata come esempio inaccettabile da citare per il motto “colpirne uno per educarne cento”; un anno nel quale le indagini sono state ostacolate in ogni modo per nascondere il colpevole e trasferirlo in ufficio, per poi avere il coraggio di chiedere i danni a chi ha denunciato questa omertà da cosca e di presentare il reparto come vittima e bersaglio dei cortei studenteschi.
L’udienza del 17 maggio non riguarda solo me, non si tratta di un avvenimento soggettivo, ma potrebbe diventare una mattinata sentita da altri e diverse.
Si chiuderà una vicenda che, in qualche modo, riguarda anche i quaranta fra attivisti e attiviste che hanno ricevuto l’avviso di fine indagine per la giornata di mobilitazione del 12 ottobre, perché rapidamente inseriti fra gli indagati come contrappeso immediato alla scoperta del nome del poliziotto che mi ha colpito; perché rischiano condanne per aver manifestato con determinazione contro l’austerità e i tagli imposti dalle banche e dai governi; perché hanno provato a difendere i propri corpi con scudi di gomma dalle violente cariche della polizia; perché hanno scelto di trovarsi davanti alla Banca d’Italia per provare a dire, ancora una volta, che siamo stanchi di sacrificare le nostre vite davanti al ricatto della crisi e non possiamo rinunciare alla nostra dignità.
Riguarda quella parte sensibile della cittadinanza bolognese, perché non si può dimenticare che il settimo reparto mobile è tristemente noto per i crimini e le violenze commesse dentro e fuori dalle manifestazioni, che continua a beneficiare di una facile impunità dovuta all’assenza di un codice identificativo, come dimostra, per ultima, la vicenda giudiziaria legata al bestiale pestaggio di Paolo Scaroni avvenuto nel 2005.
Riguarda, infine, le persone consapevoli, a differenza di Cancellieri e simili, che non è sufficiente sostenere ci siano alcune “mele marce” all’interno delle forze dell’ordine, perché la linfa dell’albero è avvelenata da una complicità troppo spesso non dichiarata ma palese. Altrimenti non si spiegherebbe la reticenza nell’inserire un codice di riconoscimento sulle divise e il reato di tortura nell’ordinamento giuridico.
Il 17 maggio alle 9, mentre si terrà l’udienza, vorrei avere accanto, sotto al tribunale in via Farini 1, questa parte di città, insieme a quelle persone che nell’ultimo anno sono state presenti, quante hanno partecipato alla cena di finanziamento per le spese mediche, quelle che si sono indignate per l’aggressione che mi ha colpito partecipando alla mia rabbia e tutti quelli che pensano sia una questione di democrazia e civiltà mettere i numeri identificativi sulle divise delle forze dell’ordine.
Potrebbe essere la mattina giusta per ripetere tutto questo, perché potrà anche darsi che le aule dei tribunali non ci diano la giustizia che chiediamo, ma continueremo a fare quello per cui ci hanno manganellato o indagato il 12 ottobre: lottare, sorridendo.