Banche: e se togliessimo i nostri risparmi?

di Andrea Baranes (*)

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Le sofferenze bancarie in Italia hanno raggiunto il 9%: su 100 euro di prestiti, 9 non vengono restituiti alla banca da imprese e famiglie sempre più in crisi. Come conseguenza le banche tendono a chiudere i rubinetti del credito e a prestare sempre meno, è il cosidetto credit crunch. Un fenomeno che aumenta le difficoltà delle imprese, con un conseguente aumento delle sofferenze bancarie. Credit crunch, crisi e sofferenze formano una spirale che si autoalimenta.

Dall’altra parte, per le banche è apparentemente più redditizio e più sicuro investire in strumenti finanziari. Analogamente chi ha dei soldi da parte li risparmia. L’aumento della domanda di titoli ne spinge al rialzo il prezzo, il che attrae nuovi investitori che vedono l’economia in recessione e la Borsa che sale. Come la precedente, anche questa spirale si autoalimenta.

L’effetto complessivo è un continuo trasferimento di ricchezza dall’economia alla finanza e uno scollamento tra i fondamentali dell’economia e il corso dei mercati finanziari, ovvero la creazione dell’ennesima bolla finanziaria. Le stesse istituzioni affermano che uno dei problemi centrali in Europa è la mancanza di credito alle imprese, ma incredibilmente la soluzione proposta è quella di continuare a inondare di soldi un sistema finanziario che si è dimostrato totalmente incapace di operare nell’interesse generale, mentre all’opposto Stati e cittadini sono strangolati dalle misure di austerità. Come dire che sono le stesse istituzioni ad alimentare entrambe le spirali descritte in precedenza.

Eppure ci sarebbero alcune misure da mettere in campo. Una delle più importanti è la separazione tra le banche commerciali e quelle di investimento. Le prime raccolgono risparmio ed erogano prestiti; le seconde sono specializzate in operazioni finanziarie. Tale separazione venne attuata negli USA dopo la crisi del ’29, quando le banche bruciarono i risparmi dei correntisti inseguendo una folle bolla speculativa. I decenni successivi furono quelli di maggiore stabilità del sistema bancario, almeno fino a che la normativa non venne smantellata all’inizio degli anni ’90, sull’onda della deregolamentazione neoliberista.

Rispetto al 1929, il sistema bancario è più concentrato e le dimensioni sono ancora maggiori. In Europa diverse banche hanno un fatturato superiore al PIL del Paese dove sono registrate. Un sistema sempre più autoreferenziale: i crediti che circolano nello stesso settore finanziario ammontano a qualcosa come 57.000miliardi di euro, oltre 6 volte il PIL dei Paesi dell’eurozona. Fatte 100 le risorse a disposizione, meno di 30 vanno “all’economia reale”, mentre oltre il 70% rimane all’interno della finanza. I tre quarti del debito delle grandi banche è detenuto da altre grandi banche, il che significa che al primo segnale di crisi rischia di partire un disastroso effetto domino.

Il tema della separazione è entrato nell’agenda della Commissione e del Parlamento europei dopo la crisi del 2008, ma oggi la spinta sembra a dire poco indebolita. Da un lato il tema della regolamentazione finanziaria è “passato di moda”, mentre ci si concentra unicamente su austerità e debiti pubblici. Dall’altro le lobby finanziarie hanno rialzato la testa e riescono a diluire o bloccare ogni proposta in discussione.

Nel frattempo non solo le banche universali prosciugano l’economia per gonfiare la mole di attività speculative, ma nel farlo ricevono persino un sussidio implicito: l’attività di trading è finanziata con i depositi bancari dei clienti che aprendo un conto rischiano di subire delle perdite ma non partecipano agli utili. E non parliamo di spiccioli: secondo la Commissione UE tale sussidio implicito varrebbe tra i 59 e i 95 miliardi di euro, ovvero tra un terzo e la metà dei profitti realizzati dalle banche.

Contro la separazione, le lobby sostengono il rischio che un “eccesso” di regolamentazione possa avere impatti negativi sull’erogazione di credito e quindi sulla ripresa economica. E’ vero esattamente il contrario. Uno studio della Global Alliance for Banking on Values  – la rete internazionale di banche etiche e alternative – mostra che chi fonda il proprio operato su principi di trasparenza e sostenibilità e sulla sola attività di erogazione di crediti è più solido e presta circa il doppio, a parità di capitale, delle banche too big to fail.

Oggi gran parte della finanza ha perso di vista il proprio scopo sociale per trasformarsi in un sistema autoreferenziale e pericoloso, mentre le banche che “fanno le banche” sono quasi un’eccezione. Un paradosso che si potrebbe risolvere, se ci fosse la volontà politica di introdurre poche semplici regole. In attesa che tale volontà finalmente si manifesti, c’è una scelta che possiamo fare già da oggi: togliere i nostri risparmi da chi continua a giocare al casinò con i nostri soldi e sulla nostra pelle, e orientarli verso istituti che sostengono l’economia reale, senza creare disastri e valutando le ricadute non economiche delle proprie attività.

(*) RIPRESO DA http://comune-info.net che lo presenta così: «Una gigantesca fuga di notizie, chiamata Panama Papers, fa dunque sapere chi sono i leader politici, i personaggi dello spettacolo e dello sport ma anche i criminali di tutto il mondo che hanno dirottato enormi masse di denaro nei paradisi fiscali, attraverso banche e istituti legali. Quali saranno le conseguenze non lo sappiamo. Vale la pena rileggere questo articolo di Leonardo Becchetti “I paradisi fiscali? All’inferno” (http://comune-info.net/2013/04/la-piaga-dei-paradisi-fiscali/) ma soprattutto – considerando che a fare questo tipo di operazioni restano le grandi banche – rimettere al centro il problema sollevato tra gli altri da Andrea Baranes cioè togliere i nostri risparmi. (db)

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