Bassini, Carlomagno, Lansdale, Recami, Vignali, Winslow e il duo Malvaldi-Ghammouri
7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio
Joe R. Lansdale
«In fondo alla palude»
traduzione di Andrea Mattacheo (originale 2000: «The Bottoms»)
Einaudi
316 pagine, 13 euro
Texas orientale. 1933 e 1934, nella Depressione. Harry non aveva ancora 12 anni e la sorella Tom Thomasina solo nove. Vivevano a Marvel Creek, nel bosco vicino al fiume Sabine, con la brava mamma, il padre barbiere e contadino, e Toby vecchio bastardo da caccia, un po’ segugio, un po’ terrier. Quasi settant’anni dopo Harry è in una casa di riposo con il corpo in decomposizione e ricorda bene quel che successe, la fine della sua infanzia. Sembrava che Toby stesse per morire, fosse da seppellire. Non c’erano insegnanti in paese, ancora non si andava a scuola, fratello e sorella pescano e scorrazzano, il padre li lascia allontanarsi con cane e carriola. Harry vede un ammasso tra i rovi nelle acque della palude, il cadavere martoriato di una donna nera, una brutta storia con i bianchi del Klan. Non tutto tornerà alla fine, a differenza che nei polizieschi della nonna. Einaudi pubblica tutto Joe R. Lansdale (Gladewater, 1951). “In fondo alla palude” è bel romanzo di quasi venti anni fa.
Marco Malvaldi e Glay Ghammouri
«Vento in scatola»
Sellerio
206 pagine, 14 euro
Casa circondariale Antonio Gramsci di Pisa. Pochi giorni fa. Il tunisino Mohammed Bourifa, nato a Biserta il 15 agosto 1990, altezza e corporatura medie, minuto, ben rasato, occhiali, è uno dei tanti passeggeri del volo per Heathrow; viene chiamato per l’imbarco ma non reagisce subito; il suo vero nome suona Salim Mohammed Salah e non è abituato a sentirsi chiamare diversamente. Riesce a portare a bordo un coltello e, venti minuti dopo il decollo, chiama una hostess e le fa furtivamente vedere la tessera plastificata di ispettore ENAC in formazione, ora testimone di un’infrazione dell’aeroporto di partenza. Prima del poliziotto, però, faceva il detenuto a Pisa. Era stato arrestato per errore a inizio 2018: senza saperlo aveva cinquecento grammi di cocaina nella vecchia Mercedes usata appena acquistata, sostando in divieto vicino alla stazione. Allora non parlava italiano, non gli era stato possibile spiegare o incolpare altri, tanto più che era fuggito dalla patria dopo aver realizzato una truffa per un milione di dinari, circa trecentomila euro. Gli danno da scontare sei anni e mezzo. Si era laureato in economia e finanza all’Università di Gafsa (povera città ricca di fosfati e tappeti), aveva aperto una ditta di brokeraggio, esperto di flash trading; in carcere si arrabatta, impara la lingua, diventa esperto di sopravvivenza materiale, studia le persone (colleghi di pena e personale di guardia), cerca di far fruttare le sue competenze e i 250.000 segretamente accantonati. Ci sono camorristi e infiltrati che provano a servirsi di lui, che si affeziona soprattutto all’assistente scelto ignorante e sospettoso Gualtiero Molisano, ciociaro con moglie vegetariana. In cella per quasi un anno riesce chissà come a cucinare prelibatezze e se lo conquista, sono entrambi reclusi, di fatto e di diritto, affronteranno vecchi e nuovi crimini, correranno rischi, ci sono tanti modi di vivere e morire in prigione.
Evviva. Il bravo allegro chimico scrittore Marco Malvaldi (Pisa, 1974) fece un corso di scrittura alla Casa Circondariale Don Bosco della sua città nel 2012, in quell’occasione conobbe Glay Ghammouri, un tunisino oggi di circa 40 anni che deve scontarne altri 27. Firmò la prefazione della raccolta di poesie realizzata da Glay e decisero poi di scrivere insieme un romanzo, ottima idea, «per essere autenticamente liberi occorre conoscere il carcere», importante per noi e per tutti. Nel testo brilla lo stile frizzante concatenato divertente di Malvaldi, una trama noir a più livelli, benissimo mescolati all’interno di un contesto che può essere raccontato solo avendolo un poco vissuto: la privazione di (quasi) ogni libertà nelle piccole celle (pure quelle lisce), convivendo accanto ad altri umani detenuti e dentro dinamiche peculiari. Ogni carcere fa storia a sé stante, a seconda di chi lo dirige e di chi lo frequenta. Nella vicenda raccontata il direttore è praticamente assente, il vice è una brava persona, c’è sovraffollamento da mesi (trecento reclusi per una capienza di duecentodieci), oltre cento musulmani con la mensa che poco rispetta il Ramadan e casi di radicalizzazione, poco più di venti assistenti penitenziari. Un ruolo cruciale è svolto da competenti usi e costumi arabi: la finanza, la lingua, la cucina. Memorabili le ricette, Muhammara e Fessenjun fra le altre. Quando Gualtiero tenta Giuditta con polpettine nella salsa di spezie aggiunge pomodoro e scelgono vino bianco. Il proverbio tunisino sul vento (da cui il titolo) Salim forse lo inventa, quelli da ricordare stanno in Toscana, dove c’è un proverbio per ogni cosa, più modi di dire che altro, tanto ne esiste uno che dice bianco e un altro che dice nero. Noir di gusto.
Piera Carlomagno
«Una favolosa estate di morte»
Rizzoli
Pisticci e Matera. Giugno 2018. L’attrice e impegnata regista teatrale Lara Venosa sta preparando uno spettacolo con attori in abiti moderni, fra i calanchi, buche e grotte in una distesa di terra rossiccia, un palco sontuoso con tre scene, le sedie degli spettatori posate su un deserto di dune tra le pietre d’argilla, i monti sullo sfondo. Per caso in una specie di discarica vede due corpi aggrovigliati e avvinti, neri e laceri, ammazzati abbracciati pare. Allarme. Arrivano tutti, anche l’elegante sostituto procuratore Loris Ferrara, alto e bruno, sui quaranta, di Torre del Greco, in procinto di separarsi dalla moglie, e la sua collaboratrice Viola Guarino, laureata in medicina e scienziata multidisciplinare, proprio di Matera, occhi neri e folti capelli mossi, sottile in jeans, occhiali da sole e reflex (al collo), single con rapporti guardinghi e accigliati verso l’altro sesso. Si tratta dei cadaveri dell’architetto Sante Bruno, scuro con baffi leggeri, vedovo di fatto (con figlia ragazzina) vista l’improvvisa misteriosa scomparsa della moglie a febbraio, e della giovane ricca amante Floriana Montemurro (conosciuta famiglia di notai), bionda e bellissima, occhi chiari e sorriso ammaliante; accoltellati con due diverse lame, due ferite per lui, trentadue coltellate per lei. Tutti ne spettegolavano come gli amanti di Tinchi, ma gli investigatori procedono a fatica, un altro caso squassa la regione: nell’eterno conflitto tra i capoluoghi delle due province, i materani invadono Potenza. Un blitz della Procura di Matera negli uffici della Regione Basilicata a Potenza mostra come l’ufficio appalti sia una macchina perfetta per gestire e indirizzare le gare, Bruno era di casa e c’è di mezzo una chiacchierata funzionaria, dirigente dei settori Urbanistica e Ragioneria, la chiamano «Laura, l’intoccabile». Le indagini presto si complicano: viene volutamente investito e ucciso pure un possibile indiziato del duplice omicidio, l’avvocato 33enne ex fidanzato di Montemurro. Umane plurivalenze: affaristi, innamorati, criminali, assassini, prèfiche, streghe nella città dei Sassi imperituri e dei giovani divani.
La giornalista salernitana Piera Carlomagno, laureata in lingue e letteratura cinese, attivissima sul piano culturale e sociale, da almeno un decennio scrive non solo di cronaca: romanzi, guide turistiche e soprattutto gialli. Qui l’ambientazione è particolarmente tempestiva (ma il titolo non c’entra molto), chi visita Matera nel 2019, la capitale europea della cultura, potrà avere una compagnia letteraria colta e accurata, capace di insinuarsi dietro le facciate dei muri di pietra e dei fuochi d’artificio. L’arte del giudizio popolare non riguarda solo le vite private. Forse un passaggio di cose senza senso rischia di non lasciare alcun segno su quella (amata) terra disgraziata, difficile da raggiungere e dunque selettiva, densa di abitanti con memorie e riluttanze antiche. Tanto più che da un po’ stanno arrivando tanti, troppi denari e speculazioni. La narrazione è in terza varia, vieppiù concentrata sulla densa estate di Loris e Viola, sulle reciproche solitudini e sulla parallela attrazione. Il dipanarsi della trama criminale a tratti incespica nelle pietre, pur mantenendo ritmo e stile, coerenti e avvincenti. La nonna di Viola è Menghina, lamentatrice funebre di successo in Lucania (trasformando la morte in professione), buona preparatrice di un piatto meraviglioso (che comunque dovete assolutamente provare in zona), la cialledda: pane giallo, condito con olio, sale, origano, pomodori, cipolla (e, talora, basilico e olive). Impossibile dimenticarlo. Più complicati gli abbinamenti, un prosecco è invadente e perdente. Meglio il Primitivo. Oppure, addirittura, i rossi ottimi di quelle terre, nella cena che prepara la prima volta dei due fanno miracoli (con zuppa di fave e cicoria).
Francesco Recami
«L’atroce delitto di via Lurcini. Commedia nera n. 3»
Sellerio
190 pagine, 13 euro
Firenze. Autunno 2016. Il veneto Francesco Franzes Molesin, cesta filacciosa di capelli bianchi sporchi, ex imprenditore poi colpevole di bancarotta fraudolenta, è l’ubriacone capo assoluto di un rifugio di senzatetto, numero variabile dalla trentina alla cinquantina; singoli, coppie o famiglie nello stanzone, ammonticchiati all’interno della fatiscente ex cabina di controllo della stazione ferroviaria di Santa Maria Novella. Le rispettive aree di spettanza, riquadri di circa tre metri per tre colmi di funzionali oggetti usati ed effetti personali propri di ciascuno degli occupanti, sono diligentemente segnalate e separate dai nastri bianchi e rossi che si usano per i cantieri o per gli appartamenti messi sotto sequestro. Sopra una più grande pedana di legno rialzata all’estremità nord è inchiodata e montata una tenda da campeggio (a casetta) con dentro un vero materasso, un baule ampio, una vecchia poltrona, bacinella e specchio, i fornelli e alcune scatole, cavalletto da pittore con tele dipinte o da dipingere e quadretti paesaggistici da vendere per strada. Lì vive e amministra Franzes, con pugno di ferro. Pagamento giornaliero e anticipato: un euro per il posto, 50 centesimi per i “servizi”. Lui dorme sotto strati di coperte militari e russa forte. Quel giorno si sveglia e ha le mani lorde di sangue semirappreso. Turbe, il vecchietto che gli fa da guardia fuori dalla tenda non sa spiegargli cosa può essere accaduto e lo porta in giro, ma Franzes si preoccupa, tanto più che in una tasca si trova inaspettatamente tre carte da 50 euro. Turbe gli legge un articolo sul giornale, c’è stato un terribile delitto in via Lurcini, una abbiente turista circa 35enne di origini ucraine trovata seminuda con la gola tagliata, calva per la chemioterapia in corso, essendo scomparsa pure la parrucca. La polizia brancola nel buio, ma Franzes trova la parrucca. Non sarà l’unico omicidio su cui indagare nella vicenda grottesca che ne consegue.
Il meticoloso divertente scrittore toscano Francesco Recami (Firenze, 1956), noto soprattutto per romanzi e racconti dedicati ai condomini di una casa di ringhiera a Milano, continua la nuova serie toscana di favole (incubi) noir, in terza quasi fissa sul pessimo elemento maschio. Il delitto è sullo sfondo, interessa poco. Il titolo inventa e traduce in fiorentino la via di una commedia francese del 1857, spunto d’ispirazione. In primo piano c’è la colorata paradossale situazione residenziale, legami e competizioni, conflitti e crimini, convivenze e mescolanze. Da sempre marginalità e povertà sono a una discutibile pubblica attenzione. In pochi giorni arrivano nel rifugio non solo di continuo nuovi richiedenti, pure giornalisti e operatori sociali, bensì anche e soprattutto i responsabili e i tecnici di un progetto culturale megagalattico di cui tutta la città già parla, realizzare in quello spazio un’installazione e uno spettacolo di teatro-danza sulla condizione dei diseredati, Gli Ultimi, di fatto e imprecisamente i «meticci de merda». Mentre Franzes cerca di nascondere i suoi guai e di guadagnarci pure, due Maestri, il grande coreografo Corrado Netzer e il grande artista Urs Freulerich, hanno deciso di collaborare per sensibilizzare il pubblico sulla vita degli homeless, dopo aver già prodotto spettacoli di notevole rilievo internazionale sui disabili, sui non vedenti, sui Down, sul deficit cognitivo, sull’autismo e persino sui ludopatici. Gli ospiti dello stanzone saranno parte integrante dell’evento: «Brecht vs Hemingway, cioè fare finta facendo finta di fare finta contro fare finta facendo finta di non fare finta». Sopravvivere stanca. Il romanzo racconta con cinica verosimiglianza la preparazione e lo svolgimento di una serata davvero unica, musiche e danze, orchestra e pubblico; imprevisti, equivoci e crimini compresi. C’è pure una scintillante locomotiva a vapore in movimento, sembra Guccini (rivestita d’oro pur tuttavia). I vini sono tutti di risulta.
RemoBassini
«La donna di picche»
Fanucci
Torino e Vercelli. Da maggio a ottobre. L’alto commissario Pietro Dallavita, occhi castano scuro e voce bassa roca, sguardo dolce e acuto, gran fiuto investigativo, è turbato. Si sente vecchio e malandato, è sfinito nonostante abbia solo 59 anni e solo tre amori alle spalle, coi quali crede di aver fatto del male, di non essere stato all’altezza e di aver stritolato il figlio 28enne Giacomo. Ha avuto tre strapazzate donne di cuori: la moglie Carmen di cui è stato a lungo fedele e buon marito, una seconda Carmen amata follemente dieci anni prima (giovane moglie di un collega), poi la recente storia con la comprensiva criminologa Maria Grazia, ancora una volta finita dolorosamente. Una donna di picche è quella che non arriverà mai. A pochi mesi dalla pensione, con tante ferie arretrate, frastornato e spento, accetta da un potente subdolo funzionario romano e dal questore un incarico lontano da Torino, pur sempre in regione, con treno o con l’auto Vercelli non è troppo distante. Resta un insistente pestino e ci si mette di buzzo buono. C’è lì un delitto irrisolto da più di un anno, probabilmente una cruenta esecuzione. Qualcuno ha sparato tre colpi col silenziatore in pieno volto all’avvocato vedova 52enne Eleonora Paganica Malerba in chiesa all’alba. Dallavita capisce subito di essere un poco manovrato; si fa aiutare, oltre che dal fido Tavoletti, per una reciproca attrazione da Micaela, gentile affidabile segretaria del questore, separata con tre figli grandi; riprende comunque in mano tutta la copiosa documentazione sulle indagini inutilmente svolte e sulle tre piste prese in considerazione: quella passionale, quella di una vendetta per una causa persa o per malversazioni della ricca potente famiglia d’origine. Però era stata praticamente ripudiata quando aveva deciso di mettersi col professore conosciuto nell’ultimo anno di liceo (e quindici anni più vecchio) poi uccisosi lasciando la figlia adolescente, Lucilla, una magnifica ragazza che aveva lavorato in Questura a Torino dove aveva conosciuto anche Pietro e verificato (anche in quel caso) una reciproca attrazione. Lui è soprattutto un poliziotto e capirà cosa è davvero successo.
Il bravo giornalista e scrittore (già operaio e portiere di notte) Remo Bassini (Cortona, 1956) fin da piccolo si è trasferito a Vercelli, pubblicando via via vari romanzi, un’esperienza letteraria sempre più orientata al genere noir meditabondo ed esistenziale. Esce ora il secondo della serie Dallavita, ancora all’interno dell’appropriata collana dell’esperto Fanucci. Si tratta di un giallo narrato (a differenza del primo) attraverso due differenti prime persone femminili, di più Micaela e abbastanza anche Lucilla, le personalità che si autocandidano a diventare la donna di picche (da cui il titolo e la copertina). La scrittura è morbida, sensibile, accurata; la trama quasi un pretesto per narrare la città intensa e le complicate relazioni dei personaggi, nelle loro ferite e nelle loro durezze. Quasi tutti dicono solo dei pezzi verità (quando va bene), il che equivale spesso a una bugia (cui si aggiungono le omissioni). Molto ruota intorno al tempio abbandonato di Soletta e ai suoi sotterranei, per i protagonisti in coppia una sorta di pellegrinaggio a pochi chilometri da Vercelli (a Costanzana), il borgo delle leggende maledette. Segnalo poi Augusto Franzoj, il poco conosciuto amico di Salgari, che intriga Dallavita durante le tante settimane in cui l’indagine non procede. Qui il buon colto maschio tradito si suicida, forse anche perché cardiopatico e diabetico, vita dura! Ovvio che birra e vini scorrano a fiumi, pure un po’ di prosecco purtroppo, oltre ai magnifici piemontesi rossi, bianchi e rosé. Micaela amava il Banco del Mutuo Soccorso, anche se la colonna sonora è tutta di Pietro, i soliti Conte e Tenco, soprattutto Susanna (Antonella) Parigi.
Gino Vignali
«Ci vuole orecchio»
Solferino editore
204 pagine, 16 euro
Rimini. Primavera. Alle due del mattino del 3 maggio il bell’avvocato quarantenne Valentino Costanza è al timone dell’efficiente antico peschereccio Aurora, di cui è pure armatore e comandante, venticinque tonnellate a trenta miglia dalla costa adriatica. Dà un morso alla spianata con la mortadella mentre i suoi due marinai tunisini stanno recuperando le reti a strascico. Nel sacco, la parte terminale della rete, è rimasto incagliato un trolley, vi spunta un osso umano. Chiamano subito la Capitaneria di porto e sul molo via via arrivano tutte le forze dell’ordine. Alla presenza del vice questore (al maschile, così vuole) Costanza Confalonieri Bonnet (che all’alba stava correndo sulla spiaggia) e dell’amica medico legale Myrta Albanesi, aprono la valigia, dove sembra accartocciato uno scheletro di bambino. Si tratta in realtà, scoprono poi, del corpo di una contorsionista da circo, più o meno trentenne, uccisa da almeno un anno, forse spezzandole il collo, infilata nel trolley infine gettato a mare. A Costanza, Valentino è piaciuto proprio. Lei è una magnifica contessa vicina al mezzo del cammin di nostra vita, capelli lunghi e mossi, ha il figlio Andrea che fa il liceo nella sua Milano e gioca bene a tennis, trasferita in Romagna da nove mesi è single ma lì si accompagna spesso riservatamente con il sindaco della città (col quale giocano alle citazioni cinematografiche), unico a possedere la card della suite 401 del Grand Hotel, la Gradisca, dove Costanza dimora, gira spesso con la rossa Ducati Monster 821. Oltre che ammirata perché bella è divenuta pure stimata perché intelligente, avendo da poco risolto il clamoroso caso degli omicidi legati a un ingegnere clochard. Si butta a capofitto nella nuova indagine ma, durante una breve trasferta verso il circo di Montecarlo a bordo della Maserati del gentiluomo compagno della madre, notissimo comico, la informano che è stata uccisa l’ereditiera Diamante Brandolini con due colpi al petto sparati sul portone di casa. Ci vorrà orecchio.
Il grande autore televisivo e teatrale Luigi Gino Vignali (Milano, 1949) è conosciuto e apprezzato in coppia con Michele per innumerevoli successi in vari campi dello spettacolo oltre che per la mitica serie letteraria delle formiche, antologie delle battute. Insieme Gino & Michele scrissero nel 1980 anche il testo della splendida canzone di Enzo Jannacci, cui il romanzo è dedicato prendendone il titolo. Dal 2018 ha deciso di dedicarsi al genere giallo, crimini efferati raccontati con umorismo, questo è il secondo degli annunciati quattro della serie. L’allegra godibile narrazione è in terza quasi fissa sulla nobildonna questurina, una leggerezza seria, piena di giochi di parole, di citazioni argute, di riferimenti a donne e uomini della vita mondana milanese e nazionale. Il ritmo incalza, la trama regge, i personaggi incuriosiscono, non servono violenze gratuite, tutta la squadra della Omicidi è alla simpatica altezza. Il bravo sostituto procuratore è la progressista lucana Vanessa Albertini, che adora Pennac e si è rifatta il seno, il nesso non si vede perché non c’è e comunque non c’è niente di male; anche se… il paese è piccolo e il Palazzo di Giustizia mormora. La musicalità del testo è dovuta sia al meglio dei tanti italiani citati che a Radio Swiss Jazz. Al ristorante, Costanza e Riccardo avrebbero voluto scegliere spaghettoni Mancini aglio, olio, peperoncino e calamaretti pennini, se dopo non fosse stata prevista una matura notte di passione. Vini per tutti i gusti: dal Ferrari della festa nello Yacht Club al Bordeaux del Moshi Moshi sul molo di Fontvieille, ai (più nostri) Verdicchio e Trebbiano.
Don Winslow
«Il confine»
traduzione di Alfredo Colitto
Einaudi
922 pagine, 22 euro
Messico e Usa, tutti gli 81 Stati (circa). Aprile 2017. A Washington Arturo Art Keller ha appena testimoniato vicende illegali e legali di quarantadue anni di narcotraffico fra Stati Uniti americani e Stati Uniti messicani di fronte al sottocomitato del Senato, presieduto dal vecchio amico Ben O’ Brien, per indagare sul vischioso affare Towergate che coinvolge pure il nuovo presidente americano. Ha raccontato e provato proprio tutto, ragioni e strategie della cosiddetta guerra alla droga, i propri crimini e i propri errori, la vicenda che compromette Ben, l’altra che mette di mezzo il presidente. Finisce esausto, dopo ore. Schiva tutti i microfoni e fa una passeggiata con Marisol lungo il National Mall, nel parco accanto al memoriale dedicato ai veterani del Vietnam, come lui. Un cecchino è in attesa per ucciderlo, prescelto da potenti americani e formalmente ingaggiato dai residui narcotrafficanti messicani. Lui vorrebbe finalmente tornare a casa ma la guerra lo ha seguito e ha ancora bisogno del suo sangue. Art SonoSempreSolo Keller era nato nel 1950, intelligente cattolico cresciuto in un barrio californiano, padre bianco, madre messicana bella come il figlio, zazzera scura, naso prominente, Operazione Condor in Vietnam, poi agente DEA, una moglie alta magra occhi verdi bionda progressista, due bravi figli, dai quali si è presto allontanato per dedicare vita e carriera a combattere la droga. Il primo capitolo (1975-2004) lo abbiamo letto nel 2005 grazie a «Il potere del cane», il secondo (2004-2012) nel 2015 grazie a «Il cartello», il terzo (2012-2017) lo ripercorriamo ora, mentre il cecchino spara e uccide. Inizia a novembre 2012 quando ha successo la trappola ordita da Keller e segretamente dal governo americano per uccidere i capi dei due principali cartelli, l’odiato Adán Barrera compreso.
Non aggiungo altro. Ennesimo imperdibile capolavoro per Don Winslow (New York, 1953) californiano da decenni, il migliore scrittore americano dell’ultimo quarto di secolo. Ritroviamo tutti e quattro i protagonisti del primo capitolo, anche Sean e Nora (nel secondo solo evocati), ovviamente Art e Adán (nel terzo è il suo spirito ad aver vinto e continuare a vivere). Ineccepibile la documentazione di saggi e cronache su cui è fondata l’opera dell’autore. Emergono anche fondate ipotesi sulla strage dei 43 studenti del 26 settembre 2014 a Ayotzinapa, collocate nell’avvincente trama fiction. E troviamo pure Trump interpretato magnificamente dal magnate immobiliare e star dei reality show John Dennison, grande investitore nell’odio (prima di tutto verso Obama) con precisione dalla candidatura all’elezione. Se volete capire qualcosa delle gang e degli spacciatori, dei killer e dei boss, delle città dei femminicidi (Juarez e Tijuana) e delle metropoli dei tossicodipendenti (americani), dei differenti downtown e dei porti atlantici o (poco) pacifici, di tradizioni musicali e cibi locali, delle specifiche dinamiche ed evoluzioni dei vari cartelli, degli intrecci con il commercio di armi e con gli organi di informazione (il romanzo è dedicato ai tanti giornalisti uccisi), degli affari con il Guatemala e con gli altri Stati del Centro e Sudamerica, del tanto denaro sporco che circola nei santuari della finanza, portatevelo dietro durante tutta l’estate 2019: è lungo e terribile ma vale la pena, tanti splendidi romanzi in uno. Si alternano i protagonisti (in rigorosa terza varia) e tante biografie minori (con motivati approfondimenti), relazioni complesse parentali e sociali, contesti ricchissimi e miserrimi, azione e sentimento, un brulicare di punti di vista e di contrastanti impatti emozionali, narrati con dura maestria. «Un confine è qualcosa che ci divide, ma anche che ci unisce; non può esserci alcun muro, proprio come non c’è un muro che divide l’animo umano tra i suoi impulsi positivi e quelli negativi. Keller lo sa. Lui è stato da entrambe le parti del confine» (da cui il titolo).