Ben pensato, empatico Theodore (1)
«Al primo posto veniva l’odio. L’odio era onnipresente». Siamo quasi all’inizio del racconto «Il tuono e le rose», scritto da Theodore Sturgeon nel 1947. Il sergente Peter Mawser è uno dei pochi sopravvissuti in quella base militare, forse negli interi Usa. Fatica a cancellare «dalla mente l’immagine di se stesso come l’unico uomo sano di mente rimasto». Neppure capisce se sia importante ricordare il «prima», cioè «prima che tutta quella gente morisse, prima che il Paese morisse». Anche lui a volte guarda il rasoio con troppa insistenza – «adesso era una lama ma se lo spezzavi diventava tante schegge scintillanti» – mentre continua a chiedersi: «Per quanto tempo poteva resistere un uomo?». Ogni tanto è «felice di saper sorridere ancora» ma, subito dopo, deve fare i conti con un altro militare, buttato su un divano: «immobile, occhi spenti e un odore di mandorle amare».
Avviso a chi legge. Per una volta dovrò contraddire la regola base (che mi sono “inflitta”) del recensore intrigofilo, ovvero accennare la trama senza svelar troppo. In questo caso almeno un passaggio decisivo dovrò farvelo conoscere. Il finale… certamente sarà taciuto. Ciò chiarito, torno al testo.
Peter e il suo quasi amico Sonny decidono di sbarazzarsi di quel rasoio. Gettarlo in un prato o in un bidone potrebbe indurre in tentazione ma Peter sa che, in quella grande base militare, da qualche parte c’è un forno elettrico adatto a polverizzare l’oggetto. Mentre cercano, i due si imbattono in una strana porta chiusa che però si apre da sola… apparentemente per un collegamento con il contatore Geiger. Dunque al salire delle radiazioni la stanza “segreta” diventa accessibile. Perché? Dentro trovano un quadro di relè, «il manico rosso di una leva» e sotto una targhetta: «da usarsi solo dietro ordine diretto dell’Ufficiale comandante».
Si guardano in giro. Non capiscono il senso di quella leva in una stanza così ben nascosta. «Usciamo di qui» decide Peter. Intanto il suo cervello sta tornando all’odio: «non avevano risposto ai colpi degli assassini» o non del tutto. In ogni caso i nemici avevano vinto. Anche se… «dappertutto l’azoto si tramutava nel mortale Carbonio 14 […] Nessuno poteva immaginare quali terrificanti effetti duraturi la silenziosa radioattività avrebbe prodotto anche sui territori nemici». Se anche qualcuno ha vinto la guerra vivrà abbastanza per rallegrarsene?
Ora che il rasoio è scomparso in quel forno, Peter e Sonny possono pensare con serenità al concerto – che bella sorpresa – della sera. Alla base è arrivata Starr Anthim, «una istituzione, come Bing Crosby o […] la Statua della libertà». Già, ma la Statua non c’è più: «volatilizzata, radioattiva, portata in giro da venti vagabondi». Pensieri pericolosi che la bellezza di Starr Anthim e la sua empatia sapranno tenere lontani. Così si illudono in tanti. Invece no: lei canta «la notte e il giorno, il tuono e le rose […] il male della terra, la giustizia» e conclude: «con il mare ho lavato, con l’argilla ho costruito / e il mondo fu pieno di luce». Quando Starr Anthim parla sembra che si rivolga a ognuno dei soldati: «tu hai l’odio nel cuore». Poi quella frase tremenda, incomprensibile: «non ha importanza chi è stato, lo capisci questo?». E ancora: «hanno ucciso noi e hanno condannato se stessi. Quanto a noi nemmeno noi siamo senza colpa. […] Ciò che dobbiamo fare è molto difficile: dobbiamo morire… senza restituire i colpi».
Starr «fissò ogni uomo, in rapida successione – Noi non dobbiamo restituire i colpi […] Moriamo quindi con la consapevolezza di aver fatto l’unica azione nobile che ci è rimasta. La scintilla dell’umanità può ancora vivere e crescere su questo pianeta […] e anche se questa fosse la fine del genere umano, noi non osiamo togliere ad altre forme di vita la possibilità di riuscire dove noi abbiamo fallito».
E’ impazzita Starr? E’ passata al nemico? Bisogna morire senza odiare, perdonando gli aggressori? Perché quella insistenza sul «restituire i colpi»? Forse…
Nel finale del racconto – uno dei più emozionanti che io abbia letto (in circa 50 anni, su 64, passati fra i libri) – Peter e Sonny dovranno decidere cosa fare. Quanto è forte l’odio. Se il tuono e le rose, il mare e l’argilla possono avere un’altra possibilità. Ma aspettando la morte imminente si può rivolgere un messaggio – e quale? – «a un futuro lontano»?
NOTA SUL RACCONTO E VARIE CHIACCHIERE
Dopo «Isaac (1)», «Isaac (2)», «Ursula (1)» e «Ursula (2)» rieccoci qui. Questo racconto di Theodore Sturgeon è in varie antologie: è scritto, anzi cesellato frase per frase, infinitamente meglio di quanto io ho potuto riassumere. Se volete trovarlo – non sarà facile – guardate su google «Il tuono e le rose» e da lì arrivate quasi subito al Catalogo Vegetti (in ogni caso www.catalogovegetti.com) con tutte le edizioni italiane.
Se qui in blog andate sul mio (vecchio) Sesso, amore, fantascienza e X trovate un po’ di storie sturgeoniane, in particolare una buona sintesi del racconto «Un mondo ben perduto»; invece su Sturgeon, in cerca del “più che umano” ho abbozzato, molto disordinatamente, alcune ragioni del mio innamoramento (senza virgolette, vi prego di notarlo e riflettere) per lui.
Rileggendo Isaac, Ursula, Theodore (aspettando con ansia ogni nuovo Robert Sawyer ecc) e poi chissà… ri-ri-rilancio il mio urlo di dolore “scolastico” ovvero quanto farebbe bene un po’ di buona fantascienza nei programmi della scuola italiana che si è scordata il domani. Fra gli anni ’80 e ’90, io e Riccardo Mancini pubblicammo due libri – “Immaginare futuri” per la media superiore e “Imparare dal futuro” per la inferiore, ora fuori catalogo – con La Nuova Italia. Mi chiedevo e continuo a domandarmi: se oggi un collettivo (di appassionate/i, docenti, piccole case editrici e kenesò) ritentasse? Subdolamente annuncio che un amico si propone di rieditare quei vecchi due libri in e-book – vi aggiornerò – e ne sono felice ma io vorrei mirare anche a un progetto nuovo e collettivo perciò chiedo a chi passa di qui e ama la fantascienza: secondo voi, in quel che resta della scuola italiana, c’è spazio per il futuro? (db)