Beren e Lúthien
di Riccardo Dal Ferro
Questa non è una recensione, esattamente come il racconto su Beren e Lúthien non è un racconto.
Questo è un piccolo inno alla fiaba, dentro un’epoca in cui il cinismo dilaga, come una marea montante che nasconde l’orizzonte. La fiaba è quella regalataci silenziosamente da Tolkien, meglio conosciuto come l’autore della trilogia de “Il signore degli anelli”, tornato recentemente in auge grazie alla terrificante e deprecabile traduzione cinematografica de “Lo Hobbit”. L’inno ha come scopo quello di avvicinare i diffidenti alla lettura di un testo che, anche se di certo può essere relegato con poca cura al genere fantasy, è senza dubbio una delle narrazioni più totali (mi perdonerete questo obbrobrio) che la letteratura del secolo scorso ci abbia regalato.
La storia di Beren e Lúthien è in realtà quella classica vicenda, già narrata mille e una notte volte, in cui il mortale si trova a innamorarsi dell’immortale, cercando di farsi grande o piccolo a sufficienza da meritarne l’eternità. Ma, tralasciando la maestria linguistica che contraddistingue la prosa inglese di Tolkien (che mai del tutto prosa è), gli ingredienti che si intrecciano nel testo in questione ne fanno un pezzo unico, un gioiello nella letteratura anglosassone del secolo scorso. Uno dei testi più sottovalutati, peraltro, dalla critica specializzata, troppo concentrata sul sensazionalismo. E in Beren e Lúthien, di sensazionale, ci sono solo le evocazioni. Cose troppo difficili da rendere al meglio su uno schermo cinematografico, che perciò rimarranno per sempre legate al testo scritto (il sopracitato “Lo Hobbit” ne è pieno, e infatti nel film non v’è traccia di quelle sensazioni).
Ciò che intendo per “evocazioni”, sono quegli elementi narrativi mai esplicitati, lasciati all’olfatto del lettore, più che alla sua vista. Essi si intuiscono, tra le righe, e sono manifesti solo a chi sappia andare un poco al di là della riga stampata. Sono quegli stessi elementi che fanno di Hansel e Gretel un testo che, letto in pubertà, sarà completamente diverso rispetto al leggerlo in età adulta. Sono quei significati sfumati, che acquistano forme diverse quando leggiamo Lovecraft a quindici o a venticinque anni. E se tutta l’opera tolkeniana tracima di questi elementi, la narrazione di Beren e Lúthien ne è il fiore all’occhiello.
Dal primo incontro tra Beren e Lúthien, fino ad arrivare ai terribili colloqui dell’uomo mortale con il padre della principessa elfica, Thingol, la sensazione di perdita che l’immortalità impone, e quella di possibilità che la mortalità concede, rapisce il lettore. Come se Thingol, e con lui tutto il suo popolo, vivesse in una menzogna, secondo la quale l’immortalità è potenza. Se in tutta l’opera di Tolkien, la decadenza dell’immortalità elfica è un elemento di straordinaria originalità, qui esso diventa il protagonista: è nell’amore dell’uomo piccolo per la grande principessa che si può percepire chiaramente il senso di eterno “distacco” dell’immortale da questo mondo. Gli elfi, nel momento stesso in cui vengono generati dagli dei (vedi i primi 3 capitoli de “Il Silmarillion“), sono proprio per questo estranei al mondo che popolano. Altre figure elfiche della saga tolkeniana (Fëanor, Elendil, Elrond) ricalcheranno questa tragedia dell’estraniamento dell’immortale, ma mai essa toccherà le corde che raggiunge nella distanza incolmabile e nell’amore impossibile tra Beren e Lúthien.
La storia d’amore diventa, nel momento stesso della propria genesi (Si narra, nel Lai di Leithian, che Beren entrò in Doriath incespicando, reso grigio e curvo come da molti anni di dolore, tali e tanti erano stati i tormenti della via. Ma, aggirandosi d’estate tra i boschi di Neldoreth, si imbatté in Lúthien, figlia di Thingol e Melian, ed era di sera, nel momento in cui la luna saliva in cielo, e lei danzava sull’erba sempre verde nelle radure lungo le rive dell’Esgalduin. Ed ecco il ricordo di tutte le sofferenze abbandonò Beren, ed egli cadde in preda a un incantesimo, poiché era la più bella tra tutti i figli di Ilúvatar. (…) Ma Lúthien scomparve alla vista di Beren, il quale divenne sordo come chi sia preda d’incantesimo, e a lungo s’aggirò per i boschi, selvaggio e vigile come una belva, cercandola.), una storia di perdita. Quasi come fosse allegoria della condizione elfica (l’immortale, straniero in una terra che muore), l’unione tra Beren e Lúthien è rotta ancor prima di avere inizio. Ed è qui che Tolkien intesse il filo conduttore di tutta la sua opera successiva: la sconfitta, già scritta ancor prima che inizi una battaglia; la perdita, precedente ogni conquista; la decadenza, che ha inizio ben prima di qualsiasi inizio.
L’opera di Tolkien, e su tutte la narrazione di Beren e Lúthien, è una fiaba di grigi menestrelli, sentieri interrotti, possibilità che dimorano sempre nel regno delle impossibilità. Non si tratta più di fantasy, si sconfina nella filosofia, e da lì nell’arte: esistono pochi esempi, nel Novecento, che rivestano per completezza, capacità comunicativa ed evocazione, un ruolo paragonabile all’opera in questione. Un’altra fiaba che, letta a 12 o a 30 anni, darà sfumature diverse per occhi diversi, lacrime differenti per cuori più o meno in sintonia con questo genere di opere.
L’elemento narrativo tout-court, cioè la lotta di Beren con Morgoth il signore oscuro, per sottrargli il Silmaril (se inizio a spiegarvi la storia dei Silmaril questo post finirà il mese prossimo, quindi, vedete di farvi una cultura a riguardo!), finisce per diventare quasi un elemento di secondo piano, rispetto al messaggio che Tolkien vuole mandarci attraverso queste pagine: non c’è immortalità che non invidi la morte, desiderando l’amore; non c’è mortalità che possa affrontare l’eterna mancanza di tempo che ogni essere immortale vive. È il trionfo del paradosso, e direi quasi, il trionfo della morte.
E, come per ogni eternità che si rispetti (come ogni fiaba che si rispetti), la morte, personificata nel dio Mandos, rivestirà nella vicenda di Beren e Lúthien un ruolo fondamentale, lasciando forse l’amaro in bocca a chi per “fiaba” intende happy-ending, ma lasciando un patrimonio incalcolabile invece nel cuore di chi sa che l’happy-ending può essere molte cose diverse, e che se non con il senso della perdita e dell’impossibilità, con la paura della morte e il bisogno di essere amati, la vita non avrebbe mai alcun finale felice.
Gli elfi e Lúthien, nella tristezza della loro immortalità, lo sanno bene.
Beren, e tutti noi stupidi mortali, non sapremo mai riconoscerlo davvero.
Il canto di Lúthien al cospetto di Mandos fu il più bello che mai sia stato composto in parole, il canto più triste che mai il mondo udrà. Immutato, imperituro, ancora lo si canta in Valinor, inaudibile al mondo, e ad ascoltarlo i Valar si rattristano. Ché Lúthien intrecciò due temi di parole, quello del dolore degli Elfi e quello della pena per gli Uomini, le Due Stirpi che sono state fatte da Ilúvatar per dimorare in Arda, il Regno della Terra tra le innumerevoli stelle. E mentre gli stava inginocchiata davanti, le lacrime cadevano sui piedi di Mandos come pioggia sulle pietre; e Mandos fu mosso a pietà, come mai era stato prima né mai è stato in seguito.