BES-tiale mercato del lavoro femminile
di Sara Visintin (*)
La “bottega” riprende questo testo perchè l’otto (Lotto) marzo è passato ma le analisi e le indicazioni restano valide.
Anche quest’anno l’8 marzo milioni di donne in tutto il mondo scenderanno in piazza per scioperare contro uno sfruttamento generalizzato che si manifesta in ogni ambito produttivo e riproduttivo. Quest’anno in Italia lo sciopero e la protesta della marea femminista assume particolare importanza e forza, visto il feroce attacco che il governo giallo-verde sta mettendo in campo contro le donne. Dal ddl Pillon al Decreto Salvini su immigrazione e sicurezza, dagli ordini del giorno contro l’aborto, alla Legge finanziaria, emerge con chiarezza un modello sociale improntato sullo slogan Dio, Patria e Famiglia.
In questa società giallo-verde, la donna deve ritornare ad essere l’angelo del focolare, colei che si sacrifica per la cura della famiglia, che perde ogni diritto all’autodeterminazione di sé e che diviene sempre di più soggetto utile al “capitale”, da un lato per compensare i tagli al welfare attraverso il lavoro di cura e dall’altro per sostituire il lavoro maschile ad un costo più basso e con un livello di precarizzazione maggiore.
Guardando nello specifico alla condizione del lavoro produttivo e riproduttivo, da tempo il capitalismo ha fatto proprio un approccio patriarcale. Infatti, i processi di femminilizzazione del lavoro, non rappresentano soltanto l’ingresso delle donne all’interno del mercato del lavoro, ma rappresentano un sistema di produzione che fa proprio il modello del lavoro riproduttivo e di cura. Femminilizzazione, dunque, non solo come nuovo modello di inclusione subordinata del lavoro delle donne, ma anche come “metafora” dei processi di valorizzazione capitalistici che investono il lavoro di entrambi i generi, estendendo le caratteristiche del lavoro non pagato e di cura anche al lavoro pagato e produttivo.
La femminilizzazione del lavoro si fonda sullo sfruttamento del corpo e sulla disponibilità totale del tempo di lavoro e di vita. Precarizzazione e femminilizzazione quali forme di un pervasivo potere di dominio capitalistico, che dispone delle vite, tanto nel processo di produzione, quanto in quello di riproduzione e di circolazione.
Analizzando i dati contenuti sul lavoro femminile indicati all’interno del bilancio ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), emerge un quadro fortemente negativo della condizione occupazionale della donna e un aumento della precarizzazione del lavoro in generale soprattutto per donne, migranti e giovani. Dai dati è difficile dire che si possa parlare oggi di benessere equo e sostenibile.
In particolare i dati relativi all’instabilità lavorativa e all’aumento di contratti a termine è peggiorato rispetto al 2010.
Nonostante negli ultimi due anni sia aumentato il tasso di occupazione femminile (calcolato sulla fascia 20-64 anni), alla fine del 2017 solo il 53,2% delle donne risulta essere occupata, contro il 72,3% degli uomini. L’Italia rimane al penultimo posto della classifica europea del differenziale di genere per l’occupazione (UE a 28) seguita dalla Grecia. Se a questo dato si affianca quello relativo al rapporto fra i tassi di occupazione (25-49 anni) delle donne con figli in età prescolare e delle donne senza figli, è evidente che a essere maggiormente penalizzate sono le donne con figli piccoli.
Per 100 donne senza figli occupate, sono 75 quelle occupate con figli in età prescolare. E il dato registra una costante diminuzione rispetto al 2015. Sezionando il dato secondo il grado di istruzione il rapporto cambia: migliora per le donne istruite e peggiora per le donne con scarsa scolarizzazione passando da quasi un 90% fra le laureate a un 55,6% fra le donne con la terza media.
Resta critico anche il divario di genere: una lavoratrice dipendente su 9 (11,7%) prende una paga inferiore alla media mentre questo accade a un uomo su 12 (8,7%) intendendo una paga minore del 66% rispetto a quella media. E’ un dato che, analizzato con altri indicatori, dimostra come le donne comunque percepiscano un salario inferiore agli uomini oppure simile agli uomini con bassa istruzione pur trattandosi di donne istruite.
Il 43,3% delle donne percepisce un reddito da lavoro rispetto al 62% dei maschi. Prendendo come base le donne laureate solo il 76,8% percepisce un reddito da lavoro contro l’81,5% dei maschi con laurea. Inoltre una donna guadagna circa il 24% in meno di un collega maschio.
La qualità del lavoro femminile è ancora svantaggiata rispetto a quella maschile. La quota di occupate con contratti a termine da almeno 5 anni è il 19,6% contro il 17,7% degli uomini. Le occupate con un livello di istruzione più alto di quello maggiormente richiesto per il lavoro svolto sono il 25,7% rispetto al 22,4% degli uomini e le donne con un contratto part time involontario sono il 19,1% mentre gli uomini sono il 6,5%. Nel 2017 quasi un quarto della popolazione femminile, pur volendo lavorare, si trova esclusa dal mercato del lavoro.
Il confronto peggiora se si introduce il dato della cittadinanza. Le donne migranti subiscono una doppia discriminazione rispetto agli uomini. Il dato delle migranti che percepiscono una bassa paga arriva al 30% contro il 12% circa delle italiane, contro il 20% degli uomini stranieri e il 9% circa dei maschi italiani. Si tratta in questo caso di vero e proprio sfruttamento lavorativo molto visibile nei lavori di cura (badanti e assistenti domiciliari), fra le addette alle pulizie, in agricoltura e nel settore alberghiero. Quasi il 27% delle donne straniere è in condizione di povertà assoluta. In un Paese che invecchia, le donne migranti si sostituiscono allo Stato sociale che non c’è più, anche se teoricamente dovrebbe essere ampiamente finanziato dalla fiscalità generale, che detto volgarmente sono le tasse che paghiamo, o meglio detto, che solo alcun* pagano!
Le donne dunque risultano essere tagliate fuori dal mercato del lavoro e spesso scarsamente retribuite. Quelle che negli anni si sono dedicate alla cura della famiglia o hanno ottenuto solo lavori precari o part-time percepiscono una pensione minima al limite della sopravvivenza. Ma il BES non prende in considerazione gli effetti che le differenze di genere in abito lavorativo producono sulle donne in età pensionabile. I dati statistici sulla condizione delle pensionate, comunque rilevati dall’ISTAT (anno 2016) dimostrano che pur essendo la maggioranza (52,7% di pensionate ovvero circa 8,5 milioni) le donne percepiscono in media un importo mensile di quasi 450 euro inferiore a quello maschile: il 47,6% prende una pensione sotto i mille euro, mentre solo – “solo” si fa per dire: è comunque un dato drammatico – il 29,6% dei pensionati maschi si trova nella stessa situazione.
Alla disparità lavorativa si risponde con scelte politiche che puntano a peggiorare questa situazione. La riduzione del welfare sociale e la proposta di un reddito di cittadinanza che legittima il ricatto di un lavoro sottopagato e un modello familistico a cui non ci si può opporre, mette la donna in una condizione di dipendenza economica e di uscita dal mercato del lavoro, per dedicarsi a tempo pieno al lavoro di cura. Il ddl Pillon e il Decreto Salvini diventano altri due strumenti necessari a garantire questo modello.
Le rivendicazioni del movimento femminista, come il reddito di autodeterminazione e il welfare universale pubblico, contenute all’interno del Piano femminista di NUDM, sono strumenti fondamentali di autonomia e liberazione dalla violenza.
L’intermittenza lavorativa, il lavoro di cura non riconosciuto, il dumping salariale, il gender pay gap e il relazionale messo a profitto, sono elementi che dovrebbero indurci a rivendicare forme di accesso ad un reddito in modo non meramente “ideologico” (dal lato di chi lo rifiuta a priori o di chi lo assume a unico paradigma di liberazione dal ricatto del lavoro salariato), ma come riconoscimento sociale per tutto il complesso di lavoro non retribuito, per scardinare la dicotomia tra lavoro produttivo e riproduttivo e per riappropriarci di parte della ricchezza prodotta da tutto l’insieme del lavoro e del non lavoro.
Se le nostre vite non valgono, noi scioperiamo e scenderemo in piazza contro la violenza economica, lo sfruttamento e la precarietà.
(*) ripreso da https://lavoratoriautoconvocati.wordpress.com