Bibbie, fucili e chitarre. Quando la rivoluzione val bene una «misa»
di Dimitri Papanikas (*)
Era il 1964 quando sulle montagne della Colombia alcune centinaia di contadini decisero di passare alla clandestinità, imbracciare i fucili e dichiarare guerra allo Stato in nome del marxismo-leninismo. L’America Latina si convertiva così in originale fucina di movimenti rivoluzionari intenti a proclamare ciascuno la propria via all’autodeterminazione del pueblo.
A partire da allora sarà sempre più difficile enumerarne le infinite declinazioni. Forze armate rivoluzionarie, Fronte ed Esercito (entrambi autonominati «di liberazione nazionale»), Esercito «popolare» di liberazione in Colombia, peronisti cattolici (montoneros) e marxisti dell’Esercito rivoluzionario del popolo argentini, sandinisti nicaraguensi, tupamaros uruguaiani, Fmln salvadoregni, movimento di Sinistra rivoluzionaria cilena fino ai sendero luminoso peruviani, per citare solo i più famosi.
Un sogno rivoluzionario d’altri tempi in cui particolare scalpore suscitò la presenza di una nutrita schiera di esponenti del clero. Preti, frati e monache che, abbandonati gli abiti talari per l’uniforme mimetica, con la bibbia in una mano e il fucile nell’altra, iniziarono a combattere per una salvezza del corpo come premessa per quella dell’anima. Il paradiso in terra, contro i soprusi del «padrone», in nome di una classe subalterna che, per la prima volta, si riconosceva finalmente protagonista della Storia.
Un sogno di liberazione in nome di un socialismo cristiano in cui Dio andava a braccetto con Marx, il Capitale con la Bibbia, l’acquasantiera con la mitragliatrice. L’ultima grande utopia del XX secolo. Una rivoluzione proibita… La Santa Rivoluzione.
Questo esercito della salvezza composto dagli oppressi di tutto il mondo uniti, animati in molti casi da rampolli di buona famiglia educati nei migliori collegi e università cattoliche, nelle comunità ecclesiastiche di base brasiliane, si preparava a imbracciare il fucile per una lotta armata cristiana e socialista. Giovani universitari mossi da buone intenzioni e da una certa dose di retorica sulla «bella morte», sul culto dell’eroe, sul «vivere come santi» in trincee equiparate alle catacombe dei primi cristiani in clandestinità vivevano il sacrificio del saper «convivere con la morte» fino al martirio, nutriti di un romanticismo rivoluzionario che vedeva nella solidarietà di classe, da preferire a qualsiasi autocompiaciuta etica di beneficenza di Stato, l’unica via possibile per la redenzione in terra.
Grazie alle aperture dogmatiche proclamate dal Concilio Vaticano II del 1965 e dalla successiva Conferenza dell’Episcopato Latinoamericano di Medellín del 1968, le comunità ecclesiastiche di base e il movimento dei sacerdoti per il Terzo Mondo diedero vita al più straordinario processo di rinnovamento interno alla Chiesa degli ultimi cinque secoli. Nasceva così la Teologia della Liberazione, una corrente del cattolicesimo militante in aperta opposizione alle gerarchie ecclesiastiche. Principale oggetto della discordia fu l’inedita critica al monopolio dell’uso legale della violenza in nome del: «Riprendete da Cesare quel che è vostro e date a Dio quello che è di Dio».
A parte la buona fede di molti, il limite di questo movimento fu forse il suo apparato ideologico dogmatico, poco propenso al dubbio e ad una onesta critica radicale dell’esistente. Oltre alla responsabilità non dei «fini» ma delle «modalità» delle proprie azioni, con le immancabili detenzioni e fucilazioni esemplari di traditori, disertori e «controrivoluzionari», tanto per gradire.
Tra i più convinti sostenitori della lotta armata ricordiamo padre Camilo Torres, morto nel 1964 durante il suo primo combattimento nelle file dell’Esercito di liberazione nazionale sulle montagne della Colombia e immediatamente convertito in martire, come una sorta di Che Guevara cristiano ante litteram. Fu quindi la volta di Antonio Llidó, un prete spagnolo che, arrivato in Cile nel 1969, si convertì presto in dirigente del Mir, il movimento della Sinistra Rivoluzionaria, per passare alla clandestinità e cadere sotto i colpi della dittatura di Pinochet. Dal 1974 è desaparecido.
Quattro mesi prima della sparizione di Llidó, in Argentina, veniva assassinato padre Carlos Mujica, un sacerdote le cui teorie sull’uso della mitragliatrice contro l’ingiustizia educarono centinaia di ragazzi a una ricerca «attiva» del proprio diritto all’esistenza. I suoi continui richiami alla giustizia sociale, sotto l’egida di un peronismo cattolico che difese fino all’ultimo dei suoi giorni, gli regalarono una popolarità mediatica che dura tutt’oggi. Quattro mesi dopo il suo assassinio, la Rca pubblicava la sua Misa para el Tercer Mundo, una messa cantata il cui testo Mujica aveva appena terminato di scrivere con la collaborazione del Grupo Vocal Argentino che la musicò con ritmi indigeni latinoamericani, africani ed asiatici.
Le 50 mila copie del disco, dedicato al movimento dei Sacerdoti per il Terzo Mondo, furono immediatamente ritirate dal commercio e distrutte, insieme alle matrici, dagli emissari del governo di Isabelita Perón. Ad ogni modo, nonostante gli evidenti sforzi del censore di sequestrare ed estirpare dal vocabolario parole come «lotta», «ingiustizia» e «sfruttamento», cui Mujica faceva esplicito riferimento, giungendo a paragonare Gesù a Che Guevara, attraverso l’utilizzo del termine «uomo nuovo» (estrapolato dalla mistica guevariana di quegli anni), l’opera si salvò per puro caso grazie a una copia sfuggita all’epurazione. Fu così che dopo più di trent’anni, nel 2007, fu nuovamente pubblicata dalla Sony a parziale regolamento di conti con la Storia.
Mai prima di allora in America Latina cristianesimo e rivoluzione si erano incontrati in forma così esplicita in un prodotto discografico firmato, caso ancora più eclatante, da un membro del clero. Una novità assoluta per l’epoca resa possibile dalle risoluzioni del Concilio vaticano II del 1965. Se da un lato la liturgia tradizionale abbandonava il latino per divenire più universale, dall’altro la gerarchia ecclesiastica accettava per la prima volta la musica popolare come strumento di evangelizzazione. Fu così che al fianco del tradizionale organo, cominciarono a comparire i primi strumenti acustici, elettrici, elettronici e del folclore. Abbandonati il canto gregoriano e la polifonia, la Chiesa si metteva in gioco scoprendo che il mercato e la società dei consumi non erano necessariamente figli del diavolo ma, se ben utilizzati, potevano convertirsi in valido strumento di evangelizzazione.
Primo timido esempio di questo rinnovamento era stata la Misa criolla, un’opera composta dal pianista argentino Ariel Ramírez su testi liturgici ufficiali. Registrata nel 1964 fu portata al successo dal gruppo folcloristico Los Fronterizos. Una messa secolare a tempo di carnavalito, estilo, chacarera, vidala e baguala e ritmi andini in cui per la prima volta il folclore si sostituiva alla tradizionale polifonia liturgica cristiana per favorire un messaggio universale.
Per assistere a un rinnovamento effettivo dei testi, e la comparsa dei primi cenni espliciti alla «rivoluzione», bisognerà attendere il lavoro di Mujica e, soprattutto, la celebre Misa Campesina Nicaraguense. Spiritualità latinoamericana a ritmo di mazurca, son, miskitu sulle note composte nel 1975 da Carlos Mejía Godoy e Pablo Martínez Téllez per il Taller de Sonido Popular. Una messa che raccontava la storia di un dio contadino e operaio, vittima dell’ingiustizia di una società malata. Quanto basta per convertirsi in poco tempo nella colonna sonora della rivoluzione sandinista in Nicaragua e più in generale di tutti i popoli in guerra per la propria autodeterminazione.
La seconda presentazione, programmata nella piazza principale dell’attuale Ciudad Sandino, fu interrotta dalle forze dell’ordine e i fedeli dispersi dai lacrimogeni della polizia del dittatore Somoza. Dal 1976 il suo uso liturgico continua a essere proibito dalle gerarchie della Chiesa del Nicaragua, perché considerata eretica e blasfema. Non è difficile immaginare infatti lo scandalo che provocarono con versi come: «Tu sei il Dio dei poveri, il Dio umano e semplice, il Dio che suda per la strada… perché sei il Dio operaio, il Dio dei poveri, il Cristo lavoratore».
La prima registrazione dell’opera si realizzò in una Madrid appena uscita da quarant’anni di dittatura, in versione pop, con l’Orchestra Sinfonica di Londra e solisti come Miguel Bosé e Ana Belén. Il disco, prodotto dalla Cbs, vendette 50 mila copie in due mesi e regalò una certa fama ad artisti simbolo della Rivoluzione come i fratelli Carlos e Luis Enrique Mejía Godoy e il complesso Los de Palacagüina.
Franklin Quezada, Paulino Espinoza e Roberto Quezada, fondatori del gruppo Yolocamba ItaYolocamba-Itá. In questo 2016 si sono aggiudicati il Premio Nacional de la Cultura in Salvador.
Un anno dopo la vittoria del fronte sandinista in Nicaragua del 1979, a pochi chilometri di distanza, si pubblicava Misa Popular Salvadoreña, composta in un paese in preda a una violenta guerra civile dal gruppo musicale Yolocamba-Itá. Un insieme di musicisti mosso dal desiderio di recuperare le tradizioni della propria terra, per unirle alle istanze rivendicative di un popolo impegnato a fianco del Fmln a lottare per la sua libertà. L’opera, pubblicata per la prima volta in Messico durante l’esilio della band nell’agosto del 1980, ispirata alle prediche di monsignor Romero, il vescovo di San Salvador assassinato dalla Guardia Nazionale mentre celebrava la messa nel marzo del 1980, fece rapidamente il giro del mondo e fu pubblicata in Canada, Colombia, Finlandia, Nicaragua, Stati Uniti, Svezia e Olanda.
Come scrive Sergio Ramirez, ex membro del governo sandinista e oggi tra le voci più critiche della deriva messianica e populista intrapresa dal presidente Ortega, «la nostra rivoluzione non portò la giustizia sperata per gli oppressi, né ricchezza e sviluppo, però lasciò come suo frutto migliore la democrazia». E, citando Dickens, prosegue: «Io sono stato lì e continuo a credere che fu il migliore dei tempi, che fu il peggiore dei tempi: fu tempo di saggezza e follia; fu un’epoca di fede, incredulità; fu una stagione di fulgore, di tenebre; fu la primavera della speranza, fu l’inverno della disperazione». Molti di quei leader carismatici furono così trasformati negli anni a venire in superstars di una società dei consumi che finì per fagocitarli, neutralizzandone molte delle buone intenzioni, in una miscela di lotta di classe e cultura pop.
(*) tratto da il manifesto del 7 dicembre 2016