«Black Mirror», l’uomo e la macchina

di Paola Del Zoppo (*)

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«Black Mirror», per chi ancora non ne avesse sentito parlare abbastanza, è una serie tv di origine britannica nata con tematiche socio-fantascientifiche. Di fondo, apparentemente, il filo che lega le puntate è una sorta di paranoia per i possibili sviluppi della tecnologia e una conseguente progressiva disumanizzazione. Si tratta di una serie “antologica”: ogni puntata rappresenta una storia a sé, un racconto slegato dagli altri. Le prime due serie erano andate in onda su Channel 4 tra il 2011 e il 2014, mentre la terza serie è uscita su Netflix il 21 ottobre scorso e consta di sei puntate. Ogni episodio, fin dalla prima puntata della prima serie, mette in scena un diverso “perturbante” legato alla tecnologia e ai suoi pericoli, che trasforma la società futura o del vicino futuro in un mondo orribile. Trasferita su Netflix, la serie si impegna a dare un carattere più internazionale alle storie, il che implica l’abbandono di alcune tonalità “British”, a partire dal primo episodio, e con più chiarezza ad esempio nel secondo, in cui il protagonista è quasi una caricatura del tipico ragazzone americano. Anche le tematiche si spostano lievemente e per esempio i soldati–arma di «Man Against Fire» (Gli uomini e il fuoco) sono un tema apparentemente più statunitense.

Sembra però più evidente anche un lieve spostamento del focus sul ruolo e lo “scopo” dell’umano, sulla possibilità percepita e reale del tenersi vicini all’umanità intesa anche come socialità e capacità di relazionarsi con autenticità all’interno delle dinamiche di sviluppo di una presunta supremazia tecnologica, e volendo andare più a fondo su cosa sia da considerarsi umano e cosa possa portare all’autonomia nello sviluppo e nel mantenimento della propria umanità.

Il primo episodio della nuova serie, «Caduta libera» (“Nosedive”) all’occhio dello spettatore adulto, attento e smaliziato non ha quasi nulla di fantascientifico: la situazione odierna di supremazia dell’identità “social” rispetto alla realtà e complessità delle relazioni piene e ricche date dal contatto umano. La protagonista, Lacie, fa di tutto per far salire le sue quotazioni su un social che valuta le persone e le loro azioni “pubblicate” in una scala da uno a cinque stelle. Il salto – apparente – nel futuro sarebbe l’effetto reale di queste quotazioni sulla società. Nel mondo di Lacie, l’effetto delle stelle e quindi delle quotazioni è assolutamente reale, e determina la classe sociale a cui si appartiene, ciò che si può o non si può acquistare o ottenere (un tipo di biglietto in aereo, un tipo di casa) e di fatto Lacie pian piano trascura tutte le sue relazioni non “utili”, scegliendo quelle che possono invece farla salire di quotazione. A ben guardare, l’episodio si limita a mettere in scena, a tradurre in momenti concreti, ciò che accade in un mondo in cui le persone impiegano il loro tempo a diffondere “immagini di sé” piuttosto che a vivere un sé concreto e complesso, a semplificare la loro vita e le loro relazioni per renderle fruibili e normalizzate, comunicabili, apprezzabili con uno o più “like” o “reazioni” per esempio su FB (anche se il social rappresentato sembra più simile a una specie di Instagram).

Una caratteristica interessante di tutta la terza serie è il disorientamento dato dal rovesciamento continuo delle prospettive e soprattutto dei momenti finali, con una tecnica narrativa che sfasa il pointe finiale tipico della short story e rovescia completamente ogni possibile idea di catarsi, annullando e inducendo lo spettatore a rivalutare a ritroso la narrazione.

Spesso – e inizialmente può sembrare uno dei difetti della serie – dopo pochi minuti di trasmissione, lo spettatore ha l’impressione di aver già capito dove “si vuole andare a parare” e non viene stupito dal finale. Ma la dislocazione perturbante sta proprio nel riconoscere che il pointe era in un momento precedente e che la/il protagonista qualunque sia il finale (e alle discussioni tra amici si presta benissimo la questione “è finito bene o male questo episodio?”) perde un’occasione di restare più profondamente umana. Per esempio proprio in «Caduta libera» la regressiva perdita di controllo di Lucie forse non le offre una via d’uscita verso delle relazioni più autentiche, bensì la accompagna a una “rovina” sempre più evidente perché non possiede alcuno strumento per liberarsi davvero: non esiste una terza via, o si segue o si è contro la società. Non esiste un “terzo” pensiero, un pensiero nuovo, autonomo, a-categoriale. Il finale non è un’apertura, ma una evidenziazione del cedimento alla disumana dicotomizzazione.

Nel terzo episodio, «Zitto e balla» (Shut up and dance), un ragazzino, Kenny viene ricattato da alcuni hacker per aver compiuto atti osceni davanti alla telecamera del pc, e minacciato che si renda pubblico ciò che ha fatto. In un susseguirsi di eventi, i ricattatori/hacker fanno in modo che Kenny incontri altri personaggi a loro volta ricattati per aver compiuto atti osceni. L’incontro più importante è con Hector, scoperto ad attendere una prostituta in un hotel e minacciato di veder rovinato il proprio matrimonio. Quando i due si incontrano lo spettatore avverte una vaga speranza di una svolta, o almeno della possibilità di una condivisione: almeno i personaggi hanno la possibilità di avere un compagno, qualcuno che percepisca ciò che stanno passando, magari si arriverà a una ribellione, a una soluzione creativa rispetto alle possibilità date. Ma si torna poi alla vecchia routine, perché non sono gli eventi a guidare i personaggi ma la paura, il terrore della vergogna basata sul presunto giudizio sulle perversioni sessuali, probabilmente condiviso dai personaggi stessi: il vero tema dell’episodio non è l’hackeraggio ma, di nuovo, la sfiducia nell’umanità. La spinta all’azione è la minaccia che le azioni “negative” vengano rivelate, rovinando le vite affettive e relazionali di chi è coinvolto. Finisce bene o male? È la tecnologia (la possibilità di essere spiati) che induce a compiere atti disumani o si tratta semplicemente della rappresentazione di ciò che è sempre stato, e cioè la rappresentazione di un’umanità prona a un’organizzazione sociale basata su schemi e categorie, su cui ovviamente la tecnologia può avere presa perché prevedibili? E se una delle vittime minacciate scegliesse di affrontare i propri cari rispetto all’errore commesso, se fosse possibile la fiducia, il contemplare l’idea di un “perdono”, di una ricostruzione della relazione al di là dell’errore e del fallimento?

Nel quarto episodio, «San Junipero», si affrontano una quantità di tematiche difficili anche solo da elencare: l’innamoramento e l’autenticità dei sentimenti, la disabilità, il fine vita, la depressione, la dignità dell’amore omosessuale e i pericoli del moralismo, e la dicotomia più evidente è tra l’accettazione della propria finitezza e dunque di ciò che dobbiamo o possiamo fare con i giorni che ci sono dati. La possibilità di mantenersi in un infinito aldilà artificiale che tenga in virtuale esistenza ciò che noi decidiamo rimanga della nostra umanità (l’esistenza di un’anima?) e dunque la negazione della morte come senso della vita, è forse un riscatto per le sofferenze della vita? Essere inseriti in una fila infinita di chip di memoria che ci permettano di continuare all’infinito una vita di “divertimenti” può essere la sostituzione di un aldilà che nei concetti religiosi comincia a vacillare perché legato a un impegno che l’essere umano non vuole più sviluppare? La scena più toccante dell’episodio è forse quella in cui Kelly, con rabbia, racconta a Yorkie cosa sia stato il suo lungo matrimonio con il marito, 49 anni «la noia mortale, la felicità…», racconta un’unione vera e autentica «abbiamo avuto una figlia, persa a 39 anni, e abbiamo provato lo stesso dolore», ragionamento che dal canto suo la ragazza non può recepire perché non ha mai avuto la possibilità di scontrarsi con la vita autentica e che la porta a riconoscere nell’amata solo un falso attaccamento a un marito che ha scelto invece di morire, di “abbandonarla”, cioè di accettare la fine di quella vita vissuta – supponiamo – nella percezione della propria finitezza. L’amore tra Kelly e Yorkie non è comodo per nessuna delle due e in un perfetto rovesciamento Kelly dà a Yorkie un motivo per vivere, che la ragazza non ha mai avuto; ma per restare con lei deve rompere con ciò che di più profondamente umano ha riempito la sua vita. E quindi il lieto fine dov’è? Nella possibilità delle “anime” delle due protagoniste di “amarsi” per sempre, in un viaggio infinito in un Luna Park eterno?

«Black Mirror» mette quindi in scena non tanto un mondo irreale o lontanamente fantascientifico, quanto delle piccole dislocazioni tecnologiche che lasciano emergere il progressivo e quotidiano abdicare dell’umano alla ricerca di sé stesso e il pericolo dell’abbandono all’eterodirezione. Niente di nuovo, allora. Resta però il punto che pochi prodotti – televisivi prima – di Netflix ora raggiungono questo livello di profondità, intelligenza e denuncia sociale, e sono di larga fruizione. Mentre molte serie, più o meno riuscite, dipingono mondi futuri distopici, «Black Mirror» si gioca sull’intenzionalità di mostrare qualcosa di profondo e condiviso nella nostra quotidiana e tenerissima miseria, nella nostra incessante lotta per la sopravvivenza e della nostra cecità alle possibilità di raggiungere una felicità reale, che conduce al giudizio acritico di relazioni più complesse e alla ricerca di surrogati di serenità e successo completamente staccati dai fili della personalità, della ricerca di sé e del suo sviluppo. Il tutto è assemblato in un equilibrio dinamico tra la rappresentazione della paranoia tecnologica, un compiuto realismo psicologico e la denuncia della disumanizzazione, della decisione di “appaltare” la nostra umana scelta e possibilità di sbagliare e soffrire a qualcosa che umano non è. Colpisce per esempio anche la figura negativa associata allo “psicanalista/psicoterapeuta”. Una metafora? O forse addirittura una critica poco velata a quelle figure di terapeuti che si limitano a guidare gli individui sui binari delle categorie collettive, proponendo finti desideri e persino finte (de-?)stimolazioni sessuali (laddove l’amore dev’essere peraltro facilmente classificabile e dunque coincidente con l’attrazione sessuale contenuta nella coppia); una figura di psicanalista che giustifica finte “liberazioni”, a cui ormai molti preferiscon o appaltare il livello decisionale delle proprie vite. Ed infatti sarà proprio lo psicologo che infine, restando nel suo ruolo, propone una finta scelta: «Ti omologhi o soffri?». Una terza via non è data.

Il messaggio della nuova fantascienza è che non è la tecnologia a doverci spaventare, non è il sopravvento della macchina sull’uomo; il perturbante, proprio come nei vecchi romanzi gotici, arriva dall’animo. I tempi di «Io Robot» o «Terminator» sono lontani e lontani i film come «Blade Runner» in cui la finitezza dell’umanità era per gli androidi qualcosa di “desiderato”. Le storie in cui le intelligenze artificiali soffrono del non poter essere considerati alla pari degli umani, o vivono nell’illusione di esserlo, sono rovesciate. Qui è l’umanità, spesso ridotta a schema, superficialità e sofferenza, che può scegliere di vivere della giustificazione dell’automa, della freddezza dell’androide, del livello decisionale della razionalità, bruciando la tenerezza e l’intimità in amour fou privi di ogni umana follia, possibilmente con un livello di autonomia psichica ridotto, e un livello di comunità da poter classificare in base alla produttività e da dare in pasto ad amici virtuali.

(*) ripreso da «Comune info». Paola Del Zoppo è ricercatrice e traduttrice di letteratura tedesca, educatrice, si occupa di studi culturali.

 

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