Brasile: gli emigranti anarchici italiani tra lavoro e anarchia
di David Lifodi (*)
Per celebrare il 1 maggio non c’è modo migliore che proporre una riflessione sul documentato saggio storico di Elena Bignami, “Emigrazione femminile in Brasile. Tra lavoro e anarchia”, risalente al 2009, ma ancora attualissimo. La migrazione verso il Brasile, e in particolare nello stato di San Paolo, di numerosi anarchici e anarchiche, mette in rilievo non solo il tentativo di costruire una società “altra” nel più grande paese sudamericano, a partire dall’esperienza della Colonia Cecilia, ma anche la lotta, non sempre andata a buon fine, delle donne per emanciparsi dai vecchi pregiudizi borghesi e la subdola strategia del capitale che faceva di tutto per attrarre nuova forza lavoro dall’estero per poi poterla sfruttare come ai tempi della schiavitù.
Del resto, l’abolizione della schiavitù in Brasile, avvenuta nel 1888, coincise con uno dei maggiori periodi di miseria del bracciantato italiano. Fu così che, proclamata la Repubblica Federale brasiliana nel 1889, le elites individuarono nel migrante italiano non solo “un buon lavoratore e un buon cittadino”, ma anche il portatore “della fede cristiana, della dedizione al lavoro e alla famiglia”, i caratteri necessari per importare gente di pelle bianca in un paese in prevalenza nero. La promessa di distribuire lotti di terra agli immigrati italiani fece il resto: i fazendeiros presentavano il Brasile come la terra dalle molteplici opportunità e reclutare le famiglie di braccianti italiani non fu difficile. Tuttavia la Sociedade Promotora de Imigração, che riuniva i fazendeiros dello stato di San Paolo, se da un lato individuava nella famiglia patriarcale italiana il cavallo di Troia per permeare a loro immagine e somiglianza la neonata Repubblica Federale brasiliana (le donne, oltre a lavorare la terra, dovevano prendersi cura della famiglia e svolgere il pesante lavoro domestico), dall’altro non immaginava che a mettere in discussione questo ordine di cose sarebbe sorta la Colonia Cecilia, nata sull’esempio delle società agricole cooperative sorte in alcune località italiane. Progetto di stampo libertario, la Colonia Cecilia, almeno a parole, rappresentava l’esatto contrario di ciò che sostenevano i fazendeiros, la cui forza però fu tale da trasformare la comune anarchica in un’organizzazione conservatrice. La Colonia Cecilia riprodusse infatti gli stereotipi di quella società che gli anarchici avevano cercato di combattere: gli uomini rappresentavano i soggetti attivi, mentre le donne quelli passivi. Costrette a barcamenarsi tra il lavoro nei campi e quello domestico, le donne della Cecilia finirono per perdere una “straordinaria opportunità di rottura e cambiamento”, passando “da un coinvolgimento alla politica che nel migliore dei casi era una partecipazione fortemente limitata, nel peggiore una tacita imposizione del capofamiglia, che in quanto guida doveva essere seguito dagli altri membri”, ad una vera e propria sottomissione. In questo contesto, se la prima ondata migratoria in Brasile poteva essere definita “artificiale”, cioè caratterizzata dall’attrazione dei fazendeiros e delle elites che finirono per far presa anche sulla comunità anarchica, Elena Bignami racconta la storia di due donne, Maria Gemma Mennocchi e Maria Teresa Carini, protagoniste della cosiddetta “migrazione spontanea”. Nata a Lucca nel 1867, Maria Gemma Mennocchi giunse in Brasile al seguito dell’anarchico romano Gigi Damiani, in fuga dall’Italia a causa delle leggi Crispi del 1894, all’insegna di una vera e propria persecuzione anti-anarchica. Resasi presto indipendente rispetto a Damiani, la Mennocchi tenne la sua prima conferenza anarchica presso il Bar Internazionale di Curitiba, per poi divenire militante del centro femminile Jovens Idealistas e sostenere attivamente le campagne anticlericali e antimilitariste. Tornata di nuovo in Brasile dopo esser stata abbandonata dal marito, costretto a rientrare in Italia a causa di un decreto di espulsione, Maria Gemma Mennocchi utilizzò l’anarchismo come mezzo attraverso cui arrivare ad una nuova vita. Altrettanto avventurosa fu la storia di Maria Teresa Carini, giunta in Brasile come moglie del clarinettista Guido Rocchi, al quale era stata promessa dai familiari di lei. Attratta dal fermento rivoluzionario della comunità anarchica di San Paolo, la donna abbandonò presto il marito per dedicarsi, anch’essa, a tenere conferenze sul femminismo nei circoli socialisti della città paulista. A lei, insieme a Tecla Fabbri e Maria Lopes, è stato attribuito il manifesto dedicato alle donne operaie, As jovens costureiras de São Paulo, pubblicato il 28 luglio 1906 sul periodico libertario A terra livre.
In definitiva, si può dire che, se da un lato furono molti i militanti anarchici emigrati dall’Italia al Brasile nell’ambito di una lunga ondata migratoria, non riuscirono sempre a mettere in discussione l’ordine costituito della società borghese brasiliana, e paulista in particolare, ma si può affermare, senza ombra di dubbio, che il ruolo delle donne fu senz’altro di primo piano, almeno nel caso della Mennocchi e della Carini, capaci di emanciparsi in un contesto di grandi sofferenze dell’universo femminile. Al tempo stesso, allora come oggi, il Brasile era attraversato da sentimenti razzisti, si veda il “calcolo razziale” dei fazendeiros che identificavano nell’immigrato italiano l’uomo dalla pelle bianca e che oggi riemergono nell’esclusione sociale degli afrobrasiliani e, più in generale, della popolazione nera. È stato grazie anche all’emigrazione degli anarchici italiani, e soprattutto dell’attivismo femminile, che i movimenti libertari in Brasile vantano ancora oggi una certa tradizione ed hanno un ruolo rilevante tra le organizzazioni popolari brasiliane.
(*) L’articolo completo di Elena Bignami, da cui ho tratto tutte le informazioni, è stato pubblicato sul sito web del Laboratorio di Storia “Storicamente”.
Qui è possibile leggere l’articolo completo: http://storicamente.org/emigrazione-femminile-in-brasile