Brasile: verso le presidenziali senza Lula?

La persecuzione giudiziaria contro Lula potrebbe spalancare le porte del Planalto ad uno dei politici più retrogradi del Paese dal ritorno della democrazia: Jair Bolsonaro. I sondaggi indicano l’ex presidente come favorito, ma a meno che la Corte suprema non gli permetta di candidarsi alle elezioni di ottobre resterà in carcere.

Un ritratto di Lula di Loretta Emiri, che lo ha conosciuto personalmente nel 1995 e un articolo di David Lifodi sull’attuale scenario politico brasiliano a pochi mesi dalle presidenziali di ottobre.

Dire la mia su Lula è obbligo morale

di Loretta Emiri (*)

Era il 1989 e vivevo a Brasilia. Avevo preso in affitto un mini-bi-locale. Dopo quattordici anni felicemente trascorsi senza, avevo comprato un televisore. Volevo seguire la campagna per l’elezione del presidente della Repubblica Federativa del Brasile. Il candidato delle sinistre era Luiz Inácio Lula da Silva, detto Lula, che non vinse perché il potere economico commissionò, alla rete televisiva che raggiunge praticamente tutto il territorio brasiliano, una campagna di diffamazione nei suoi confronti. Non vinse anche perché l’impomatata immagine dell’antagonista venne dispendiosamente fabbricata a tavolino in uno studio televisivo statunitense. Il prodotto finale convinse democraticamente gli elettori che, al secondo turno, scelsero Fernando Collor. A elezioni avvenute, regalai il televisore al centro sociale della favela Paranoá perché fosse utilizzato in programmi di alfabetizzazione/educazione. Accusato di corruzione politica, a meno di tre anni dall’inizio del mandato presidenziale Collor si dimise prima che fosse approvato il processo di impeachment.

Avevo messo a disposizione di amici la mia casetta in riva al Rio Branco, nella città di Boa Vista, dove continuarono a esservi realizzate riunioni del PT, il Partito dei Lavoratori fondato da Lula. Prima di essere eletto, Lula ha dovuto candidarsi quattro volte. Nel 1994 e 1998 perse al primo turno contro Fernando Henrique Cardoso. Nel 2002, il PT lo candidò di nuovo nonostante i tre precedenti tentativi frustrati ma, a differenza delle altre volte, la decisione fu subordinata al risultato di primarie di partito. Colui che il primo gennaio del 2003 fu insignito della carica di presidente non era più il sindacalista agguerrito che nel 1989 si era candidato per la prima volta. Per riuscire a vincere, Lula dovette rassicurare il potere economico con dichiarazioni, promesse, concessioni, alleanze discutibili.

Conobbi Lula in Italia nel dicembre del 1995, nella città di Tolentino. Una delle persone intervenute per ascoltarlo, gli chiese perché mai avesse perso l’elezione del 1989 contro un energumeno come Collor. Lui rispose che fu per la stessa ragione che portò un energumeno come Berlusconi ad arrivare alla presidenza del Consiglio dei Ministri: i mass media fabbricano personaggi, distruggono reputazioni, manipolano elettori portandoli a eleggere, democraticamente, i candidati imposti dal potere economico.

Nel gennaio del 2003 partecipai al III Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre. Una marea di gente era affluita per ascoltare l’appena eletto Lula. Pochi giorni prima a Brasilia, per il conferimento all’ex metallurgico della carica di Presidente della Repubblica Federativa del Brasile, era intervenuto un milione di persone che aveva trasformato l’evento in gioiosa, colorata, speranzosa festa popolare. Da Porto Alegre Lula sarebbe volato a Davos, dove lo aspettavano i pezzi grossi del capitale finanziario internazionale. Il Forum di Porto Alegre era iniziato proprio per contrapporsi frontalmente a banchieri e capi di stato che in Svizzera realizzavano le loro assemblee annuali, denominate Forum Economico Mondiale. Attivisti presenti a Porto Alegre avrebbero voluto che Lula non partecipasse alla riunione dell’élite finanziaria, per cui si lasciarono andare a proteste varie. Lula ci assicurò che a Davos avrebbe parlato di giustizia sociale, di globalizzazione della solidarietà, di guerra, sì, ma contro la fame nel mondo.

Anni fa, nel servizio di un telegiornale italiano si ridicolizzava il presidente brasiliano perché gli era capitato di commuoversi durante manifestazioni pubbliche. Delle ciclopiche trasformazioni avvenute in ambito sociale ed economico durante i mandati di Lula, in Italia poco si è parlato, naturalmente; ma lacchè, che credono di essere giornalisti, si sono permessi di portarlo in giro perché in grado di provare ed esternare sentimenti umani. Nell’arco dei due mandati del presidente Lula, che non è miliardario, né professore, né tecnico, né superesperto, ma solo operaio, il suo Brasile, grande quasi come l’Europa, si è trasformato da paese terzomondista in emergente potenza economica. È vero anche che la promessa riforma agraria non è stata realizzata; che le aspettative degli indios e dei loro alleati sono state frustrate; che scellerati progetti di cosiddetto sviluppo hanno continuato a violentare l’Amazzonia, che la corruzione è dilagata anche all’interno del Partito dei Lavoratori. Però, è sotto gli occhi di tutti che contro Lula è in atto una vera e propria persecuzione e, se non facessi la mia parte nel denunciarla, sarei una gran vigliacca.

L’accusa che gli hanno mosso contro è quella di possedere un appartamento frutto di tangente. Senza prove, è stato condannato dalla stampa, dalla televisione, da procuratori e giudici venduti, mentre i processi contro tutti gli altri politici brasiliani corrotti, e sono tanti, vengono sistematicamente fatti cadere in prescrizione. L’odio contro Lula è l’odio contro i poveri. Le autorità che l’hanno imprigionato, e lo mantengono isolato in una cella della Polizia Federale, lo tratterebbero meglio se fosse il proprietario d’immensi territori, se grandi compagnie fossero a lui riconducibili, se possedesse fabbricati al mare o a Parigi, se avesse oscene cifre di danaro ben protette all’estero. Il calcolato obiettivo dell’imprigionamento di Lula è quello di tenerlo lontano dalla disputa presidenziale di quest’anno, 2018, perché è lui il candidato che detiene più probabilità di vittoria. Sabato 28 luglio, a Rio de Janeiro è stato realizzato il Festival Lula Libero, con la partecipazione di più di quaranta artisti che hanno denunciato il regime di sequestro giuridico cui Lula è sottoposto; hanno anche dichiarato che l’attuale governo golpista è stato voluto, ed è protetto, dal Ministero Pubblico e dal Supremo Tribunale Federale. Durante la manifestazione è stato lanciato il libro “Lula libero, Lula libro”, nel quale ottantasei nomi eccellenti della letteratura e della cultura, rivendicano il ripristino della democrazia in Brasile e la libertà dell’unico prigioniero politico, Lula, appunto. L’esigenza di dire la mia su Luiz Inácio Lula da Silva si è imposta a partire dall’obbligo morale che sento nei confronti suoi, della giustizia e della verità. So che la mia microscopica presa di posizione si contrappone a calunnie, menzogne e ingiurie mastodontiche, criminosamente riproposte anche dai lacchè italiani che credono di essere giornalisti, però è essa che non mi fa sentire una gran vigliacca.

(*) tratto da Pressenza – 1 agosto

*****************************************************

Presidenziali Brasile: un fronte comune contro Jair Bolsonaro

di David Lifodi

Ad ottobre i brasiliani torneranno alle urne per eleggere il nuovo presidente del paese in un clima surreale. Lula, dato per favorito in tutti i sondaggi, probabilmente non potrà uscire dal carcere, candidarsi e fare campagna elettorale, vista la vera e propria persecuzione giudiziaria di cui è oggetto, e i possibili scenari non sono dei più favorevoli. Difficile, infatti, pensare che un altro candidato petista abbia la possibilità di conquistare il Planalto, così come sembra assai irreale l’ipotesi che a diventare il nuovo presidente del paese sia un candidato espressione della sinistra sociale brasiliana, presente nelle piazze, ma non in grado di mobilitare a livello elettorale un intero paese. In un contesto così confuso il pericolo maggiore è che la presidenza finisca nelle mani di Jair Bolsonaro, espressione della destra brasiliana più retrograda, noto per le sue sparate omofobe, razziste e per la sua dichiarata vicinanza agli ideali del regime militare che prese il potere nel 1964 per lasciarlo soltanto nel 1985.

Attualmente il paese è governato da una pandilla, sostengono molti analisti politici, una banda di criminali senza scrupoli guidati da Michel Temer, il quale, dopo aver fatto il lavoro sporco per Washington e le destre continentali, si appresta a lasciare il Planalto con un indice di gradimento vicino allo zero. Sotto di lui il Congresso è stato popolato da individui ben lontani da un minimo livello etico, morale e intellettuale. Certo, la distanza del Partido dos Trabalhadores con quella che era la sua base sociale è evidente, culminata in una serie di errori conclamati e disastri fin troppo messi a nudo, ma le transnazionali negli ultimi anni hanno avuto garantito il via libera a tutti i loro progetti. Tra gli ultimi, che un Congresso in stato agonizzante approverà comunque a larga maggioranza, quello dell’utilizzo degli agrotossici prodotti negli Stati uniti, ma apertamente vietati in Europa.

Se nell’ultimo mandato di Lula e all’epoca della presidenta Dilma Rousseff, prima del colpo del stato che la spodestasse, entrambi avevano scommesso, erroneamente, su una sorta di pace sociale non dichiarata con il grande latifondo, la bancada ruralista e l’oligarchia terrateniente, che comunque non si è fatta scrupoli nell’eliminare politicamente entrambi, ora occorre fare di tutto affinché la destra, che si tratti di quella conservatrice incarnata da Geraldo Alckmin e dalla cosiddetta ”socialdemocrazia” brasiliana o di quella razzista di Bolsonaro, non arrivi al Planalto. Già negli ultimi mesi la totale impunità di cui sentono di poter godere i sostenitori di un Brasile escludente ha portato all’omicidio di Marielle Franco, la giovane donna del Psol (Partido Socialismo e Liberdade) il cui assassinio ha scosso tutto il mondo.

Per Lula resta un’unica speranza, quella che la Corte Suprema il prossimo 15 agosto gli permetta di potersi candidare alle presidenziali e fare campagna elettorale. La giurisprudenza consentirebbe la partecipazione di candidati condannati in seconda istanza, ma in un paese dove la democrazia è messa a rischio anche dai principali gruppi dell’oligopolio mediatico, per Lula e la sinistra (da quella petista più istituzionale a quella radicale e antagonista), la strada non si preannuncia delle più facili.

Se da una parte si moltiplicano gli appelli per fermare il ritorno del fascismo in Brasile e all’unità delle sinistre, è anche vero che gran parte dei brasiliani si informano mediante le trasmissioni televisive, dove l’ostilità a Lula è tratto caratteristico di tutti i programmi di approfondimento politico. In primo luogo, il grande latifondo mediatico sta cercando di far passare l’idea che il Pt commette un grave errore nell’insistere a candidare Lula, in modo tale che gli elettori si convincano a non votare l’ex presidente in quanto si tratterebbe di un voto a perdere. In secondo luogo, si cerca di gettare fumo negli occhi nei confronti degli elettori sostenendo che le candidature a sinistra di Lula, di Guilherme Boulos (per il Psol) e di Manuela D’Avila (per il Partido Comunista do Brasil), sarebbero espressamente contro l’ex presidente. In realtà, i tre sono tutt’altro che avversari e ritengono opportuna la creazione di un fronte unico delle sinistre contro il golpismo. Infine, nella contesa elettorale peserà anche il ruolo di personaggi assai ambigui come Ciro Gomes e Marina Silva, entrambi noti comunque per la loro avversione nei confronti di Lula.

A proposito delle presidenziali brasiliane è molto interessante l’intervista rilasciata alla rivista uruguayana Brecha dalla sociologa Esther Solano, ricercatrice all’Università di San Paolo. Quest’ultima, partendo dal presupposto che Lula difficilmente potrà uscire dal carcere, ritiene che il Pt faccia comunque bene ad insistere sul suo nome perché è detentore di un capitale politico immenso  di cui non godono altri eventuali candidati petisti, per quanto degnissimi, da Celso Amorim a Fernando Haddad. Per lo stesso motivo, D’Avila e Boulos, leader anche del movimento dei senza tetto, non possono vantare il seguito di Lula. Al tempo stesso, sottolinea Solano,  è altrettanto evidente che la sinistra è ostaggio del Pt e il Partido dos Trabalhadores è prigioniero di Lula, l’unico ad avere una reale opportunità di vittoria.

Quanto alla destra tradizionale, per la quale potrebbero gareggiare lo screditato governatore di San Paolo, Geraldo  Alckmin, anch’esso coinvolto nello scandalo Lava Jato, o l’ex sindaco di San Paolo João Doria, i suoi elettori la potrebbero abbandonare per sostenere Jair Bolsonaro. La sociologa Solano, dalle interviste raccolte, percepisce che chi voterà Bolsonaro lo farà per dare espressione ad un voto di protesta nel segno del pugno duro e della tolleranza zero, come gli statunitensi hanno eletto Trump e i francesi appoggiato Marine Le Pen.

Al contrario del Pt, che ha perso contatto con la gente, con le piazze e con le strade del paese, Bolsonaro si presenta come colui che si occupa delle periferie, incontra le persone e parla un linguaggio molto vicino a quello dell’uomo qualunque. Se le sinistre non prenderanno rapidamente adeguate contromisure un omofobo, razzista e nostalgico della dittatura potrebbe arrivare al Planalto, grazie anche all’aperto sostegno delle chiese evangeliche.

(*) tratto da Peacelink – 4 agosto

David Lifodi
Sono nato a Siena e la mia vera occupazione è presso l'Università di Siena. Nel mio lavoro "ufficioso" collaboro con il sito internet www.peacelink.it, con il blog La Bottega del Barbieri e ogni tanto pubblico articoli su altri siti e riviste riguardo a diritti umani, sindacalismo, politica e storia dell’America latina, questione indigena e agraria, ecologia.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *