Breviario 14: «Ritratto 3»
di Mauro Antonio Miglieruolo
1
Non eravamo migliori dei nostri insegnanti. Eravamo soltanto innocenti. Ai quali capitava di esercitare le medesime leggi dei colpevoli: la sopraffazione. Il branco coalizzato che divorava la sua preda.
I professori di allora, quelli che ho conosciuto fra gli 11 anni e i 18, uno peggio dell’altro. Esclusa una giovane insegnante di diritto alle prime armi, che salvo non perché donna ma perché utilizzava nei nostri confronti bei modi, era disponibile ottemperava meravigliosamente ai propri doveri. Preparata, con ottima capacità docente, dignitosa, priva dell’ansia repressiva che coinvolgeva gli altri (l’essenza della vita scolastica di molti); nonché, mi perdonino le femministe, notevole per quel bello modesto ma intenso che non cerca spazi, non lo permetterebbero la discrezione, il garbo, l’eleganza pura, ma inevitabilmente li trova. Fu la prima luce che rischiarò la penombra perenne del restante “personale docente”. Non ne incontrai altri finché non iniziai a frequentare il Quintino Sella, al centro del ghetto, luogo bellissimo, abitato da una umanità bellissima.
Lì seppi che la scuola poteva essere anche qualcosa in più che autoritarismo e ignoranza. Incontrai un buon professore di Ragioneria. Una accettabile professoressa di computisteria. Uno di matematica che sapeva fare due più due. E, più tardi, nella succursale collocata proprio all’angolo dell’inizio di Viale Trastevere, l’insigne professore CAVALLO, dantista, magistrale insegnante, che non solo ci educò alla comprensione dei classici della lingua Italiana ma, condizione inderogabile per effettivamente amarli, a cercarli nella loro essenza e comprenderli nel profondo del loro sentimento, per ricollocarli nelle nostre vite. I classici valgono nella misura in cui diventano contemporanei, Maestri di vita, oltre che di belle lettere.
Ma limitando il buon ricordo che pure conservo dei cinque anni trascorsi alla Pietro della Valle alla sola insegnate di Diritto, rischio di far precipitare nell’arbitrarietà la severità con la quale rievoco quegli anni.
C’è un secondo insegnante che mi sento di dover salvare: quello di Religione. Nonostante l’essere suo remissivo, pavido e tremebondo, un vero e proprio Don Abbondio, se mai ve ne furono. Uno che della mitezza aveva fatto ragione di vita; che non avrebbe mai dovuto essere tolto dal chiostro e scaraventato nell’inferno della vita moderna. Timoroso, esitante, benevolo, con tanta voglia di rendersi utile. Un po’ troppo libero nel pensiero per indossare senza contraccolpi (siamo negli anni cinquanta) l’abito talare.
Perché l’avessero sguinzagliato pecora tra i lupi, col senno di oggi, è presto detto: che la sua fosse solo paura della vita (o meglio delle condizioni infami nella quali i Datori di Miseria costringono la vita); per il resto coraggioso, intellettualmente troppo coraggioso, portatore del molto coraggio che occorre per indossare la veste talare e nello stesso tempo mantenere una certa libertà di pensiero. Strano non lo abbiano cacciato via addirittura a calci.
Pensate, considerate. Negli anni cinquanta insegnava che l’Inferno non esisteva, perché era impossibile che Dio avesse previsto per i propri figli quel che gli uomini invece prevedevano per i loro simili. Che se mai una qualche sanzione era rintracciabile questa dipendeva dalle scelte delle persone, dalla disarmonia che essi si concedevano, disarmonia che necessariamente li teneva lontani da Dio, la cui essenza era appunto Amore, alias Armonia. Ed era questa lontananza che gli esseri medesimi producevano per sé stessi, l’essenza di ciò che veniva chiamato inferno. Noi avremmo voluto ci parlasse anche di riscatto, di possibili rimedi. Ma oltre aveva rifiutato sempre di spingersi, per non incorrere nelle ire dei superiori. O forse perché non era riuscito a immaginare possibili vie di salvezza.
2
L’ora sua era l’ultima della giornata. La sesta. Non erano previste nella scuola altre seste ore. Quella di religione l’unica programmata. La nostra classe usciva buona ultima, quando tutte le altre si erano svuotate. E dalle finestre arrivavano gli squilli gioiosi della libertà ritrovata di cinquecento altri alunni.
E noi invece noi altri ancora nel grigio dell’aula, ad aspettare l’arrivo del professore di religione. Scoppiando di rabbia ed energie represse. Che moltiplicavano durante i minuti necessari al prete per salire all’ultimo piano dell’aula, affaticandosi lungo empie rampe di scale.
Aspettavamo. Impazienti. E erano urla, strepiti, salti da un banco all’altro, qualcuno che s’accendeva una rapida, eretica sigaretta, qualcun altro che disegnava caricature sulla lavagna, le fazioni che si affrontavano alla rinfusa, lanciando nell’aria altisonanti gridi di battaglia. “Ferro! Ferro!” e “Ammazza! Ammazza!” erano le più frequenti, ammirate e approvate.
Già da lontano il professore di religione udiva gli strepiti e, ormai abituato, procedeva tranquillo verso la classe che gli era stata destinata. Che scocciatura pure per lui, quella sesta ora (figuriamoci per noi)!
Ma appena imboccava il primo corridoio i decibel placavano, scendevano di parecchio.
“Arriva! Arriva!” ci si sussurrava a vicenda. Qualcuno prendeva posto al banco di destinazione. Qualcun altro dove capitava, dato che il suo legittimo era stato illegittimamente occupato (nuovi alterchi), qualcun altro volutamente in piedi, in atteggiamento di sfida. Le grida però, niente più. Parole d’ordine e gridi di battaglia chiusi in un cassetto.
Il professore entrava e aveva inizio la lezione. Per lo più aveva effettivamente inizio. Di religione realmente si parlava. Navigando nel mare aperto delle nostre curiosità piuttosto che all’interno del programma previsto all’inizio dell’anno. A volte l’ascoltavamo volentieri, altre lo contestavamo e prendevamo in giro altrettanto volentieri. Ricordo quella volta che, a proposito di battesimo in prossimità della morte, che sembrava tutti fossimo tenuti a dare (il battesimo, non l’estrema unzione), chiedendo quale liquido fosse permesso adoperare, qualcuno se ne uscì con la domanda se il brodo fosse ammissibile. Rispondemmo da soli:
“Ah, quello sì che è bono!”
Non se la prese. Ci spiegò che per un credente elemento decisivo era sempre l’intenzione. L’intenzione vera dell’anima, non perché creduta, ma perché nel profondo si desiderava la salvezza, tramite battesimo, di quell’anima.
Ne conseguì un silenzio che è l’unico positivo che abbia sperimentato in età scolastica. Toccati in profondità. Il senso di quel silenzio, ahimè, non sono in grado di trasmettervi.
3
Verso la fine dell’anno scolastico, il caldo che finiva d’esasperarci (cosa ci facevamo in quell’aula all’ultimo piano della scuola, mentre fuori era tutto un rigoglio di vita, di possibilità di gioco, di esperienze da consumare), decidemmo d’averne abbastanza. E che a pagarne le spese sarebbe stato l’esimio professore di religione. Non perché fosse il punto debole della falange professorale (lo era); perché prestava la propria opera all’ultima ora, la scuola vuota, nessun testimone, nessuno che potesse metterci davanti uno specchio nel quale leggere la nostra vergogna.
Alcuni dissero:
“Facciamo uno scherzo al professore…”
Si fanno scherzi ai professori? Non so oggi. All’epoca era inimmaginabile. Si trattava di un modo ipocrita di definire un atto concreto di ribellione.
Concordammo subito i particolari. Avremmo chiuso le finestre, fatto il buio totale in aula e poi tutti seduti buoni buoni in silenzio. Per poi esplodere non appena il professore avesse effettuato il suo ingresso nella classe. Raccomandando di evitare i gridi di guerra tipo “sangue! Sangue!”, “ti spacchiamo il culo” e roba simile. Ammettendo i soli “Ferro! Ferro!” e “Mazza! Mazza!” che doveva sostituire il più tradizionale e acconcio “Ammazza! Ammazza!” Cantati, urlati e recitati, nella varietà che ognuno fosse riuscito a inventare.
Detto fatto zitti zitti piano piano raccolti nei banchi, mentre alcuni alla svolta del corridoio sorvegliano le scale, dalle quale avrebbe dovuto apparire (e apparì, infatti) il professore, aspettando impazienti.
Finché la parta si aprì, entrò la luce del corridoio, si richiuse. E una coppia di voci informò.
“Arriva… sta arrivando!”
Da lontano, nel silenzio inaspettato, inaspettato anche per noi, si udirono infatti i passi del prete in arrivo. Che procedeva spedito. E poi esitando. Alla svolta del corridoio non procedette più. Si stava chiedendo, evidentemente, se per caso avesse sbagliato piano, o sbagliato giorno, se non fosse il giovedì giusto (o il martedì giusto: chissenericorda!)
Avendo verificato che tutto era a posto, i passi ripresero. Per fermarsi di nuovo di fronte alla porta chiusa. Anche quella una novità sconcertante.
Poi la porta s’aprì, una mano adunca lo trascinò dentro, la porta si richiuse. E partì l’urlo. Anzi, no le urla. Le mazze e i ferri che si sprecavano. Fantasmi che saltavano sui banchi. E il professore che stava quasi per avere un malore.
Prima di mancare riuscì a tornare alla porta, l’aprì e si diede alla fuga.
Solo allora capimmo l’enormità di quel che avevamo combinato. Le finestre furono immediatamente riaperte. Diramato l’ordine di tornare ai propri posti. I più grandi si diedero a inseguire il professore e a gridargli già da lontano:
“Era uno scherzo! Era tutto uno scherzo! Ci perdoni professore, ci perdoni”
L’argomento giusto: il perdono. Al quale si aggiunse la garanzia dei cinque energumeni che quasi si inginocchiavano.
“La proteggiamo noi prof, non tema, nessuno oserà toccarla.”
Per subito dopo aggiungere.
“Ma era uno scherzo, una cosa per ridere (di chi?) nessuno aveva effettive cattive intenzioni. È l’intenzione che conta, vero?”
Furbastri! Il professore si convinse, ma la lezione lo stesso non poté aver luogo. Ormai eravamo stati scatenati, difficile legarci di nuovo.
E bisognava vederlo il giorno seguente come descrisse la situazione alla Vicepreside davanti alla quale la classe tutta se ne stette con la testa sotto il banco. La voce che ancora tremava. Le mani pure.
“Una cosa terribile, professoressa, da non credersi. Fantasmi che saltavano sui banchi. Urla esagitate. Gridando ferro ferro! In continuazione. E poi un po’ che se ne stavano tutti intorno alla cattedra, fingendo di ascoltarmi, subito dopo errando per la classe, azzuffandosi ed emettendo urla belluine. Io io io…”
Su quell’io io io balbettante, balbettato, parlando a frasi smozzicate, il terrore vissuto quel giorno ancora sotto pelle, s’interruppe. Io io io si rese conto. Anche la Vicepreside. Avremmo fatto una brutta fine tutti quanti. Se la cosa usciva dalla scuola avrebbe assunto proporzioni incontrollabili. La colpa mai più cancellata.
Nel silenzio che seguì a quell’io io io attendemmo la condanna. Che non venne. Al suo posto l’assoluzione. L’intuì per prima la Vicepreside, che annuì con gravità.
Con gravità il prete allora concluse:
“Io io io… io li perdono…”
Sia lode a lui e alle tante brave persone che sono al mondo.