Bruno Zanin: «Nessuno dovrà saperlo»
Intervista di Gianni Sartori (*)
Fra il Veneto, la Bosnia e il mondo: potere, guerra, pedofilia, schei….
Nato nel 1951, lo scrittore Bruno Zanin era già noto come attore. Iniziò interpretando Titta Biondi in «Amarcord» di Federico Fellini, per lavorare in seguito con altri registi come Montaldo, Giordana, Ronconi, Brusati, Ferrara. E poi in teatro: con Strehler al Piccolo, con Lucien Piutilie al Théatre de la Ville a Parigi…
Qualche anno fa, dal suo rifugio in una baita sul Monte Rosa, ha intrapreso una nuova carriera, quella di scrittore. All’epoca il suo libro «Nessuno dovrà saperlo», pubblicato da Tullio Pironti, era stato positivamente recensito dai principali giornali italiani. Recentemente è stato ristampato (in edizione limitata e numerata) da Grafica Veneta: un regalo per il suo 65° compleanno.
Nel romanzo, in gran parte autobiografico, un sacerdote si rende responsabile di un delitto da “macina al collo”.
Ma parliamone con Bruno.
Scrivere questo libro ha rappresentato, mi sembra di capire, anche una catarsi, una liberazione. Naturalmente è anche un libro di denuncia.
«Io fin da ragazzo ho sempre letto, ho letto senza metodo e senza guida. Ho letto di tutto e molto disordinatamente e mi sono fatto una bastarda cultura; ma se non fosse per il mio istinto per così dir primigenio, ignorerei un sacco di cose…Leggere è la prima regola, leggere viene prima di ogni altra cosa per chi vuole dedicarsi alla scrittura, seconda regola è avere storie vere e originali da raccontare. Detto questo, personalmente alla scrittura io ci sono arrivato per un bisogno tutto mio di tirare fuori un mondo segreto e doloroso che mi portavo dentro e premeva per uscire, un peso di cui dovevo per forza liberarmi per poter tornare a vivere. Avevo degli amici- parlo di quando ero ragazzo- a cui scrivevo delle lettere dove raccontavo ciò che mi accadeva in giro per il mondo dove, da quando ero uscito dal correzionale, me ne andavo zaino e sacco a pelo in spalla. Ad un certo punto qualcuno di loro ha cominciato a dire che non scrivevo poi così male e che non erano tutte stupidaggini quelle che raccontavo. Fellini, col quale ebbi una significativa corrispondenza durante e dopo Amarcord, fu uno di questi, ma non il primo. Elsa Morante con la quale dopo aver letto l’Isola di Arturo entrai in contatto sommergendola di lettere, me lo disse che avrei dovuto cominciare a farlo con applicazione e costanza, e me lo ridisse anche Giovanni Comisso quando lesse le sgrammaticate poesie il giorno che lo conobbi, tantissimi anni fa, ma io, io non ho mai creduto a costoro, non davo peso a questi complimenti. E poi ero troppo intento nella mia fuga ad oltranza a scorribandare per il mondo, a barcamenarmi e sopravvivere per fermarmi, sedermi davanti a una macchina da scrivere e farlo. Per me valeva il detto o si vive o si scrive. Se prima ero un sradicato saltafossi senza fissa dimora, in seguito, passato a una vita totalmente diversa dentro il vortice del cinema, vita che non era mia, vita senza tempi morti per poter esistere e restare a galla nella fiera delle vanità chiamata cinema, non avevo nè tempo nè voglia di farlo.
Finchè anni fa, un grande scrittore, Raffaele La Capria, mio vicino di casa a Roma, mi obbligò a farlo il giorno che gli raccontai un fatto accadutomi in Bosnia durante la guerra. Obbedii e la cosa portò dei risultati lusinganti, ebbi una pagina intera sul Corriere della Sera, fu la conferma che potevo scrivere, La Capria mi esortò a continuare e di fare della scrittura un metodo, una disciplina, una ricerca introspettiva. Gli ho dato retta e ho scritto Nessuno dovrà saperlo.
Il libro racconta l’infanzia di un bambino prodigio in una povera famiglia di contadini veneti negli anni 60 destinato da tutti a diventare prete, ma che prete non diventerà; c’ è un intoppo tragico insanabile lì nel collegio dove studia che interrompe quel percorso e vocazione, invece che prete il ragazzino diventerà un piccolo delinquente, un alcolista, un emarginato. Racconta una realtà scabrosa in seno alla chiesa, realtà che se in tempi andati rimaneva sotto traccia, da come sta venendo fuori in questi ultimi anni, pare non abbia riguardato solo il protagonista del mio libro, ma tante altre persone che non avevano allora voce e coraggio per farlo sapere, per chiedere aiuto, per denunciarlo. Mi riferisco alla pedofilia dei preti e alle loro vittime. Il mio libro racconta il percorso doloroso che quel ragazzino uscito dal seminario dovrà fare in un paese di campagna dove, senza alcuna delicatezza, nella totale incomprensione e indifferenza, verrà chiamato “Prete falso “; racconta cosa può essere il dopo per un adolescente che ha subito un abuso da parte di un prete , un ragazzino che trovato il coraggio di raccontarlo al padre non viene creduto ma bastonato perché per l’uomo gli è impossibile credere a una cosa del genere».
Spesso nella storia sono state le vittime a doversi “sentire in colpa”, mentre chi usa violenza trova il modo di autoassolversi. Gli oppressi diventano “colpevoli” di ribellarsi, le donne “colpevoli” di essere state violentate. Un meccanismo ben consolidato per perpetuare il dominio, il controllo. Una tua considerazione in proposito
«Non è semplice capire questo perverso meccanismo che fa sì che chi usa violenza si auto assolve e chi la riceve si sente in colpa. Quello che so è che chi usa violenza lo fa in forza a un potere che detiene e gli viene riconosciuto. Chi la subisce è sempre una persona debole, subordinata o sottomessa a quel potere. Perché succede questo, come mai la vittima non si ribella a volte, potrebbe spiegarlo con termini più appropriati un psicologo, un psicanalista. Io so solo che ero un ragazzino tredicenne totalmente ingenuo e timido, se posso fare riferimento al mio caso personale, il prete che abusò di me era un uomo sapiente, rappresentante di Cristo, un suo ministro, verso il quale andava la mia fiducia e totale obbedienza. Chi e cosa ero io ai suoi occhi e agli occhi del mondo? Nessuno, uno dei tanti; lui invece era un bravo prete, un prete che aveva avuto un momento di debolezza, forse anche due o tre momenti di debolezza, ma era comunque un bravo prete, un ottimo professore ed infatti in seguito ha fatto carriera e io che non valevo niente divenni uno sbandato e poi un delinquente.
A chi avrebbero creduto se avessi denunciato la cosa allora? A me o al bravo prete professore? Ed infatti mio padre non mi credette e mi picchiò. Ora ho potuto farlo perché la cosa è sotto gli occhi di tutti e la Chiesa stessa ai massimi vertici lo ammette e sta facendo mea-culpa».
Il libro evoca una campagna veneta degli anni cinquanta-sessanta. Arretrata, economicamente e culturalmente, ipocrita, talvolta crudele, soprattutto nei confronti di chi sta “fuori dal coro”. Ti sembra che quel mondo oggi sia cambiato? Oppure ha soltanto fatto “i schei”?
«Sono nato a Vigonovo, provincia di Venezia, un paese tagliato in due dal Brenta, che allora aveva una sola strada asfaltata; partiva da un fondale di pioppi, rasentava l’argine per perdersi più avanti allo sguardo e sboccare nel respiro della pianura infinita. E ovunque casolari, campi lavorati, vigneti, stalle, pagliai e odore di fiume e letame. D’inverno la nebbia chiudeva tutto dentro un sacco che si riapriva solo in primavera. Dentro questo paesaggio da favola, di tradizioni, di vita semplice da provare a volte una struggente nostalgia perché non esiste più, c’era anche un mondo di chiusura di diffidenza e pregiudizio, di ignoranza verso il nuovo, il forestiero, il diverso. Oggi il mio paese è tra i più ricchi del nord est industriale, patinato paesaggio dove le ville palladiane si alternano a quelle in stile Hollywood dei nuovi ricchi. Giardini impeccabili, muri di recinzione alti come campanili e dietro questi, cani di razza ariana che ringhiano a chiunque passi accanto. E non vedo quanto sia cambiato e diverso da allora, c’è una apertura solo apparente, una mentalità liberale solo nella forma, ma vai a vedere nel concreto, lo straniero, l’emigrante, il diverso, è accolto ed accettato solo se porta un profitto, se sta tranquillo, se non da troppo nell’occhio e così via. Il mondo di adesso è pervaso da una allegria isterica, una felicità che illumina la vita per qualche ora nei fine settimana e che fa credere che stia accadendo chissà cosa, ma per fortuna né allora ne adesso tutti sono così.
Ci sono stati e ci sono ancora anime belle e generose, tolleranti e accoglienti, solo che non appaiono in tv, non ci tengono ad apparire, farsi applaudire. Qualcosa forse di buono c’è oggi in confronto di allora: hanno chiuso per esempio i manicomi, ora i matti sono tutti fuori e si mescolano ai cosiddetti sani e non si sa più chi lo sia e chi no. Se riaprissero non ci sarebbe posto dove metterli tutti, io sarei tra quelli che rinchiuderebbero per primo».
Negli anni novanta sei stato per tre anni in Bosnia, prima come corrispondente e in seguito come volontario per una ong francese, trasportando viveri e medicinali ai profughi. Hai definito la Bosnia “una patria ideale, da difendere”. Ce ne puoi parlare?
«Preciso che sono stato volontario in un primo tempo, in seguito entrai a far parte dall’ong francese Emmaus Internazionale, fondata dall’Abbè Pierre, come responsabile stipendiato, ma non credo che rifarei ancora una scelta del genere».
Perché?
«Perché ho visto e capito laggiù cose che mi hanno cambiato molti punti di vista, in primis l’ opinione che avevo sulla guerra, sulle guerre in genere e anche sugli aiuti umanitari e le organizzazioni umanitarie di cui ho fatto parte. Lo stesso vale per la politica messa in atto dai responsabili delle parti coinvolte nel conflitto e così per i governi che hanno preso parte alle trattative per risolvere la spinosa questione. In poche parole, per usare un eufemismo, la guerra è comunque e sempre un gran merdaio, dove tutti hanno una buona dose di torto e responsabilità, nessuno ha sufficiente ragione per dire: sono totalmente dalla parte della ragione, sono stato aggredito ingiustamente. Ci saranno anche delle eccezioni, e come tutte le esperienze sono soggettive, se sono arrivato a certe conclusioni non è detto che altri la pensino in modo del tutto opposto.
Cosa è stata per me l’avventura bosniaca? Un giorno, anni fa, sentii alla radio e poi vidi in Tv sequenze tremende di guerra, si parlava di un Paese vicino all’Italia dove accadevano cose inimmaginabili. Passavano al Tg scene raccapriccianti che solitamente si vedono solo nei film: bombardamenti, violenze, villaggi bruciati, gente cacciata dalla propria terra, esodi strazianti di donne e bambini terrorizzati, piangenti. E decisi così su due piedi, senza tanto pensarci, di andare a vedere. Erano l’infelicità o forse la voglia di evadere, l’attrattiva del rischio, che mi spinsero laggiù a cercare un valore e una ragione di vita? Ancora non mi è chiaro. L’ infelicità ha questo di straordinario, che ci fa uscire a volte da noi stessi e frantuma ogni struttura protettiva, ci stana dalla nostra appagante mediocrità per scaraventarci in mare aperto in balia degli eventi e del destino. Ed ecco che partii, in testa una quantità di propositi incantevoli, una chiarezza di coscienza così acuta da esserne eccitato come da uno stimolo fisico, quasi affrontassi una avventura estrema; ma oggi so che forse era più per arrestare la caduta e attutire l’impatto con il fondo del baratro dove stavo precipitando che per portare aiuto a gente che non conoscevo. Poco dopo il mio arrivo incontrai per caso un altro italiano che s’era mosso per una ragione più che nobile, quella di andare laggiù a cercare e portare in salvo la famigliola di un giovane bosniaco musulmano conosciuto a un semaforo di Lecco, rimasta bloccata in un villaggio non lontano da Sarajevo. E mi accodai a quella impresa romantica e sgangherata senza una carta geografica, senza sapere una parola di quella lingua, senza sapere chi combatteva contro chi, senza sapere cos’era una guerra. E quanto più ci inoltravamo nel territorio dove uno spettacolo maestoso si andava presentando ai nostri occhi, un esodo biblico in tutta la sua grandiosità e caos, ovvero migliaia e migliaia di civili in fuga con ogni mezzo, carichi oltre il credibile di masserizie, avvolti da una inverosimile nuvola di polvere, trasfigurati dalla stanchezza, tanto più la mia mente lavorava, tesseva instancabile progetti di protezione e salvezza per quella gente di cui da subito m’ero invaghito, a cui ciecamente mi votai. E quanto più in fretta andava la nostra macchina in direzione opposta a quel flusso senza fine, tanto più ero esaltato dall’immaginazione, avevo come la certezza di essere stato chiamato a una missione dove serviva solo il mio sì, la mia adesione a tempo pieno, la mia furbizia e quanto di meglio o di peggio avevo imparato nella mia strampalata vita. Non tutto mi era chiaro, né razionalmente comprensibile, ma sapevo, sentivo che tutto mi sarebbe stato rivelato, chiarito in seguito. Non ero io a creare le circostanze, queste mi attendevano, erano misteriosamente lì in attesa di me. Si era risvegliato l’idealismo e tutto il romanticismo che da bambino aveva animato il mio cuore, l’ideale cioè di fare il samaritano. Avevo la sensazione di aver ritrovato un cammino perduto, perduto per una colpevole distrazione, e di essere lì lì per rimpossessarmi della mia parte più autentica e genuina. A tal punto ne ero convinto che, una volta che fummo catturati e poi rilasciati dai serbi, mi sono proiettato a capofitto a servire la causa dei musulmani che a buona ragione ritenevo gli aggrediti, le vittime per eccellenza di quella barbarie. E’ stata questa la dinamica e il ragionamento, oppure, oppure ero precipitato senza rendermene conto in un delirio mistico?
Per tutta la durata della guerra fui compenetrato da idealismo astratto ovvero dall’emozione, come si fa a spiegare una cosa del genere? La mia ignoranza della lingua poi mi ha impedito ogni ragionamento e approfondimento sulle questioni che riguardava da vicino quella gente, la mentalità che avevano dacché si erano liberati, dopo decenni di regime comunista, in un paese dove più popoli, più etnie e religioni erano vissute (o erano state costrette a vivere?) insieme. Dominato e affascinato da questa insolita irripetibile avventura mi crogiolavo e mi beavo a essere il buon samaritano giunto al momento giusto nel posto giusto».
In un articolo apparso sul Corriere della sera ricordavi la figura di un mercenario tedesco che combatteva per i bosniaci e che aveva tentato di andarsene, forse disgustato dalla brutalità della guerra. In seguito “Heinz il mercenario” si è tirato un colpo alla testa. Cosa puoi dirci delle “mutazioni” che la guerra produce nelle persone, sia nelle vittime che nei carnefici? Al tempo della Guerra Civile Spagnola, Buenaventura Durruti diceva che “alla guerra si diventa tutti sciacalli”.
«Guarda, ho scritto un altro libro dove questi mutamenti e alchimie che la guerra produce sulle persone sono osservati e raccontati, naturalmente dal mio punto di vista in quanto ero lì presente. La guerra non solo tira fuori ciò che in peggio o in meglio sta nell’uomo e alla massima potenza, ma molto, molto di più essa produce o distrugge. Un esempio lo abbiamo dall’ultima guerra mondiale. Basta guardare ai nazisti, con che raffinatezza e professionalità e genio hanno programmato e poi messo in atto lo sterminio di massa degli ebrei, omosessuali, zingari e testimoni di Geova inclusi. E non eravamo al tempo delle caverne ma in piena epoca di civiltà e progresso scientifico, non barbari ma appartenenti a una nazione cristiana. Oggi se entri in una sala giochi, quali sono i giochi che maggiormente sono gettonati dai ragazzi? Quali videogiochi sono maggiormente venduti per le play station? Quelli di guerra. Perché? Lo sai tu? Beh io meno di te, credo che sia indistruttibile nell’uomo l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento del nemico, e per nemico si intende tutto quello che è diverso e lontano da te. Anche qui da noi dove non si combatte una guerra abbiamo schieramenti pronti a combattere e distruggere ipotetici nemici, troppo facile indovinare di chi parlo. Chi ha detto a proposito dei musulmani che chiedevano una moschea:”che vadano a pregare e a pisciare nel loro deserto”? Un povero mentecatto privo di cultura o un dirigente politico di un certo calibro e livello?
Heinz era un gigante alto 2 metri e passa , finito in Bosnia a fare il mercenario; eppure non è riuscito a compiere il suo sporco lavoro senza esserne sopraffatto, il male fatto si è trasformato in pentimento e vergogna e si è ucciso, ha compiuto alla lettera un precetto evangelico si potrebbe dire, alla macina ha sostituito il mitra. Motivo? Si era reso complice dell’uccisione a sangue freddo di un ragazzino disarmato e indifeso.
Sovente i soldati di ritorno dal fronte venivano in abiti borghesi nel magazzino dove tenevo e distribuivo gli aiuti umanitari che attraverso la mia organizzazione andavano alla popolazione della cittadina dove operavo. Era in una viuzza nella parte vecchia della città; costoro venivano a chiedere qualcosa per i loro bambini e nell’attesa di essere accolti si sedevano sui sacchi di farina o sugli scalini e raccontavano ai ragazzi che mi aiutavano le ultime novità del fronte, le fortunate o catastrofiche offensive o controffensive, le perdite inferte al nemico o subite, gli assalti ai villaggi, descrivendo la situazione, tale villaggio ripreso, tot serbi uccisi, tot fatti prigionieri, tot armi portate via al nemico, tot morti, tot feriti.
Ascoltavo quei discorsi e vedevo che le crudeltà, i massacri, la pulizia etnica che il mondo indignato condannava, sui quali i media versavano fiumi di inchiostro a renderli ancora più raccapriccianti e assurdi, non erano perpetrati solo dai serbi a danno dei poveri musulmani o croati aggrediti, ma anche costoro, che lamentavano d’esserne vittime, similmente le compivano e se non le stesse, di peggiori e più atroci. Ciò che i serbi avevano fatto loro, essi restituivano con gli interessi maturati. E si vantavano pure di compierle queste imprese, le raccontavano come si racconta la trama di un film appena visto o la cronaca di una partita di calcio.
Ero allibito, incredulo, non potevo credere che quei ragazzi cosi apparentemente miti e simpatici, compagnoni, sempre pronti alla battuta, allo scherzo, un tempo contadini, operai, studenti ora soldati per necessità, bravi ragazzi tutto sommato che aiutavano le vecchie nonne a spingere le carriole piene di taniche d’acqua nelle ripide salite e quando c’era un pallone giocavano come ragazzini con i bambini, una volta al fronte si facessero crudeli e sanguinari come dai racconti, capaci di azioni simili… poteva essere vero quello di cui si vantavano? Davvero era indistruttibile nell’uomo l’elemento barbarico e l’istinto elementare dell’annientamento del nemico?
Così, per rendermi conto se erano spacconate o fatti veri, un giorno mi presentai nella caserma di un gruppo di giovani squadristi, la jeep piena di ogni ben di Dio e facendomi patrocinatore della loro squadra di calcio, offrii quel carico al comandante chiedendo, come controparte, un ragionevole favore: poter andare sulla linea da lui presieduta a dare un’occhiata. Questo per poter riferire alla radio per cui lavoravo la vita inumana a cui i suoi ragazzi erano costretti per far fronte alla tracotanza dell’aggressore serbo militarmente superiore. Avrei anche filmato, se me lo acconsentiva, per fare un documentario che uno volta messo a punto era mia intenzione regalare alla città a guerra finita.
Il comandante guardò con soddisfazione la merce che veniva scaricata, fece portare caffè e grappa e dopo alcuni convenevoli di rito e di cortesia tipica dei musulmani, acconsentì. Acconsentì al patto che mi tenessi prudentemente sempre al coperto, non prendessi alcuna iniziativa senza averla concordarla con lui o il suo secondo e non ne facessi voce con il comando di brigata di questo nostro accordo che doveva essere e rimanere riservato e segreto. Ci stringemmo la mano. Affare fatto. Il comandante mi fece accompagnare sul fronte.
La vita di trincea, gli angusti bunker densi di fumo dove l’odore del sudore e della polvere da sparo creava un eccitante lezzo di gioventù votata alla morte, mi avvolse e stravolse conquistandomi. Il mio cuore si aprì e si sciolse per quei soldati così giovani, così mal equipaggiati e malmessi eppure arditi e coraggiosi, saldati insieme da antica frequentazione, dalle avventure adolescenziali, così protesi anima e corpo, uniti e inseparabili nelle azioni. Tornai e ritornai altre volte, feci amicizia e mi legai ad alcuni, i più diretti nei sentimenti; per questi soldati provai una dolorosa ammirazione, mi sentii uno di loro, solo e perduto come loro, generoso e irresponsabile come loro, assetato di grappa e canzoni come loro. E in loro compagnia le giornate volavano via tra dettagliati racconti di terrore e morte, scherzi e lazzi goliardici, giochi di carte, partite a scacchi, lettura di giornali, bevute di grappa, canzoni e caffè, e le notti erano calme e tranquille, nei soldati c’era l’idea che quel tratto di linea fosse sicuro e inattaccabile, e come la zona era in aperta campagna, lontana da qualsiasi obiettivo, strada o presidio strategico, questa convinzione incoraggiava e giustificava. Vi furono comunque delle scaramucce, un paio di azioni di disturbo e in primavera una grossa offensiva, appoggiati da forze provenienti da altri corpi. Vi partecipai rimanendo nelle retrovie. Passai la notte precedente spiando tutto quanto emergeva dalla tenebra dalle colline circostanti battute dai canti dei grilli, notte passata con i ragazzi che si caricavano a vicenda il morale, filmai l’attesa e filmai lo scontro che avvenne all’alba nel folto di un bosco di faggi ai margini di un villaggio musulmano perduto e ripreso più volte. Provai il brivido della guerra in diretta, provai l’ansia di vedere con quale noncuranza e vaghezza quei ragazzi, sani e giovanissimi, il viso pitturato come selvaggi della Amazzonia andassero, con quel terrificante aspetto, ad affrontare i serbi di gran lunga meglio equipaggiati e superiori in armamenti, senza tenere presente gli svantaggi, calcolare gli imprevisti, gli scarsi margini di riuscita che avevano . E il frastuono delle raffiche di mitra, il fragore delle esplosioni delle granate era tale da sospendere ogni facoltà percettiva. Dimmi tu quanto mi bastava a quel punto passare dalla telecamera a imbracciare un mitra? Questa è la guerra, una sorta di gioco perverso dove i morti e i feriti, le distruzioni, il sangue, il dolore sono reali».
Guardando al tuo futuro di scrittore, come vorresti concludere?
«Non ho mai programmato nulla nella mia vita in senso di cosa farò o non farò domani, mi sono sempre lasciato andare al vento delle eventualità e della casualità. Può essere che continui ancora a scrivere- e un paio di libri sono già pronti se è per questo. Mi verrebbe da dire come il grande poeta portoghese Fernando Pessoa che la vita è un viaggio sperimentale fatto involontariamente e la destinazione è ignota. Avrei mai pensato quando a 18 anni calpestavo i marciapiedi di mezza Europa e dormivo sotto un ponte solo e malato di scabbia e guardavo trasognato una troupe che girava non so che film che un giorno ne avrei girato uno da co-protagonista con Federico Fellini ? Avrei mai pensato che il rospo che mi portavo dentro e che mi ha reso un ragazzo solitario e musone oltre che autolesionista sarebbe diventato un giorno un libro e che della gente che mai ho conosciuto e che lo ha letto mi avrebbe scritto lettere tanto belle e incoraggianti?
Veramente io mi aspettavo anche un’altra domanda, quella che mi hanno fatto in molti. Come mai un promettente attore ha abbandonato quella carriera quando ci sono persone che farebbero non si sa cosa per una semplice apparizione in TV?
La verità è questa: innanzitutto era lontano da me anni luce l’idea di diventare attore e questo vuol dire molto. Se non hai l’ambizione, la passione o chiamiamola vocazione per fare una certa cosa e la fai lo stesso, la fai male e stai male, se poi la fai anche bene, e io ero un discreto attore, così almeno diceva la critica di quel tempo, allora sorge dentro di te una voce implacabile e urticante che ti dice: non vedi che ti stai prostituendo? Stai imbrogliando tutti e anche te stesso, nulla di ciò che ottieni con questo mestiere è meritevole, tanto meno il guadagnato, troppo facile, i soldi che ti danno non te li meriti e così le lodi la fama e l’ ammirazione. Questo è quello che ho sentito per tutto il tempo che ho fatto l’attore conducendo una vita non autentica, dissipata e filtrata attraverso questo equivoco. Il malessere è poi cresciuto con la consapevolezza che non riuscivo ad amare assolutamente quel lavoro anche se mi dava l’occasione di vivere dentro una favola. Credo sia stato il bisogno di realtà, la voglia di crescere, di rendermi indipendente, di prendermi cura di me, di sanare vecchie ferite. Ecco, la scrittura mi ha dato questa opportunità. Sono ancora agli inizi, diciamo, agli inizi del cammino, e non è mai troppo tardi per cominciare a mettere a posto le cose, e poi meglio tardi che mai, meglio coltivare il proprio orticello che entrare in un mondo che non è il proprio, un mondo in cui si è destinati solo ad essere usati. Il mio orticello oggi è la scrittura. Con essa voglio avvicinarmi al massimo a quello che sento di essere.
(*) Così Sartori: «Questa esperienza di Bruno Zanin mi sembra un esempio significativo di come il potere (nelle sue molteplici manifestazioni) possa calpestare l’esistenza di tanta gente più o meno indifesa. Segnalo che tempo fa l’articolo venne proposto (ingenuità del sottoscritto?) anche se in forma ridotta a La Voce dei Berici, giornale diocesano vicentino. Mai pubblicato».
Ha parlato uno scrittore solido, efficace soprattutto perché conosce molte angolature da cui guardare il mondo.
Vi ringrazio di avermi dato voce e spazio in questo angolo di libera informazione. Un saluto. Bruno
https://www.corriere.it/cronache/19_gennaio_25/bruno-zanin-il-mio-amarcord-fellini-fui-pagato-come-giardiniere-ab66af84-20cc-11e9-926b-daa18cae285e.shtml
segnalo questo brutto esempio – l’ennesimo – di “crimine legalizzato”. Paradossale.
Comunque un saluto solidale al grande attore e scrittore Bruno Zanin
GS
“Non lo so, ma dobbiamo andare…”
IN MEMORIA DI BRUNO ZANIN PARTITO PER UN ALTRO VIAGGIO…
Gianni Sartori
Avevo conosciuto Bruno Zanin diversi anni fa. Lo avevo intervistato (v. qui l’intervista completa, ripresa in occasione della sua prematura dipartita:
https://centrostudidialogo.com/2024/09/04/veneto-lutti-in-memoria-di-bruno-zanin-di-gianni-sartori/)
e avevamo presentato il suo libro in qualche centro culturale, tra cui uno “alternativo”, a Mestre (in coincidenza con la pubblicazione dell’intervista sul “Germinal” triestino).
Con l’impressione costante – frequentandolo, parlando insieme – che regolarmente si trovasse parecchi passi avanti. Sia culturalmente, sia per esperienze vissute (digerite e in parte metabolizzate), sia per consapevolezza generale sulla vita e sui massimo sistemi. Ma senza tirarsela, disponibile, alla mano.
Altra considerazione personale (ne avevo anche parlato con l’interessato a suo tempo). Per una serie di coincidenze, analogie, affinità elettive etc. mi faceva pensare a due personaggi della cultura e della Storia non omologati, non classificabili (non del tutto almeno). In primis, lo scrittore Jack Kerouac (all’anagrafe Jean-Louis Lebris de Kérouac, franco-canadese con ascendenze bretoni). E qui si gioca in casa: il beat (termine che si presume abbia ideato proprio il Kerouac, forse da beatific), il non poter star fermo troppo a lungo, le canne, una predisposizione – poi innaffiata, concimata e coltivata – alla discontinuità, alla devianza (almeno rispetto ai canoni convenzionali-dominanti).
Fermenti che impregnano sia “Sulla Strada” (On the Road, ma ricordando che la prima stesura era in francese), sia un libro di Zanin (rimasto purtroppo inedito, almeno per ora) di cui mi aveva parlato diffusamente: “Il ragazzo dei colombi viaggiatori”. Del resto Lipari era stata la sua Big Sur.
Per entrambi una “breve estatica estate” sospesa sul mare della libertà.
Così come l’aderenza, per quanto sofferta e contraddittoria, alla Weltanschauung del cattolicesimo.
Ma soprattutto un filo conduttore: il viaggio per il viaggio. Bruno, viandante e pellegrino instancabile (quante volte avrà percorso il Camino de Santiago, compreso quallo portoghese?), a volte smanioso, avrebbe potuto senz’altro partecipare al famoso dialogo:
“Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati”
“Dove andiamo?”
“Non lo so, ma dobbiamo andare”
L’altro, non stupitevi, è un attore che recitò soltanto in tre film (in realtà si potrebbe dire due, l’ultimo rimase quasi sconosciuto): Mark Frechette. Tra l’altro (ma l’ho “scoperto” dopo) anche lui franco-canadese come Kerouac. Il che potrebbe in parte spiegare la comune disaffezione – ai limiti del disadattamento – di entrambi nei confronti del “Sogno americano” (leggi statunitense, conosciuto anche come “incubo ad aria condizionata”.
Come Zanin anche Frechette divenne attore quasi per caso. Entrambi scelti da un grande regista italiano ( Fellini per Zanin, Antonioni per Frechette) che da giorni andava cercando invano un soggetto confacente al personaggio ideato. Rispettivamente il “Titta” di Amarcord (1973) e Mark (conservando anche il nome), il protagonista “bello e perdente” di Zabriskie Point (1970).
Con una sostanziale differenza. La carriera cinematografica di Bruno Zanin fu piuttosto lunga con oltre una ventina di film (ma lavorò assai anche con la televisione e in teatro). Ben più di quella, intensa ma brevissima, di Frechette. Dopo il film con Antonioni, Mark era andato a vivere nella “Comune” di Mel Lyman a Boston (alla quale aveva elargito integralmente il ricavato della sua prestazione cinematografica) con Daria Halprin (altra protagonista del film, futura moglie di Denis Hopper, regista e protagonista di Easy Rider). In seguito Mark ebbe una parte importante in un altro film italiano “Uomini contro” di Francesco Rosi. Film antimilitarista ambientato nella prima guerra mondiale, ispirato da “Un anno sull’Altopiano” di Emilio Lussu, a cui prese parte anche Gian Maria Volonté (e che costerà al regista una denuncia per vilipendio dell’Esercito italiano).
In entrambi i film Mark finiva fucilato. In Zabriskie Point dalla polizia, quando il giovane ribelle riportava all’aeroporto il piccolo velivolo che aveva rubato (“preso in prestito” per farsi un giro).
In Uomini contro interpretava un ufficiale, inizialmente entusiasta, patriottico (andato in guerra da volontario) che gradualmente, di fronte al massacro insensato, allo sterminio istituzionalizzato dei soldati- contadini mandati al macello dagli ufficiali carrieristi, si ribella. E per dare l’esempio, verrà condannato a morte.
Quasi un tragico presentimento della sua fine da ribelle, se non proprio allo “stato di cose presente”, perlomeno all’ordine costituito.
Venne infatti arrestato per tentata rapina (con armi scariche) a una filiale di Boston della New England Merchant’s Bank, sempre per finanziare la Comune (a cui aveva già versato tutti i suoi guadagni come attore, oltre 60mila dollari). Ma il 27 settembre 1975 verrà ritrovato cadavere nella palestra del prigione di Norfolk con un bilancere di 70 chili sul collo.
Magari a qualcuno potrebbe venire in mente, per analogia, la fine del prigioniero politico corso Yvan Colonna nella palestra del carcere di Arles nel 2022.
Con un’altra “coincidenza” (sincronica ?) più inquietante. Nello stesso giorno della dipartita di Frechette, il 27 settembre 1975, il boia Francisco Franco, già con un piede nella fossa, ordinava la fucilazione di altri cinque ribelli, due etarra e tre comunisti.
In realtà avrebbe preferito farli garrotare tutti nello stesso giorno. Ma, trovandosi i cinque militanti antifascisti in carceri diverse e avendo a disposizione solo due boia patentati, dovette accontentarsi dei plotoni di esecuzione (storico).
Per qualche elemento in più:
https://csaarcadia.org/la-morte-annunciata-di-mark-frechette-da-zabriskie-point-allaltopiano-di-asiago-a-norfolk/
https://bresciaanticapitalista.com/2020/09/16/zabriskie-point/
Meno significativa, come dicevo, la sua terza esperienza cinematografica: “La grande scrofa nera” (1971) di un altro regista italiano, Filippo Ottoni.
Ma vedo che sto divagando. Del resto la personalità di Zanin mi era sempre apparsa sfaccettata, poliedrica, difficile da mettere a fuoco una volta per tutte. Talvolta genuinamente – o ingenuamente – naïf, quasi un Forrest Gump de noaltri (magari solo in apparenza, talvolta simulava sapendo di simulare) che quasi “per caso” aveva incontrato Federico Fellini, Raffaele La Capria, Giorgio Strehler, Peggy Guggenheim (venne assunto come dog sitter a Venezia).
Quanto a Luca Ronconi, raccontava – da finto ingenuo – che quando lo chiamò a recitare Goldoni credeva “parlasse dei preservativi…”.
E su richiesta di Jean Louis Barrault reciterà (in francese) anche in commedie di Ionesco al Théâtre de la Vallée a Parigi.
A Parigi Bruno era già approdato tempo prima, in autostop. Vagabondando poi curioso per la città (mete ricorrenti le Père-Lachaise, il Marché aux Puces de Saint-Ouen, Pigalle…), ma sempre in quel periodo “portando in giro la tristezza come un vestito a lutto”. Applicando inconsapevolemente la psicogeografia di lettristi e situazionisti, “à la dérive”. *
Sempre – dicevo – sfaccettato, poliedrico, imprevedibile., postodi lato o “di traverso”.
Difficile da mettere a fuoco, “scolpire” definitivamente una volta per tutte. Ragion per cui lo devo abbozzare un po’ alla volta, procedendo per accostamenti, affinità e analogie.
Per cui lo accosto ancora a qualcuno che aveva conosciuto: l’eremita scalzo della Val Grande, Gianfranco Bonaldi. Per tutti “il Gianfri”. Quasi un suo compaesano da quando Bruno si era insediato nei pressi del Monte Rosa. Entrambi tra le montagne (part time per Zanin che soprattutto in periodo invernale rientrava nelle metropoli o viaggiava), in fuga da un malessere non solo metropolitano, esistenziale.
Una quindicina di anni fa avevo percorso le plaghe fortunatamente ancora disabitate della Val Grande, bivaccando nottetempo appunto nei bivacchi in genere “aperti” (alcuni in senso letterale, mancava qualche parete) e restando infilato nel sacco a pelo a contemplare il Monte Rosa gradualmente sommerso dalla marea ascendente delle ombre della sera. Qui lo avevo incontrato. Scalzo, vegetariano, ex militante di Lotta continua ed ex autista di autobus scolastici.
Con alle spalle un viaggio in India (forse solo tentato).
Che altro. Ah, sì, qualche lettura in comune. In particolare “Lettera a una professoressa” che – mi disse, avrebbe riletto volentieri. Promisi che gli avrei portato una copia e in effetti l’acquistai (una nuova edizione, con recensioni e commenti), ma senza aver il tempo di consegnarla. Mi arrivò prima la notizia della sua tragica, assurda morte prematura (a 59 anni). Dopo quindici anni in giro “per le sue montagne”, rigorosamente scalzo anche d’inverno. Deceduto per aver “corretto” il caffè con il contenuto di una bottiglietta che poi risultò essere stricnina. Due, forse tre le ipotesi. Un concentrato di erbe maldestramente preparato da lui stesso oppure un “reperto” trovato tra i ruderi delle malghe dove talvolta rovistava e scambiato per una fiaschetta di grappa. E poi quella considerata improbabile dagli indigeni: un astuto modo per toglierlo dalla circolazione. Sapendo che nella zona, alquanto defilata e poco frequentata, si svolgono attività di natura oscura, dal bracconaggio a vari traffici illegali.
Inevitabile pensare a quelle due tre volte che avevamo preso il caffè, preparato da lui, insieme.
Bruno lo aveva conosciuto cogliendone una certa sintonia spirituale.
Sempre in campo di analogie, oltre al Kerouac a questo punto dovrei anche citare William Seward Burroughs e Heinrich Karl Bukowski.
Se non altro per quella vena- neanche tanto sottile – di “realismo sporco” che scorre (condita di sesso, depravazione, alcol, cinismo e disperata solitudine) anche tra le pagine di Zanin (la parte che mi piace meno, tra l’altro).
Un’anima da black sparrow che avrebbe potuto sottoscrivere la nota sentenza del Bukowski: “La vita è profonda nella sua semplicità”.
E ancora non mancherebbero dense sintonie (ma anche dissonanze) con Vitaliano Trevisan, ma fermiamoci qui.
Complementare a una certa coazione a ripetere autodistruttiva, la costante ricerca di redenzione o almeno di serenità. Sia, poco più che adolescente, andando a vendere collanine ai turisti a Lipari (dopo una parentesi convulsa, caotica a Roma). Sia, più avanti nel tempo, tra le vette delle Alpi occidentali. E soprattutto con gli anni di generoso volontariato svolto portando aiuti essenziali in zone di guerra (Bosnia- Erzegovina).
Qualche aspeto meno “nobile”.
Parlando della sua trascorsa relazione con una attempata nobildonna romana benestante (Lydia da lui detta “Maga Circe”), avevamo discusso in merito al modo non propriamente “elegante” (o “non politicamente corretto”) con cui raccontava delle “sue” donne.
Costei (da cui si era fatto mantenere, quasi come un toy-boy) veniva descritta “agile e morbida come una foca da circo” nell’amplesso (“quando le prendeva la fregola (…) negli ascensori, dentro le toilette, nei guardaroba degli hotel, nei vicoli bui di Sperlonga…”). E via di questo passo. Direi non in linea con l’abituale sua sensibilità, empatia etc verso vittime, esclusi e diseredati.
Parentesi non propriamente edificante quella romana. Da cui, si era emancipato (portandosi appresso la vespa regalata da Lydia e i piccioni viaggiatori) fuggendo a Lipari. Perdendosi, anzi ritrovandosi, tra la luminosità marina (“tutto brillava, tutto risplendeva…”). A distanza di anni rievocava (con un velo che gli appannava lo sguardo) le piazzette e le stradine impervie, le “lampare tremolanti”, il castello, la cattedrale, le case antiche. Ma soprattutto il mare “così turchese, così trasparente e sfavillante, da flippare, altro che Ostia o Fregene”. E la gente. Che pasolinianamente percepiva non ancora corrotta dalla modernità capitalista (almeno a una prima impressione, non del tutto almeno). Ritrovandovi l’innocenza della in parte mitizzata infanzia perduta (una sua costante ricerca come la nostalgia per la madre). Pur mantenendo anche nell’isola uno stile di vita quanto meno “scanzonato” (oggi si direbbe “fluido”) in campo sessuale.
Vivendo quasi con rassegnazione tale contraddizione (apparente o meno che fosse). Con rimpianto anche in anni successivi per quel periodo: “Oh, poter stare lì con lei (rievocando, con toni francamente piccolo-borghesi per lui inusuali, la visita in casa della nonna di un suo amico isolano nda) rincantucciato nel salottino da bambola con l’odore di cera dei pavimenti, la pendola grande della sala da pranzo che spandeva per tutta la casa quel suo tic tac rassicurante, il debole ronzio del frigorifero, il remoto rumore della risacca del mare così rialassante, e lì dentro, avvolto in quel tepore, da quel senso di banesere, con un gatto tra le ginocchia leggere tutti quei bei libri rilegati ed esposti con tanta cura nelle librerie e nella vetrinetta accanto alle foto di famiglia. Verga Pirandello Deledda Pavese Melville London Maupassant Falubert Proust Dostoieskij Tolstoj…(un’ansia di appropriazione della cultura per quanto “borghese”, peculiare di ogni proletario autoalfabetizzato che ben conosco nda) e liberarsi da quell’intimo malefico sospetto che mai avrei conosciuto in realtà una gioia così grande”.
Ma forse, come Jack Kerouac, anche Bruno in fondo cercava solo il suo spicchio di “beatitudine”.
Mi spiego. Come è noto Kerouac ideò l’espressione Beat Generation nel 1948 per definire il movimento giovanile dell’underground (in massima parte newyorkese) discutendone con John Clennon Holmes e con Herbert Huncke. Se in genere al termine si attribuisce il significato di “stanco, abbattuto” per Kerouac venne ad assumere aspetti quasi mistici, nel senso di “beato” (dalla contrazione di “beatific”). Per lo scrittore cattolico franco-canadese (un rapporto tormentato il suo, con la Chiesa, analogo a quello di Zanin) esprimeva quella che definì la “sacralità segreta degli oppressi”.
E Bruno il suo “spicchio di beatitudine” lo pedinava anche entrando “senza sapere perché” in una chiesa appena giunto a Lipari.
Mettendosi in ginocchio davanti alla statua della Vergine (“carica d’oro”) a pregare “con gli occhi chiusi, le mani giunte, il cuore traboccante di gratitudine”. Finché a strapparlo dall’estasi mistica non giunse, strattonandolo sulla spalla, sbraitando “in siciliano stretto” e tirandolo per un braccio, un “prete con la faccia butterata, lo sguardo cattivo, con un vocione da orco” che lo aveva scambiato per “uno delle giostre. Era infatti la fiera di San Giuseppe ed era arrivato anche il circo”.
Ma l’idillio bucolico-insulare doveva presto finire. Interrotto dall’arresto – a Stronboli dove era passato a salutare un amico, ma trovando invece in agguato i carabinieri – per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti (tre grammi di cannabis nel borsellino). E poi, dopo la perquisizione a casa sua, anche per coltivazione di canapa indiana. Con un risvolto tragico. Una parte dei suoi amati piccioni viaggiatori venivano abbattuti a fucilate dai finanzieri (non dai carabinieri, precisava) in quanto sospettati di venir utilizzati per il traffico della droga (!?!).
A seguire un periodo nella Casa circondariale di Messina, il “Gazzi”. Per la cronaca, la sua terza esperienza carceraria dopo quelle al minorile e al Regina Coeli (per “resistenza a pubblico ufficiale”).
Tuttavia l’infelice esperienza non mancò di produrre effetti benefici. Grazie a un compagno di cella istruito (un ex accademico all’ergastolo, il “professore”) che lo incoraggiò alla lettura (“Pirandello, Herman Hesse…”) e alla scrittura. Cominciando “a scrivere su un quadernetto una sorte di diario, provando l’estasi di sfogare la propria tristezza sulla carta”.
Tra i ricordi indelebili, quello di una frase, vagamente dantesca, scritta con il fumo di una candela sul soffitto: “Ricorda sempre tu che sei entrato: la legge degli uomini è uno sporco trucco e puzza di merda come questo bugliolo”.
Uscì in anticipo sul previsto per “non aver commesso il fatto” in quanto un maresciallo dei carabieneri di buon cuore avrebbe – a suo dire – bruciato le pianticelle di “maria” sostituendole con erbacce di aspetto simile. Da parte sua Bruno si diceva convinto che in realtà l’appuntato se le fosse fumate lui.
Ma comunque abbiamo visto che la prigione era servita a innescare, perorata dal “professore”, la vocazione letteraria.
Mettendo per scritto una sorta di autobiografia, riandando all’infanzia trascorsa in un paese della campagna veneta (“dove allora c’era solo povertà, odore di fiume (il Brenta nda) e di letame, d’inverno la nebbia chiudeva tutto dentro un sacco che si riapriva a primavera…).
Con la prima stesura di quello che diventerà il libro-denuncia “Nessuno dovrà saperlo” (Tullio Pironti editore, 2006; menzione speciale premio letterario Città di Latisana per il Nord Est; quarta di copertina di Raffaele La Capria).
Un crudo, impietoso resoconto dell’esperienza in seminario quando, tredicenne, cadde nelle grinfie di un prete pedofilo (un “missionario” che in seguito divenne anche vescovo).**
Altre violenze al ritorno in paese (incompreso, deriso…) dove “per reazione al mio isolamento feci tutta una serie di esperimenti altresì chamati cazzate”. Poi la fuga da casa, il vagabondaggio durato mesi, le violenze subite da un giostraio incontrato alla stazione di Milano, i carabinieri che lo fermano a Busto Arsizio per portarlo al Cesare Becccaria, il carcere minorile di Milano: “vi rimasi un bel po’ finché non venne uno zio a prendermi e tornai a casa con lui”.
Seguirà un periodo come apprendista tagliatore in una fabbrica di scarpe. “Mi misero – raccontava – alla trancia a tagliare fodere, cinturini, punte, solette. Nove ore al giorno a volte dieci sempre piegato sulla trancia con la luce del neon che illuminava il reparto di una luce spettrale (…). Quando entravo nel reparto, mi accoglieva il gelo totale, i compagni mi apparivano dei fantasmi con volti duri, ostili, senza nessuna gentilezza, se sorridevano era per sfottermi con battute cattive, mi coglionavano perché non parlavo con loro, e come avrei potuto, appena tentavo di dire qualcosa le parole mi si fermavano in gola e mi veniva da piangere”.
Ripercorrendo poi, con puntiglio e precisione, il primo viaggio oltre confine in semi-clandestinità. La sua prima meta, Parigi. Raggiunta con l’autostop passando la frontiera illegalmente (”de sfroso”) in quanto sprovvisto di documenti. Periodo non limpido, sia per certe ambigue frequentazioni, sia per la sfortunata incursione di un paio di mesi in quel di Amstersdan. Stavolta con documenti falsi acquistati presso la fontana di boul’mich (boulevard St. Michel) ma sempre in autostop. All’epoca Amstersdan veniva considerata la “capitale morale” degli hippy europei (tuttavia, spiegava “non era quel paradiso che tutti dicevano”). Qui si lasciò convincere, venne indotto a fare uso di altre sostanze stupefacenti (acido lisergico, oppio…): “vissi male e vissi brutte esperienze”. Spaesato e confuso dopo esser rocambolescamente sfuggito (buttandosi contro una finestra e rimanendo ferito) a un tentativo di stupro. Per ritrovarsi, in pieno “delirio allucinatorio, assalito da visioni spaventose, seminudo e mezzo dissanguato”, su una diga a 30 chilometri dalla città. Braccato da mostruosi gabbiani (presumibilmente un effetto dell’LSD).
Fermato dai gendarmi olandesi, dopo qualche giorno in ospedale (“reparto psichiatria”) venne rimapatriato. Preso in consegna dalla polizia a Linate, il suo peregrinare si concludeva provvisoriamente al “Paolo Pini”, un noto ospedale psichiatrico di Milano.
Poi, con il foglio di via della questura, se ne tornò a Roma.
E qui la storia si fa lievemente surreale. Avrebbe (mantengo qualche riserva nell’usare l’indicativo) convissuto e collaborato con un misterioso “avvocato”. In realtà un esperto “truffatore professionista, famoso per aver venduto anche una nave che non era mai esistita”. Una sorte di “bandito gentiluomo” che dopo la truffa inviava mazzi di fiori alle sue vittime “giustificandosi con ragioni sociali” (non meglio spiegate, direi alla Horst Fantazzini).
Stando al racconto di Zanin funzionava così. Spacciandosi per studente e nipote del sedicente avvocato (“colto e preparato anche se in realtà aveva solo la terza elementare e tutto quello che sapeva lo aveva imparato leggendo”) andava ad abitare in un appartamanto affittato dal lestofante di professione che intanto con annunci sul giornali lo mettava in vendita.
A un prezzo vantaggioso in quanto “i soldi gli servivano per curare la moglie”.
Ovviamente chiedeva una caparra a tutti i potenziali acquirenti e appena ne aveva raccolte il più possibile il sedicente nipote e giovane studente sloggiava dal locale. Tornando a vivere dall’avvocato in contrada Ottavia.
Finchè una sera, sceso dall’autobus incontrò un signora che gli chiese cosa avesse combinato “suo zio” per essere stato appena “portato via in manette da quelli della Questura”. Rispose che “forse non aveva pagato una multa”.
Entrato in casa “col cuore in gola dopo aver rotto i sigilli del sequestro giudiziario” mise le sue poche cose tutte insieme e se ne andò dritto alla stazione.
Dopo un mese trascorso “dormendo sui treni e mangiando dai frati” (e altre storie non propriamente esemplari), finì a piazza Navona. A collaborare con un pittore di strada tossicodipedente e bohémien di Primavalle che gli propose di vendere i suoi disegni ai turisti tenendosi la metà del ricavato. Mentre il pittore si assentava sempre più spesso andando in farmacia per rifornirsi di Cardiozol. Uno sciroppo oppioide, sedativo per la tosse che all’epoca andava forte tra i freaks (falciando diverse vite oltretutto).
Questo estratto di parte della vita di Bruno Zanin è, forzatamante, parziale. Da dire ci sarebbe tanto altro. Con una costante. Il disperato, ostinato tentativo di suturare la ferita del seminario (mai del tutto rimarginata), ricomporre il mosaico della propria esistenza e della propria identità. Entrambe violate, “dirottate”.
Cos’altro intendeva descrivendo la sua precipitosa esistenza come “precaria e assurda, selvatica e aggressiva”?
In fondo anche per Bruno, a titolo di epitaffio, vale quando scrisse (una citazione ?) del suo alter-ego Alessandro: “Accumulò dei vizi. Ma mai rimase a lungo soggiogato a uno di questo”.
Se non una completa redenzione, sicuramente un degno riscatto.
Un pensiero finale. A Roma e a Lipari Bruno accudiva ai colombi viaggiatori, in montagna le capre. Regolarmente poi gli capitava di adottare qualche bastardino randagio, i gatti provavano per lui una simpatia istintiva (ricambiata)…
Un aspetto questo della sensibilità, empatia verso gli animali che – col senno di poi – forse avrei dovuto approfondire. Si identificava? Compensava qualche carenza affettiva?
Avrà pensato anche lui “meglio degli umani?”. Purtroppo ormai nessuno potrà saperlo.
Gianni Sartori
*nota uno:
“Une ou plusieurs personnes se livrant à la dérive renoncent, pour une durée plus ou moins longue, aux raisons de se déplacer et d’agir qu’elles se connaissent généralement, aux relations, aux travaux et aux loisirs qui leur sont propres, pour se laisser aller aux sollicitations du terrain et des rencontres qui y correspondent. La part de l’aléatoire est ici moins déterminante qu’on ne croit: du point de vue de la dérive, il existe un relief psychogéographique des villes, avec des courants constants, des points fixes, et des tourbillons qui rendent l’accès ou la sortie de certaines zones fort malaisés”.
(Guy Debord)
**nota due:
“Non è un libro, è una vita. Una sapiente, allucinata, ingenua-veritiera descrizione-narrazione di quel mondo nascosto, dove succede ciò che “nessuno dovrà sapere”. Zanin voleva alzare un grido al mondo. Ecco, il grido arriva, lo sentiamo. Chi ha orecchie per intendere, intenda. Chi legge questo libro, non lo dimenticherà”
(Ferdinando Camon su La Stampa)