Bussi, Camilleri, De Giovanni, Holt, Lansdale, Mazza e Winslow
7 recensioni (giallo-noir) di Valerio Calzolaio
Maurizio De Giovanni
«Sara al tramonto»
Rizzoli
362 pagine, 19 euro
Napoli. Maggio 2017. Sara “Mora” Morozzi era una brillante graduata della Polizia di Stato, sposata con prole, prima di entrare nell’unità speciale e di innamorarsi alla follia del Capo, Massimiliano Tamburi, più vecchio di 23 anni, intensamente ricambiata, lei occhi azzurri e tratti dolci, figura sempre minuta e capelli ormai grigi. Alla scoperta della grave malattia di Massi, da quattro anni aveva abbandonato tutto, autorottamata e anonima pensionata, si era ritirata a invisibile vita privata per assisterlo fino alla fine, ma da qualche mese sono morti prima lui, 76enne, successivamente il figlio (abbandonato) Giorgio, in un incidente stradale. Viene così ricontattata dall’ex collega (già ai Servizi) Teresa Bionda Pandolfi, ora è lei a capo della sezione e le chiede di seguire piste informali di guai e crimini, attraverso indagini appartate con procedure non convenzionali. Sara possiede una sapiente peculiare caratteristica, dono o dannazione che sia: è capace di udire frasi e dialoghi a lunga distanza, abilità che ha lungamente affinato, mescolando comprensione vocale delle labbra e interpretazione gestuale dei pensieri. Dovrebbe riprendere in mano il caso Molfino, l’omicidio di un ricchissimo finanziere, cranio spaccato l’anno prima, per il quale è in carcere la figlia Dalinda, con prove schiaccianti. Davide Pardo, il poliziotto che l’aveva arrestata, tosto e trasandato, con paturnie, non è più certo della colpevolezza, ha attivato contatti riservati ed è preoccupato per Beatrice, la figlia di sei anni dell’incarcerata, data in affidamento all’altro figlio (maggiore) della vittima. Il fatto è che Sara soffre di forte insonnia e, soprattutto, ha iniziato a frequentare Viola, la 27enne compagna (vedova) del figlio, incinta (dovrebbe partorire a ottobre), curiosa e brava fotografa. Comunque accetta, si è mantenuta sana e allenata, ha conservato vecchi incartamenti. E la storia si rivela proprio complicata: la morte del passato è meno lineare di quel che sembrava e la piccola sta effettivamente male.
Maurizio de Giovanni (Napoli, 1958) inizia una nuova interessante serie, da affiancare ai ripetuti meritati successi di Ricciardi e dei Bastardi (da oltre un quinquennio un romanzo l’anno per ciascuna serie). Il precedente tentativo con i Guardiani non era pienamente riuscito, questo invece sì! Non a caso persiste l’ottima notevole accoglienza di critica e di pubblico: Sara non può che piacere e commuovere. Ha vissuto e gestito nefandezze, ha abbandonato per amore un marito fedele e un pargolo piccolo, ha affittato una stanza e ha scelto un’altra esistenza, condotta con fermezza e coerenza finché è stato possibile, non ha ancora nemmeno 55 anni, si nasconde a tutto e tutti, pur bella colta vivace. Ha un dono “sensitivo” (come Ricciardi), saprebbe ancora fare squadra (come i Bastardi), ascolta molto con introspezione, tanto quanto parla poco con nettezza. La narrazione è in terza varia al passato, intervallata dalla rara prima del colpevole e da intensi momenti (spesso in corsivo) del persistente dialogo di Sara (o Viola) con gli affetti persi o gli sconosciuti osservati, mentre sembrano più scontate le comiche conversazioni fra donne o fra poliziotti. Sara incontra Viola ogni sera al tramonto (in una città egocentrica che poco lo conosce, come l’alba), il momento della giornata che maggiormente ama (come Massimiliano ben sapeva), in cui si sente più fragile e diversa, quando percepisce un cuore forse più disponibile ad aprirsi, però davanti alla porta che si trova in cima a una scala a chiocciola. Vi sono spunti per innumerevoli seguiti, del resto Viola ha una madre naturale insopportabile, dalla quale si salva solo canticchiando appropriate melodie con un filo di voce (Billy Joel e gli anni ottanta vanno alla grande).
Anne Holt
«La condanna»
traduzione di Margherita Podestà Heir
Einaudi
418 pagine, 19 euro
Oslo. Gennaio 2016 (e dicembre 2001). Il corpulento 58enne commissario Kjell Bonsaksen lavora in polizia dal 1978, sta andando in pensione, si trasferirà con la moglie in Provenza, non lontano dall’unico figlio e dai due nipotini. Per caso incontra il 47enne Jonas Abrahamsem, legge rassegnato tormento nei suoi occhi; nel 2004 lo aveva fatto accusare, incriminare e condannare (a dodici anni) per omicidio pur non essendo del tutto convinto fosse colpevole, è il solo sassolino che sente nelle scarpe da lavoro; così decide di consegnare a Henrik Holme il gonfio raccoglitore ad anelli del caso chiuso e gli chiede di dare un’occhiata. Henrik è ormai giovane e famoso, pur timido e pieno di tic, reduce dal fantastico successo ottenuto nel ridurre la devastazione di un attentato terroristico e nell’arrestarne i responsabili (ora sotto processo); da 5 anni in polizia, continua a lavorare a casi irrisolti, ormai da due insieme alla mitica pragmatica 55enne Hanne Wilhelmsen, bloccata su una sedia a rotelle e sempre più scontrosa sarcastica caustica (salvo che con la moglie matematica musulmana Nefis e la loro figlia 12enne Ida). Hanne lo ascolta con stima e rispetto ma pensa ad altro, ha un suo tarlo presente. Si sarebbe appena suicidata la malvagia 62enne Iselin Havørn (blogger di destra con uno pseudonimo da poco scoperto) e Hanne non riesce a crederci: era una donna forte con enorme autostima, credeva di svolgere una guerra santa xenofoba e non dubitava mai, “nessuno si toglie la vita soltanto perché passa un momento sgradevole”. Entrambi sono “non” casi, là potrebbe essere suicidio, qui chissà come dovrebbe non esserlo, nessuno potrebbe e dovrebbe preoccuparsene. Fortunatamente se ne occupano, con la solita perspicacia e un aiuto reciproco.
L’ottima scrittrice norvegese Anne Holt (Larvik, 1958), laureata in legge, giornalista dal 1984, avvocato dal 1994, ministro della Giustizia nel biennio 1996-97, ha pubblicato complessivamente quasi una ventina di gialli, questo (doloroso e stupendo) è il decimo della serie Wilhelmsen, il primo uscì nel 1993. Considerate le vicissitudini affettive e professionali di Hanne, ormai i protagonisti sono due, il solitario Henrik va assolutamente promosso, lui che ha trent’anni e non ha mai fatto sesso, esile e insicuro. La narrazione è ancora in terza varia al passato, tanti accanto a loro, fra cui Kejll, Jonas (il tormento è la sua seconda vita, dopo la morte della figlia in un casuale incidente), Maria (moglie di Iselin). I due poliziotti procedono senza alcuna autorizzazione o competenza formale, oltretutto le vicende sono chiuse e separate. Poi tutti d’improvviso iniziano a preoccuparsi perché viene pure rapita una bambina di tre anni, Hedda: la madre è famosa, il nonno ha vinto al lotto, i fili si moltiplicano e s’ingarbugliano. Non ci si può congratulare per ogni condanna (da cui il titolo italiano). Il romanzo è avvincente, gestito con maestria fra passato recente e presente convulso di tre settimane. L’autrice riesce a offrirci riflessioni informate e acute rispetto al suicidio, a Breivnik, alla destra che investe sulla paura, alla normale omosessualità, alla articolata genitorialità. Negli appartamenti norvegesi ci si toglie le scarpe all’ingresso, come forse è noto (e utile). Segnalo la risata sui gialli con almeno due casi apparentemente diversi e realmente intrecciati, a pag. 191. E le trousse delle compagnie aeree con tutto l’occorrente per la toilette, a pag. 371. Jazz e Grisham. Nel sentirsi liberi e morti ha la sua importanza una vecchia canzone interpretata da Janis Joplin, “Me and Bobby McGee”. Vino prevalentemente rosso, questa volta.
Joe R. Lansdale
«L’ultima caccia»
traduzione di Seba Pezzani
Einaudi
124 paggine, 11 euro
Texas orientale. Estate 1933, i tempi duri della Depressione. Richard Ricky Harold Dale ha 15 anni, prova a battere i tasti di una macchina da scrivere, legge tutto quello che gli capita a tiro di sguardo, va ancora poco a scuola, condivide affanni e avventure di una famiglia povera: il papà precario disponibile a raggranellare qualche dollaro con scazzottate di lotta nelle fiere itineranti, la mamma gentile di nuovo incinta (dopo che l’anno prima non era riuscita a portare in fondo la terza gravidanza), il furbo amato fratellino Ike. Li avvisano che si è rivisto in giro il Vecchio Satana, un pericoloso cinghialone di oltre duecento chili, con zanne grandi e affilate come pugnali, già causa della morte di molte creature nella zona rurale. Con l’amico di colore Abraham Wilson si trova coinvolto ne «L’ultima caccia», una gran bella storia di formazione del mitico Joe R. Lansdale (Gladewater, 1951) rievocata in prima molto tempo dopo, ottima per ragazzi e per adulti.
Andrea Camilleri
«Il metodo Catalanotti»
Sellerio
296 pagine, 14 euro
Vigàta. Autunno – inverno 2015-2016. Novità in casa Montalbano. Fra i gustosi tranquilli pranzi marinari alla trattoria di Enzo (con successiva passeggiata sul molo) e le solitarie succulente cene pronte di Adelina, dopo una mattina di inutili indagini, improvvisamente a Salvo prende lo sghiribizzo di andare in un altro ristorante di cui ha sentito parlare bene, “Catarinetta”, in aperta campagna a metà strada tra Vigàta e Montaperto. Per caso sta mangiando lì Antonia Nicoletti, la giovane nuova responsabile della scientifica. Si mette al suo stesso tavolo, gli piace proprio, scambiano qualche frase, paga lui. L’aveva incontrata di recente sulla scena di un crimine, quando era stato rinvenuto cadavere il 50enne vigatese Carmelo Catalanotti, benvestito sul proprio letto, con un manico di tagliacarte che spuntava all’altezza del cuore. Non era quello il morto che Salvo e Domenico Mimì Augello cercavano, in realtà. Quell’impenitente “fimminaro” del suo vice si era imbattuto la sera prima, fuggendo per balconi a causa di un incontro erotico con Genoveffa interrotto dall’arrivo del marito, in un altro uomo insanguinato e senza respiro, steso su un letto al buio, scomparso quando erano tornati di giorno. D’altra parte Carmelo è pieno di misteri, sospeso fra due differenti identità e attività: l’usuraio gentile, con tanti debitori meticolosamente appuntati cui riservava tassi bassi e congruo tempo; il teatrante fissato, con tanti attori, aspiranti o meno, cui imponeva gravose prove psicologiche. Il fatto è che Antonia distrae Salvo, almeno un poco, lui sente Livia ormai come un’amica, si rifà barba e guardaroba, ci mette parecchio tempo a capirci qualcosa. Lei è una trentenne alta, capelli ricci corti, occhi lunghi verdi, naso perfetto, arrivata da appena una settimana, sola per scelta e in procinto di essere trasferita di nuovo, ad Ancona. Non è che ci troviamo Montalbano nelle Marche la prossima volta?
Andrea Calogero Camilleri (Porto Empedocle, Agrigento, 1925) torna subito in testa alle classifiche di vendita! Come sempre, narra in terza fissa su Salvo, opere pensieri sogni mangiate, questa volta con intermezzi in corsivo di racconti e trame. Per i gravi problemi agli occhi, come ormai da quattro anni, ha dettato il romanzo a Valentina Alferj (vista, udito e contrappunto immediato del metodico grandissimo autore). La struttura è analoga alle precedenti: capitoli della medesima lunghezza ritmati dall’argot vigatese-camillerese stretto, una partitura musicale questa volta dedicata al grande amore per la drammaturgia, il ritorno al teatro è il vero tema del romanzo. L’ucciso è un artista dalla personalità complessa, gran lettore e conoscitore di opere, autore originale, applicava un metodo severo (da cui il titolo) per mettere un attore in condizione di recitare, ne faceva venir fuori emozioni forti e pulsioni recondite. Vengono così citati figure e teorie del teatro “povero”, del verosimile e del similvero, delle opere para-poliziesche (genere “giallo” usato per indagini profonde nell’animo dell’uomo contemporaneo). Salvo non è lontano dalla pensione, ha la pancetta e altre sue abitudini, fra l’ennesima sigaretta e il buon whisky, fra le troppe firme burocratiche e il sentirsi in colpa per chi resta senza lavoro, capisce di dover prendere di petto l’antica scontata relazione con Livia (che vive a Boccadasse, si è presa un cagnetto e l’ultima volta gli ha lasciato un foglietto di prescrizioni alimentari), la passione si è trasformata in amore fraterno, e questo è l’altro filo conduttore del romanzo. Vino in fiasco o bottiglia accompagna ogni mangiata. Montalbano si felicita con i versi di Neruda (e non solo) oppure canticchia il valzer della Vedova allegra.
Carlo Mazza
«Naviganti delle tenebre»
Edizioni e/o
234 pagine, 16 euro
Bari. Un maggio recente, festa di San Nicola. L’ombroso capitano Antonio Bosdaves, dopo un anno di virtuale separazione, è stato riaccolto in casa dalla moglie Irene (con i due figli, Gabriele e Valentina), ma manca l’acqua e si devono spostare, lui presso la foresteria della Legione Carabinieri, a rileggere Tabucchi per addormentarsi. Proprio quando sta per tornare a casa (è il compleanno di Irene) gli assegnano il delicato complesso caso di una quarantenne etiope, Samira Estifanos, che gestisce un banco del pesce al mercato, scomparsa dalla casa dove vive sola. Il rapitore la violenta, la considera un’esca per il criminale che fece una strage anni prima, lasciandola unica superstite. La collana Sabot/age conferma l’ottimo autore pugliese Carlo Mazza (Bari, 1956), al terzo romanzo della serie, “Naviganti delle tenebre”, lo stile essenziale e agro di scuola Carlotto, parte in prima, parte in terza varia, molto sul cinico faccendiere Costantino Lissandro e sulla bella sportiva Zelda, amante del capoclan Nazario.
Don Winslow
«Lady Las Vegas. Le indagini di Neal Carey»
traduzione di Alfredo Colitto
Einaudi
(originale 1994, “A Long Walk Up the Water Slide”)
334 pagine, 15 euro
Nevada e Texas. Settembre 1982. Neal Carey, indigeno di New York, in teoria dottorando su Tobias Smollett alla facoltà di Letteratura inglese della Columbia, dopo la prima avventura è stato bloccato sette mesi in quarantena nel cottage in mezzo alla brughiera dello Yorkshire, dopo la seconda tre anni confinato nel Sichuan cinese, ora dopo la terza nelle Terre Alte Solitarie quasi felice da almeno nove mesi, è restato ad Austin con la maestra cowgirl Karen Hawley, capelli neri e occhi azzurri, mantenuto con assegni fissi dagli “amici di famiglia” che lo avevano sempre messo nei guai. Ormai ha 28 anni, troppi studi in sospeso, vocazione narrativa, barba e capelli lunghi. Cambierebbe volentieri definitivamente vita. Però. Arriva il padre putativo Joe Graham, un metro e sessantadue di cattiveria e astuzia, occhi azzurri e capelli color sabbia, braccio di gomma, irlandese nel midollo; maniaco della pulizia, si diverte mentendo e rubando ma gli vuole un gran bene; propone alla coppia una cosa facile. Devono nascondere ed educare linguisticamente Polly Paget, aureola rossa e occhi verdi, seni piccoli e spalle larghe, alta e sexy, stereotipo parlante di sguaiata “sgualdrina”, che a New York ha denunciato per stupro il bel noto (moralista) bel conduttore televisivo Jack Landis. Nonostante sia simpatica a Karen, per Neal non sarà semplice trasformarla in “fidanzata” d’America (per deporre nei tribunali e sui media) soprattutto perché la cercano in tanti e per ragioni diverse, comunque non per farle del bene, eliminarla o usarla che sia. Non è questione solo di reputazione, c’è in ballo un enorme villaggio vacanze in costruzione, appalti anticipi prestiti truffe banche ricatti crimini famiglie mafia killer. Tutti giocano almeno doppio. Neal deve rischiare, scivolando all’indietro.
Don Winslow (New York, 1953), miglior autore noir dell’ultimo quarto di secolo, californiano d’adozione, realizzò una vera e propria notevole seriale cinquina d’esordio (1991-96), in terza non fissa, soliti eccelsi dialoghi, ambientazione primi anni ottanta sulla base di quel che allora faceva lui stesso (investigatore privato, regista e manager teatrale, guida di safari fotografici anche in Cina, consulente finanziario). Questo è il quarto (1994), davvero stupendo, scoppiettante ed esilarante (ormai sicuro delle qualità letterarie), colmo di iperboli e metafore, Shakespeare e Mao, un circo indimenticabile di personaggi, caratteristi, spalle (anche quando muoiono in corso d’opera). Visto che ogni storia inizia dai personaggi Neal Carey è un ottimo primogenito, forse (se riuscirà a salvarsi) potrebbe decidere una paternità responsabile (pure letteraria). L’eliminatore perfezionista qui ha Overtime come leggendario soprannome (un tempo dato ai pugili); uccide con orgoglio nell’ombra, rapido e pulito, senza discriminazioni di sesso o etnia; opera per priorità, niente facilitazioni per gruppi, niente sconti; dopo l’uxoricidio non ha compagne ma un ricco conto alle isole Cayman. La scena si sposta presto dalle montagne del Nevada al Texas, gli alberghi casinò con convegni porno di Las Vegas (da cui il titolo italiano) e il parco giochi con acquascivolo di Candyland a Sant’Antonio (da cui il titolo americano). Si beve birra ovviamente, ma anche molto vino, sia bianco che rosso (senza specificazioni). L’opera lirica italiana fa sempre bella figura; tuttavia, al cimitero Joe accende il mangiacassette con brani jazz di Blossom Drearie.
Michel Bussi
«Il quaderno rosso»
traduzione di Alberto Bracci Testasecca
Edizioni e/o
446 pagine per 16,50 euro
Marsiglia (e area mediterranea). In soli quattro recenti giorni di fine 2016. L’affascinante energica vivace efficiente Leyli Maal ha avuto fino a questo momento un’esistenza intensa e drammatica, ora vive nel quartiere di case popolari Les Aigues Douces, nella periferia metropolitana della metropoli portuale francese, in un piccolo appartamento di venticinque metri quadrati. Va nel comune di Port-de-Bouc per chiedere ancora di avere assegnato un alloggio più grande, porta il contratto di lavoro (pulizie in un albergo) ottenuto finalmente a tempo indeterminato (dopo cinque anni di lavoretti) insieme alle foto della piccola casa e dei tre amati figli. Cena insieme a loro tutte le sere, alle sette e mezzo a tavola, un rito irrinunciabile. La più grande è una meraviglia, Bamby (nome peul), ormai quasi 22enne (27 marzo 1995) ha frequentato la facoltà di psicologia, lunghi capelli neri, occhi a mandorla dai riflessi nocciola, collo ramato, labbra di pesca, silhouette slanciata, pelle olivastra. Il più piccolo gioca spesso a pallone, Tidiane, 10 anni (2006), minuto, già gran lettore, affezionato ai carissimi nonni Moussa e Marème. In mezzo c’è il possente Alpha, nero e molto alto, oltre un metro e novanta per novanta chili di muscoli, 17enne (1999) che ha abbandonato la scuola e sa sempre cavarsela, una forza della natura. Accade che Bamby seduca François, lo leghi, gli prelevi del sangue, lo uccida. E anche gli altri figli sembrano coinvolti in qualcosa di criminale. Vengono prese di mira persone e attività della Vogelzug, una delle più grandi associazioni europee di assistenza ai migranti. Indagano due bravi poliziotti francesi, il primo è però pure un informatore servizievole del capo dell’associazione. Leyli non si dà pace, finisce per raccontare agli interlocutori la sua lunga terribile storia di ex cieca ed ex prostituta, l’aveva pure scritta. Deve pur salvare i figli in qualche modo!
Il professore universitario di Rouen (Normandia) e direttore di ricerca al Cnrs francese Michel Bussi (Louviers, 1965) continua a realizzare ottimi gialli senza protagonisti seriali in ecosistemi sempre molto biodiversi e originali. Qui siamo a sud, Marsiglia e oltre. Come nelle altre occasioni, la trama è ben arzigogolata, la vicenda narrata (in terza molto varia al passato) si svolge in meno di 75 ore, pur motivandosi con l’intera biografia della protagonista, coi tanti segreti finora nascosti, via via che emergono le fasi e gli ecosistemi di una “tipica” epopea migratoria, condensata poi in un cesto di occhiali da sole di tutte le forme e colori e nelle statuine a forma di civetta disseminate ovunque nella stanza. È originaria di Ségou in Mali, duecento chilometri a nord-est della capitale Bamako, ben presto innamoratasi della lettura a causa di una malattia della pelle e subito privata della vista dall’amaurosi, prima di peggiori travagliate vicissitudini. Era cocciuta e graziosa (da cui il titolo francese) e un’amica scrisse per lei in un quaderno quanto accadde in Africa (da cui il titolo italiano). Il bellissimo romanzo è dedicato ai geografi “che esplorano il mondo” (citando versi di Brassens e Lennon), fate attenzione alle accurate convincenti descrizioni dei luoghi se volete capirci qualcosa. Insegna anche molto sui mercati generati dai flussi migratori, aiutandoci a comprendere la doppia assenza e la doppia presenza di ogni migrante: «la stragrande maggioranza della gente vuole rimanere dov’è… Sono solo pochi pazzi a tentare l’avventura. Tra i cento e i duecentomila migranti che ogni anno cercano di attraversare il Mediterraneo, cioè meno di un africano su diecimila, e mi vengono a parlare di invasione?». Perfetto: è come se avesse letto del diritto di restare e della “libertà di migrare”! Vini rossi e bianchi, lo Château Musar per chi vuole essere sedotto. Musiche della nostalgia e del Benin.
Vorrei aggiungere qualcosa su Lansdale. Che resta comunque un grande, anche se…
Con ” L’ultima caccia”, uscito in America nel 1998 – la prima volta da Fanucci nel 2006 – lo scrittore americano ci porta nelle suggestive atmosfere di un insolito e paludoso Texas degli anni Trenta. Ma gli esiti non sono perfetti rispetto a “In fondo alla Palude (2000)”, pubblicato da noi prima e sempre da Fanucci (2004). Quest’ultimo viene considerato dallo scrittore stesso un romanzo fondamentale, come ebbe a dichiarare anni fa al Festivaletteratura di Mantova. “L’ultima caccia” anticipava luoghi e personaggi del suo romanzo più amato in un medesimo percorso iniziatico alla vita, che coinvolgeva – lì due fratelli – qui due ragazzi, un bianco e un nero, in una lotta all’ultimo sangue contro un mostruoso e quasi soprannaturale cinghiale. Percorso da echi di tanta letteratura dixieland “The boar” (titolo originale) risulta però “immaturo” rispetto al ben più conosciuto e importante “The Bottoms”. Comunque, è vero, ha ragione Calzolaio un romanzo (comunque) da leggere.