Carbone, petrolio e gas: bloccare i soldi
di Mario Agostinelli (*)
UNA MOBILITAZIONE DELLA SOCIETA’ E DEL MONDO DEL LAVORO PER LA DECARBONIZZAZIONE E L’EMERGENZA CLIMATICA (*)
Bill Mckibben, un ambientalista statunitense attivo anche come scrittore e giornalista, definito nel 2010 dal Boston Globe come «probabilmente l’ambientalista più influente della nazione», ha lavorato sul cambiamento climatico per trent’anni e dice di aver imparato a liberare la sua angoscia e a tenerla sotto controllo. Ma, negli ultimi mesi, ammette che la sua angoscia vera riguarda i suoi figli. Questa primavera è stato registrato per la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera il livello record di 415 parti per milione, superiore a quanto non sia mai stato in molti milioni di anni. L’estate è iniziata con il mese più caldo mai registrato, quindi luglio è diventato il mese più caldo dell’era moderna. Il Regno Unito, la Francia e la Germania hanno tutti raggiunto nuove alte temperature e il calore si è spostato verso nord, fino a quando la maggior parte della Groenlandia si è sciolta e immensi incendi siberiani hanno inviato grandi nuvole di carbonio verso il cielo. All’inizio di settembre, l’uragano Dorian si è fermato sopra le Bahamas, dove ha scatenato quello che un meteorologo ha definito «il più lungo assedio di tempo violento e distruttivo mai osservato» sul nostro pianeta. Gli avvertimenti scientifici di tre decenni fa sono i più micidiali avvisi di calore del presente e, per il futuro, ci impongono scadenze rigide. Lo scorso autunno, gli scienziati climatici di tutto il mondo hanno affermato che, se vogliamo raggiungere gli obiettivi fissati nell’accordo sul clima di Parigi del 2015,
Nel mondo di Trump e Putin e Bolsonaro e delle compagnie di combustibili fossili che li sostengono, sembra impossibile modificare il quadro che si prospetta. Invece non è nemmeno tecnologicamente impossibile: nell’ultimo decennio è stato abbassato il prezzo dell’energia solare ed eolica rispettivamente del novanta e settanta per cento. Ma non basta, se oltre alla tecnologia non muta la direzione dell’economia capitalista e se non entra in campo, assieme ai movimenti planetari degli studenti e delle donne il movimento delle lavoratrici e dei lavoratori.
In effetti la vera buona notizia è che, quando la crisi diventa più evidente, molte più persone si uniscono alla lotta. Nell’anno in cui gli scienziati hanno lanciato il loro allarme di è potuto riscontrare la proposta del Nuovo Green new Deal della Ocasio Cortez, gli exploit di Extinction Rebellion e la diffusione globale degli scioperi degli studenti avviata dall’adolescente svedese Greta Thunberg. E – grande novità per il nostro Paese – il segretario Generale della CGIL Maurizio Landini afferma da Lilli Gruber e nell’assemblea programmatica riservata ai delegati dei luoghi di lavoro che il problema principale per il suo sindacato è contrastare il brusco cambiamento climatico a partire dai luoghi di lavoro. Sembra che finalmente nasca una massa critica per sostenere un conflitto e un risultato utile.
La domanda tuttavia è pressante: quali sono le forze su cui contare per il cambiamento nel tempo necessario?
Alcuni di noi hanno iniziato a cambiare la propria vita, impegnandosi a volare di meno e a mangiare più in basso nella catena alimentare. Ma, qualunque siano le nostre intenzioni, ognuno di noi è attualmente costretto a bruciare una discreta quantità di combustibile fossile: se non c’è un treno che ti porta a destinazione, non puoi prenderlo. Altri – in realtà, spesso le stesse persone – stanno lavorando per eleggere candidati “più ecologici” che attuino pressioni per approvare programmi politici e avviare procedimenti giudiziari contro le grandi opere inutili.
Ma queste azioni potrebbero non ripagare abbastanza velocemente. Il cambiamento climatico è un test a tempo, uno dei primi che la nostra civiltà ha affrontato, e secondo i rapporti scientifici la finestra in cui inserire il cambiamento si restringe al passare dei mesi, non degli anni. Al contrario, il cambiamento culturale – ciò che mangiamo, il modo in cui viviamo – spesso avviene per generazioni e il cambiamento politico che comporta un lento compromesso sembra ostacolato dai negazionisti e da chi dirige la paura verso obiettivi escludenti e la sfiducia nella democrazia.
Forse va ammesso, assunto e scommesso sul fatto che i leader politici non sono gli unici attori del pianeta e che nella società attuale, con la vittoria incontrastata del liberismo, anche e soprattutto chi concentra la maggior parte del denaro e della ricchezza depredata a spese del lavoro e della natura, ha un potere che potrebbe essere esercitato in pochi mesi o addirittura ore. Mckibben suggerisce che la chiave per interrompere il flusso di carbonio nell’atmosfera sia quella di interrompere il flusso di denaro verso carbone, petrolio e gas. Bisogna da subito avviare la decarbonizzazione dell’economia e della società e interrompere il sostegno finanziario che spesso attori non consapevoli riservano al vecchio modello energetico ancora determinante.
Shell ha definito il disinvestimento un «effetto negativo materiale» sulle sue prestazioni. La campagna di disinvestimento ha reso pubblica la notizia più eclatante dell’era del riscaldamento globale: che l’industria ha nelle sue riserve cinque volte più carbonio di quanto il consenso scientifico pensi che possiamo tranquillamente bruciare. Un’istituzione religiosa dopo l’altra si è spogliata di petrolio e gas e Papa Francesco ha convocato i dirigenti del settore energetico in Vaticano per dire loro che devono lasciare il carbone sottoterra.
Il sistema bancario si è unita alle industrie del fossile per impedirne l’uscita di scena Nei tre anni trascorsi dalla fine dei colloqui sul clima di Parigi, la banca Chase ha investito 196 miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria dei combustibili fossili, molti dei quali per finanziare nuove iniziative estreme: trivellazioni in acque ultra-profonde, estrazione di petrolio artico, trivellazioni nell’Adriatico. Nei fatti, Jamie Dimon, il C.E.O. di JPMorgan Chase, è un barone del petrolio, carbone e gas quasi senza pari.
Lo stesso vale per le attività di gestione patrimoniale e assicurativa: senza di esse le società di combustibili fossili rimarrebbero quasi letteralmente a corto di gas. Ma il capitalismo non è noto per arrendersi alle fonti di entrate e non si preoccupa dello scioglimento della calotta artica.
Quando si riflette sulla dimensione di questi problemi, appare in tutta la sua povertà la dimensione della politica, che garantisce la costruzione di gasdotti come il TAP o la riconversione della centrali a carbone in impianti a gas fossile con la prospettiva di ritorno degli investimenti a 25 anni, che solo la politica e le tariffe in bolletta dei cittadini ignari e non la società o il mondo del lavoro o le prospettive del welfare possono garantire.
A questo proposito vorrei qui mettere in rilievo una riflessione e una proposta sul sistema energetico e i cambiamenti climatici lanciata da una aggregazione di personalità del mondo scientifico, culturale, associativo. In essa (v. https://zeroemission.eu/riduzione-dei-gas-serra-al-2030-lappello-di-massimo-scalia/ ) si afferma che «La più grande minaccia di questo secolo» – il cambiamento climatico, la transizione all’instabilità climatica – si sta delineando con eventi sempre più drammatici e che le conseguenze del cambiamento climatico che si abbatte su uomini e cose con l’intensità degli eventi meteorologici estremi, documenta una più generale crisi ambientale: la devastazione di uno sviluppo fondato sulla spoliazione e il saccheggio delle risorse naturali, come conseguenza del modo capitalistico di produrre e consumare. Esemplare, al riguardo, il nuovo odioso colonialismo del landgrabbing, che attraverso i meccanismi della mera acquisizione di mercato priva intere popolazioni dei loro diritti, delle loro terre e delle loro acque senza dar loro nemmeno la possibilità di essere ascoltati o addirittura attraverso vere e proprie deportazioni. In America Latina, Asia e Africa sempre più grandi foreste, terre comunitarie, bacini fluviali e interi ecosistemi vengono spogliati e le comunità sfollate. La diversità biologica viene costantemente ridotta, la grande barriera corallina australiana è a rischio nei suoi 3000 km. Il respiro degli oceani è soffocato dalla plastica.
Si ripropone la battaglia a favore dell’ambiente, contro il global warming e per una generale riconversione ecologica dell’economia e della società, come impegno culturale, sociale e morale. Si ricorda che la “Laudato si’” di Papa Bergoglio ha messo in risalto gli aspetti umani e spirituali di questa nuova visione.
Purtroppo i governi di tutto il mondo, colpevolmente lenti nell’applicare il Protocollo di Kyoto (2005) e oggi in ritardo nell’attuare gli impegni dell’Accordo di Parigi ratificati nel 2016 da 180 Paesi, non accelerano la loro azione per fare più efficacemente fronte al cambiamento climatico e mantenere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 °C. A pagare lo sconquasso del clima sono soprattutto le popolazioni più povere e vulnerabili, colpite dalle migrazioni interne o dalla fuga disperata dalle loro terre, da fame, sete e malattie endemiche, marginalizzate nei loro territori, spesso nel nome stesso dello sviluppo e dell’innovazione. I rischi dovuti ai disastri ambientali accrescono tensioni e conflitti e nel 2017 hanno causato, da soli, l’esodo di 60 milioni di rifugiati ambientali, ma saranno quattro volte tanti nel giro di soli vent’anni. Non si tratta solo dell’accoglienza e della sicurezza. Occorre “costruire ponti”, capaci di ridurre la distanza fra chi ha troppo e chi non ha abbastanza, fra l’opulenza e la povertà, come indicato dagli obiettivi globali dell’Agenda 2030 proposta dalle Nazioni Unite. Occorre quindi modificare gli stili di vita, le culture e il modo di pensare se si vuole dare futuro al futuro. Trasformare i rifiuti in nuovi prodotti com’è tecnologicamente possibile, fare di più con meno, organizzare la società della sufficienza affinché ogni risorsa sia utilizzata senza sprechi e nel modo più appropriato fino all’autogestione. E da subito decarbonizzare l’economia sostituendo i combustibili fossili con le fonti rinnovabili.
Anche la voce della neo-presidente della Commissione UE, Ursula von der Leyen, si è levata per proporre al Parlamento europeo a Strasburgo l’obiettivo di riduzione del 50-55% di CO2, il gas serra dominante, entro il 2030, facendo così schizzare a quel livello il target che la UE aveva in precedenza fissato al 32%. E, conseguentemente, di mantenere «un ruolo di guida della UE nei negoziati internazionali per far crescere il livello di ambizione delle altre principali economie entro il 2021».
Il governo italiano, continuando a perseguire un atteggiamento vergognosamente caudatario, ha proposto nel Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC) un obiettivo di solo il 33%.
La novità offerta dallo straordinario protagonismo degli studenti di Fridayforfuture nell’ultima settimana di settembre e un primo coinvolgimento dei lavoratori e del loro sindacato, confermato dalle iniziative della CGIL e da una riflessione intensa e foriera di riflessioni nel suo gruppo dirigente, fa presumere che possa attuarsi in tutto il Paese la più ampia mobilitazione possibile.
Il Governo non può sentirsi rappresentato sul tema del clima, come nei confronti dell’immigrazione, dall’involuzione a destra dei Paesi di Visegrad in nome di un miope privilegio degli “interessi nazionali”, che non si pone all’altezza della tremenda sfida e delle responsabilità che il cambiamento climatico impone a tutti.
Per favorire questa mobilitazione – per darle il carattere capillare di confronto con cittadini, organi territoriali elettivi, istituzioni e enti pubblici, luoghi di lavoro e di socializzazione, organi di informazione – occorre pensare anche allo strumento di una legge d’iniziativa popolare che assuma l’obiettivo del 50% per l’Italia e indichi la carbon tax come mezzo principale per coprire la spesa pubblica finalizzata a quell’obiettivo. L’adesione del sindacato unitario a questa impresa è senz’altro determinante.
(*) pubblicato sulla rivista «Inchiesta», settembre 2019
LE VIGNETTE – scelte dalla “bottega” – SONO DI GIULIANO SPAGNUL.
mi pare che il ” movimento” , sempre più complesso con l’estendersi e l’integrarsi
dei movimenti, non possa che girare a vuoto.
Proclami su proclami allargano la schiera dei simpatizzanti, ma nessuno
desidera rinunciare alle comodità acquisite qualsiasi siano i materiali impiegati.
Ora c’è un tema che ci assilla. L’energia nucleare. Sarebbe, questa, un’energia pulita che potrebbe essere utilizzata in molti settori. Sarebbe possibile poterla usare solo per scopi civili mettendo al bando le armi nucleari? O il suo utilizzo non farebbe che aprire la porta alle bombe nucleari? Mi piacerebbe capirlo
Alla fine del primo paragrafo la frase cruciale è mozzata: a parte questo, basta pensare alla pochezza della cosiddetta classe dirigente politica (ed economica) italiana per temere che finchè non avranno loro i piedi in acqua e le auto private lunghe da qui a là sfasciate dai tornado continueranno a nicchiare e partorire green deals che sembrano barzellette. A meno che chi lavora cominci a bloccare la produzione sul serio, chi studia (e chi non) scenda in piazza non ogni due o tre mesi accuratamente saltando i mesi caldi ma almeno ogni settimana, a meno che non si riesca a organizzare una campagna capillare efficace di controinformazione e si insegni a saper leggere le cifre. Altrimenti sono molto scettica circa la futura vivibilità e sostenibilità di/in questo pianeta entro pochi decenni.