Carcere di Bologna: l’istituzione totale ha fallito ancora
Dalla scoperta dell’acqua calda alla necessità/urgenza di cambiare registro…
di Vito Totire (*)
L’uso del termine “acqua calda” non venga intesa come tendente a sminuire l’importanza dell’indagine in corso – che anzi è meritoria e contrasta doverosamente ma coraggiosamente il regime mafioso carcerario. Per questa indagine sulla Dozza di Bologna dobbiamo ringraziare gli inquirenti ma la storia si ripete troppe volte e ripropone le solite questioni.
Sono in atto procedimenti finalizzati ad accertare o disconfermare pesanti accuse: un pestaggio; mercato di sostanze stupefacenti illegali; fornitura di strumentazione vietata.
Quello che ci chiediamo è cosa facevano gli organi di garanzia nel frattempo.
Alcune osservazioni:
- il pestaggio: se la direzione carceraria era a conoscenza di un incidente (come asserisce oggi la direttrice in un’intervista) per quale motivo non è stato approfondito dai medici interni? Come se non si sapesse che “il detenuto è scivolato” è da decenni o da secoli un luogo comune per nascondere altro? C’è la possibilità di distinguere un evento dall’altro sia dal tipo di lesioni sia facendo affidamento su una buona valutazione anamnestica; si poteva fare di più? A nostro avviso si doveva e si deve monitorare meglio;
- mercato stupefacenti illegali: si denuncia lo spaccio ma si trascurano le motivazioni della domanda; bisogna intervenire soprattutto su queste per affrontare la condizione di forte disagio e alienazione vissuta dalle persone detenute a causa delle inadempienze delle istituzioni che non riescono a fare del carcere quello che deve essere secondo il dettato della Costituzione repubblicana; sarà un caso che se ti offrono cocaina o marijuana quando sei in condizione di benessere non sai cosa fartene?
- Nelle cause dei fatti è stata evocata la provenienza territoriale delle persone detenute; la vittima del pestaggio è stato definito con un termine che – bontà sua – il direttore delle carceri Santi Consolo ha proposto di mettere al bando; insomma era addetto alla spesa interna e relativa distribuzione delle merci acquistate. Si tratterebbe di una persona napoletana. Ci chiediamo: e la territorializzazione della pena? Perché scontava la pena detentiva a Bologna? Forse per gli altri, affiliati a organizzazioni criminali, lo Stato invoca motivazioni di “sicurezza” ma per questa persona addetta alla spesa come si spiega un “napoletano” detenuto a Bologna?
- lo stesso “valore di mercato” di un telefonino cellulare è esasperatamente accresciuto sia dal mancato rispetto del criterio della territorializzazione – che limita in maniera patologica i contatti con i familiari – sia dalle enormi difficoltà che i detenuti hanno nell’usufruire dei loro diritti alla comunicazione con i telefoni fissi del carcere (troppo pochi i contatti consentiti e a volte resi molto difficili pur se limitati già all’origine: vedi la recente protesta nel carcere di Turi fatta dai detenuti ma condivisa dagli operatori penitenziari);
- la giustizia farà – come si dice – il suo corso ma la politica deve operare per la prevenzione e per evitare che il carcere sia terreno di coltura per ulteriori violenze e prevaricazioni; gli obiettivi irrinunciabili e semplici sono: a) intervenire sulle condizioni di grave malessere delle persone detenute (sovraffollamento, trattamenti disumani e degradanti, ozio sub-totale) che creano appetenza per i “paradisi artificiali”; b) garantire il principio legale della territorializzazione della pena; c) selezionare e soprattutto motivare in corso d’opera gli agenti penitenziari sia psicologicamente che dal punto di vista salariale orientando questa figura dalla mera attività custodialistica a quella di operatore sociale; d) attivare i sensori relazionali (anche attraverso riunioni periodiche di gruppo coordinate da psicologi e formatori) per registrare il clima interno e contrastare l’attecchimento di gerarchie mafiose e delinquenziali; e) dare effettive possibilità occupazionali gratificanti e retribuite a tutte le persone ristrette.
Di fronte a questi gravi eventi che confermano il fallimento totale delle attuali politiche di custodia, compendiamo meglio come – fallimento per fallimento – sia stato possibile il muro di silenzio mediatico sul recente drammatico suicidio in questura.
Il custodialismo è l’unica strategia istituzionale disponibile e peraltro va facilmente in tilt: basta un sistema di videosorveglianza rotto (“suicidio in questura”) o un agente “infedele” oppure un “incidente” non sufficientemente approfondito per giungere al fallimento plateale… perché il fallimento reale è in realtà quotidiano e sotto gli occhi di tutti.
Bologna, 11.11.2017
(*) Vito Totire, medico psichiatra, è portavoce del circolo Chico Mendes
PS: proprio oggi abbiamo diffuso un commento a un articolo della rivista «Internazionale» che evidenzia come il carcere, nelle dimensioni attuali, non sia un evento “naturale”.
[Il commento sarà in “bottega” nei prossimi giorni – db]