CentroAmerica-aborto: Sheyla, Maria, Imelda e…
… e le altre.
di Maria Teresa Messidoro (*)
Attraverso le storie di alcune donne, la tragedia dell’aborto in Centro America, la necessità di una sua depenalizzazione, l’ostinazione della lotta quotidiana di organizzazioni femministe.
Il Centro America è una delle regioni più disuguali di tutto il continente latinoamericano. La migrazione, la violenza e l’esclusione segnano giorno dopo giorno le popolazioni locali. Le donne sono coloro che più soffrono queste situazioni, soprattutto coloro che vivono in situazioni di povertà.
Essere donne in questa regione comporta confrontarsi anche con altre minacce: la violenza sessuale, l’imposizione di ruoli di genere e la criminalizzazione per emergenze ostetriche che, quasi sempre, sfociano in aborti spontanei. Le legislazioni di El Salvador e Honduras, come in Nicaragua e nella Repubblica Domenicana, proibiscono in forma assoluta l’aborto, in Guatemala, come anche in Costa Rica, si permette soltanto nel caso in cui la vita o la salute della donna incinta sia in pericolo.
In El Salvador, nello scorso settembre, l’attuale presidente Bukele ha espresso molto chiaramente su Facebook la sua attuale posizione sul tema dell’aborto: “ho deciso, affinché non ci sia alcun dubbio, di non proporre nessun tipo di riforma a nessun articolo che abbia a che vedere con il diritto alla vita (dal momento del concepimento)”. (1)
Grazie all’iniziativa Expresate! en América Latina, dell’International Women’s Media Fundation (WMF), tre giornalisti di Guatemala, Honduras e El Salvador hanno analizzato e successivamente raccontato la storia di alcune donne che non hanno le risorse necessarie per difendersi di fronte all’uso e all’abuso giuridico. (2)
La prima è la storia di Sheyla Oliva in Guatemala: è una giovane donna, già madre di tre bambini, che non sapeva di essere nuovamente in cinta; recatasi al Pronto Soccorso – a cui ha diritto in quanto lavoratrice in una piantagione di banane – fu accusata di un aborto che non ha mai commesso. Il suo caso giuridico è ancora aperto e quest’anno dovrà affrontare una nuova udienza. Sheyla non ha mai avuto il coraggio di raccontare la propria storia, che è stata invece narrata dalla sua famiglia e dall’avvocatessa dell’associazione Mujeres Transformando el Mundo che la segue, mettendo in risalto la prima tappa nella criminalizzazione dell’aborto, la denuncia sulla base di pregiudizi e giudizi morali conservatori.
La seconda tappa, la condanna, emerge invece dalla storia di Maria Acosta, honduregna.
Maria ha 42 anni, occhi neri e lunghe sopracciglia, di poche parole, madre di sette bambini; nella sua vita non ha mai saputo cosa fosse l’assistenza sanitaria durante la gravidanza o il parto; ha sempre partorito in casa. Ma con l’ottavo figlio ha avuto dei problemi e non è sopravvissuto. Allora Maria è stata accusata di parricidio; adesso ha già scontato cinque dei ventidue anni di condanna, in un penitenziario di Yoro. Penitenziario dove lavora preparando tortillas, cercando di raccogliere a fatica gli 80 dollari mensili che manda a casa per sostenere i propri figli, non avendo nessun altro su cui contare. Figli che non vede da quando è entrata in carcere.
La terza tappa è la vita dopo il carcere, ed è ciò che sta vivendo Imelda, una giovane salvadoregna.
Imelda, per sette lunghi anni della sua infanzia, è stata abusata sessualmente dal patrigno, che la minacciava perché stesse zitta e non rivelasse a nessuno gli orrori che stava subendo. A 19 anni è rimasta in cinta e, come succede spesso a giovani indigenti, non poté affidarsi a cure mediche: partorì nella latrina di casa sua a Jiquilisco, lunga la costa salvadoregna. Svenuta, fu portata in ospedale, immediatamente denunciata e condotta in carcere, con l’accusa di omicidio aggravato. Più di una volta, mentre era in carcere, si chiese perché si trovasse lì, al posto di chi l’aveva violata ripetutamente.
Dopo due anni, grazie anche al sostegno giuridico di organizzazioni femministe, è stata finalmente liberata, dichiarata non colpevole di aver procurato l’aborto. El Salvador non prevede però programmi di reinserimento nella società, una volta uscite dal carcere, come è successo a Imelda.
Imelda fa parte del gruppo Las 17, il gruppo di donne condannate e incarcerate ingiustamente in El Salvador, dopo aver subito emergenza ostetrica durante il parto. Instancabilmente, da anni, la Agrupación Ciudadana por la depenalización del Aborto si impegna nel paese per liberarle. Tutto iniziò nel 2006, quando in una rivista statunitense esce un articolo in cui si accennava a El Salvador come uno stato diventato anti abortista. (3)
Alcune femministe di un collettivo salvadoregno incominciano così a conoscere le storie di donne che, per aver affrontato emergenze ostetriche al momento del parto, si trovavano a subire condanne fino a 30 anni di carcere. Iniziarono così la prima campagna di solidarietà, occupandosi proprio del caso di Karina, la ragazza di cui si parlava nell’articolo: nasce così la Agrupación Ciudadana, che nel 2009 ottiene la sua prima vittoria, la liberazione di Karina, in carcere da 7 anni e 5 mesi. Esce dal carcere grazie ad una revisione della pena.
La Agrupación identifica quindi 17 donne, le cui storie erano abbastanza simili e si poteva così presentare il loro caso in forma collettiva: nasce la campagna las 17, diffusasi in breve tempo in tutto il mondo. Dal lavoro di denuncia dell’organizzazione nasce il lavoro “Del hospital a la carcel”, la cui ultima edizione attualizzata è del 2020. (4)
La campagna a favore dell’aborto e contro una legge retrograda diventa si trasforma in Campaña para las 17 y +, ottenendo la liberazione di 62 delle 181 donne incarcerate fino al 2021 per l’emergenza ostetrica dopo procurato aborto. Le liberazioni avvengono dopo un duro lavoro giudiziario, utilizzando diversi meccanismi come revisione di sentenza, indulto, trasformazione di pena, benefici penitenziari ed altri strumenti giudiziari. Tutto e sempre accompagnato da continue manifestazioni e prese di posizione pubbliche.
L’ultima campagna è stata lanciata prima di Natale: Nos faltan las 17 (Ci mancano le 17 donne), si proponeva di coscientizzare la popolazione salvadoregna e non solo sul trattamento disumano , non certo legale, nei confronti delle donne che soffrono complicazioni durante il parto. La campagna ha reso pubblico un video con la partecipazione di alcune celebrità statunitensi, come América Ferrera, Mila Jovovich, Kathryn Hahn, Paola Mendoza e Reshma Saujani, chiedendo al presidente Bukele e alla società salvadoregna civile di fare tutto il possibile per far tornare in libertà per Natale le 17. (5)
Il 27 dicembre Karen, Kathy e Evelyn vengono liberate, un “risultato della lotta instancabile e gli sforzi collettivi di molteplici organizzazioni e persone che vogliono vedere queste donne finalmente libere” (dichiarazione di Morena Herrera, presidentessa della Agrupación Ciudadana (6)
Occorre ricordare che le organizzazioni femministe salvadoregne si stanno adoperando da tempo per ottenere la modifica del Codice Penale di El Salvador, richiedendo la depenalizzazione dell’aborto almeno in tre casi: quando è in pericolo di morte la donna in cinta,, quando è impraticabile la vita del nascituro fuori dall’utero e quando la gravidanza è frutto di una violenza sessuale. La proposta, presentata ufficialmente il 28 settembre 2021, si chiama Reforma Beatriz. Il 21 ottobre, l’Assemblea Legislativa di El Salvador, grazie alla maggioranza di Nuevas Ideas, il partito del Presidente Bukele, ha emesso un parere sfavorevole sulla proposta Beatriz, ma le organizzazioni non si arrendono.
La riforma prende il nome da Beatriz, una giovane che viveva nella zona rural del Bajo Lempa. A 18 anni le fu diagnosticato Lupus Eritematoso Sistemico, aggravato da artriti reumatoidi e nefropatia; quando rimase in cinta, le complicanze la portarono ad un parto prematuro, in seguito al quale suo figlio nacque con la sindrome da stress respiratorio. Per questo, quando rimase nuovamente in cinta nel 2013, durante il ricovero, l’equipe medico le consigliarono di interrompere la gravidanza, che metteva a rischio la sua vita, mentre il nascituro, malato, non avrebbe avuto nessuna possibilità di sopravvivenza; coadiuvata da organizzazioni femministe, Beatriz presentò una richiesta in tal senso alla Corte Suprema di Giustizia, richiesta che fu respinta. Il bimbo morì poco dopo il parto, Beatriz vide peggiorare le proprie condizioni di salute. Morirà nel 2017 durante un incidente automobilistico, mentre si recava per l’ennesima visita medica a San Salvador. La famiglia, sostenuta dal movimento femminista, ha continuato a chiedere giustizia. Finalmente l’11 gennaio di quest’anno, la Comisión Interamericana de Derechos Humanos ha trasferito alla Corte Interamerícana de Derechos Humanos, per considerare se El Salvador non abbia violato il diritto di Beatriz alla vita, alla salute e a garanzie giuridiche.(7)
Si tratta dunque del secondo caso in cui, dopo la vicenda di Manuela, il Governo di Bukele si trova coinvolto in un giudizio internazionale collegato con la violazione dei diritti delle donne. (8)
Che sia l’inizio di un percorso verso il rispetto dell’autodeterminazione delle donne, senza più assistere a pene di 30 – 40 anni di prigione per il supposto delitto aggravato in caso di aborto con emergenza ostetrica.
- Il messaggio facebook continua così: “… con il matrimonio (mantenendo unicamente il disegno originale, un uomo e una donna) o con l’eutanasia”, riportato in Despenalización del aborto y matrimonio igualitario excluidos de las reformas constitucionales, di Karen Moreno, Gato Encerrado, 15 dicembre 2021, Manca link
- https://arpas.org.sv/2022/01/aborto-en-centroamerica-tres-historias-de-criminalizacion/, da cui sono tratte anche le immagini relative alle tre storie.
- https://www.nytimes.com/2006/04/09/magazine/prolife-nation.htm
- https://las17.org/
- https://www.youtube.com/watch?v=-4in_mdTC44&ab_channel=Las17ElSalvador
- https://agrupacionciudadana.org/liberan-a-tres-salvadorenas-en-navidad/
- https://gatoencerrado.news/2022/01/13/estado-salvadoreno-enfrentara-juicio-ante-corte-idh-por-violentar-derechos-humanos-de-beatriz/
- https://www.labottegadelbarbieri.org/el-salvador-dopo-dieci-anni-giustizia-per-manuela/
(*) vicepresidentessa Associazione “Lisangà culture in movimento” (Odv)
Il 10 febbraio è stata liberata un’altra donna in carcere in El Salvador, con una pena di 30 anni, di cui ne aveva già scontato 10 anni.
Elsy è la quinta donna liberata in poco tempo, grazie alla campagna delle organizzazioni femministe
https://www.resumenlatinoamericano.org/2022/02/10/el-salvador-liberan-a-elsy-mujer-condenada-a-10-anos-de-prision-por-abortar/
Ai primi di aprile viene liberata Glenda, grazie ad una commutazione di pena. Dal 30 ottobre 2011, quando ebbe una emergenza ostetrica (non si era accorta di essere in cinta) e in ospedale la accusarono di avere abortito. Fu condannata a 10 anni di prigione per omicidio semplice, nel 2013, ma la Fiscalía General de la Republica presentò un appello ed ottenne la condanna di 30 anni di prigione per omicidio aggravato. Secondo il suo avvocato la modifica della pena fu soltanto il prodotto di un pregiudizio di genere. Dopo 9 anni e 5 mesi, Glenda ha potuto finalmente riabbracciare sua figlia di 13 anni ed i suoi familiari. Paula Avila-Guillén, direttrice esecutiva dell’organizzazione Women’s Equality Center, così ha commentato la liberazione di Glenda: “Oggi festeggiamo perché Glenda potrà finalmente riabbracciare la propria famiglia ed avere una nuova opportunità per rifarsi una vita. Però non possiamo non segnalare ancora una volta questa ingiustizia che le ha rubato dieci anni della sua giovinezza. Glenda ha vissuto una emergenza ostetrica, ed invece di essere aiutata, è stata criminalizzata; come succede a molte donne in condizioni di povertà e vulnerabilità. É arrivato finalmente il momento in cui questa discriminazione cessi”.
La notizia è apparsa qui https://revistalabrujula.com/2022/04/07/glenda-es-libre-tras-ser-criminalizada-por-complicaciones-de-salud-durante-embarazo/