C’era tre volte: «doquazione»

un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo

Doquazione,

ovverosia Educazione, le buone maniere, crescere schiena dritta, diventare buoni cittadini, ma sostanzialmente saper stare al proprio posto. Saper rispettare i potenti e non disturbare i non abbienti. I metodi erano i soliti. Quei metodi screditati nell’opinione comune negli ultimi tempi. Screditati insieme al ridimensionamento dell’arroganza e dello strapotere dei potenti, che quei metodi prediligeva. Saper stare con i piedi in una scarpa era esiziale per i poveri, che l’insegnavano ai loro figli, come i nonni l’avevano insegnato ai loro padri. Mazz’ e panell’ fanno ‘e figli bell’. Chiosa qualcuno: panelle senza mazze fanno li figli pazzi.

In proposito un signore/signora troppo spiritosa ha ritenuto di spiegare che: Qualche scappellotto, ove necessario, affiancato alle cure amorevoli, rende i propri figli persone educate, amabili e capaci di affrontare la vita con tutte le sue sfumature. Al contrario l’indulgenza e la permessività smisurate riservano alla prole insicurezza e difficoltà nel superare le fatiche e gli ostacoli che inevitabilmente essa incontrerà durante il proprio cammino, diventando così fragile e irrispettosa. Chi ha scritto non sapeva di cosa si stesse parlando. Né cosa esattamente lei stessa abbia detto. Lo spiego io, a mezzo del racconto sottostante.

Nel corso di una delle mie ultime visite a Grotteria (*) Rione Bofia, uno degli undici in cui è suddiviso il paese, nel punto esatto in cui via Carducci sfocia sulla Statale 501 (ora degradata a provinciale), supa u suncursu (soccorso) per dirla tutta, mi capita di incontrare una signora in età, la cui bellezza, quantunque sciupata, s’ostinava a non voler tramontare. Bella e cordiale, come bisogna riconoscere siano in genere gli abitanti (o dovrei dire erano?) del paese. Per inciso Grotteria era zona di belle donne, famosa come tale in tutta la Locride. Ci venivano apposta dai comuni vicini in cerca di donne da sposare (ora paese di belle donne non è più. Il paese c’è ancora, le belle donne impossibile trovarle. Qualche bella ottuagenaria, al massimo). La signora, affabile, alla quale chiesi della figlia, d’aspetto straordinario anch’essa, una che avrebbe fatto impallidire la Lollobrigida, mi spiegò che si era recata alla Marina (Marina di Gioiosa Jonica) per soddisfare non so quale capriccio della nipotina, credo di sette anni. Da lì il discorso fece presto a passare sui nuovi, blandi metodi educativi che erano penetrati anche negli usi e costumi del luogo. Con relativa rivendicazione dell’eccellenza dei vecchi.

I neo genitori, lamentava, non correggono i bambini. Non li picchiano. Li fanno crescere non si sa come. Pieni di pretese. Sono quasi essi a comandare in casa, invece di essere comandati. Concluse la filippica con un gesto eloquente della mano, oscillando con il palmo, nel tradizionale gesto di darle. Chiarendo ulteriormente:

Ah, eu, si ‘nci bisogna, ‘nci duni…” (Ah, io se ne ravviso il bisogno, gliele do’)

Anche ai nipoti?” mi venne di chiederle.

Pocu. Non vogghiu u mi mingriju ca figghia. Ca’ figghiuma mi grida, sapiti? s’arraggia, dice che non è quello il modo. Ma quando ‘nci voli ‘nci voli. Nun ‘nci detti puru a ija quandu s’immerità? A criscivu bonu a criscivu… seria, lavoratura, doquata…” (Poco. Non voglio litigare con la figlia. Mi grida, sapete?… Ma quando ci vuole ci vuole. Non gliel’ho date anche a lei quando se l’è meritate? L’ho cresciuta bene, l’ho cresciuta… seria, lavoratora, educata…)

Parlando e meravigliando, dal basso arrivò mia moglie, affannata a causa dell’impervia salita. La sua comparsa migliorò immediatamente la situazione, diventata per me alquanto pesante. Le necessità dei convenevoli rese impossibile continuare sullo stesso argomento, come su qualsiasi altro. Divenne immediatamente il canonico comu siti e comu non siti (come state e come non state), vi piaci Grotteria, e beja no? E poi mangiastuvu? (avete mangiato). Al che ancora affannando la mogliera rispose: siamo saliti proprio per prendere la macchina e andare a mangiare. A Mammola. Ci hanno consigliato un ottimo ristorante, dove cucinano lo stocco. La parola “stocco” (stoccu in dialetto) introdusse una nuova inderogabile necessità. Quella di complimentarsi per la scelta e dare via libera al raggiungimento del sublime obiettivo. Bonu u stoccu! Jiti jiti, che è quasi l’ura, cu tanti benedezioni!

Mammola – comune che ancora conserva le sembianze di paese abitato (non come Grotteria che, fosse in pianura, sembrerebbe una delle tante città abbandonate tipiche dei paesaggi western) – è più collocata in basso rispetto a Grotteria, quasi al livello del mare. Un quarto d’ora, venti minuti e ci si arriva. Andeteci, se capitate da quelle parti, nella Locride, ci sono buoni ristoranti che praticano buoni prezzi….

Mentre manovravo per invertire l’auto, parcheggiata con il muso in direzione Castello, la memoria tornò al lontano passato, in un’epoca vicinissima alla guerra, epoca in cui non era questione di come si educassero i figli. Se occorreva gliele si dava. Con la mano, con un ramoscello d’albero, l’ulivo adattissimo, palme benedette dal signore; e anche utilizzando i piedi e le mani, strette a pugno eventualmente.

La mia Signora moglie, invece, che soffriva del comune difetto di credersi sua, cioè di sé stessa, ritenne opportuno dedicarsi a commentare favorevolmente l’aspetto della grotterese.

Propria bella, non trovi? Alla sua età, poi!”

Trovavo, non giudicai però interessante soffermarmi sull’argomento. Ogni specificazione superflua. La moglie non si lasciò ignorare. Mai lo faceva. Continuò, insistette.

Bel tratto questi tuoi calabresi. Siete proprio strani, sai.”

Secondo me tutti gli esseri umani erano strani. Caratterizzati da notevoli differenze di personalità. Salvo quelli cresciuti in una grande metropoli, uniformati dalla metropoli medesima. Nei borghi del mondo le costrizioni ambientali si esercitavano sulle regole, le personalità avevano modo di svilupparsi. La città pretendeva un ossequio che andava oltre le regole. Tentava regolare anche l’anima.

Non appena superai il tratto nel quale occorreva fare molta attenzione nella guida, dedicai quel che m’avanzava per risponderle.

È per questo che mi hai scelto? Perché sono strano?”

Ignorò il tentativo di spiritosare.

Siete esagerati per natura, sempre sopra le righe. Anche nel modo di parlare, oltre che di agire. Qui le persone se sono buone, sono infinitamente buone; se cattive, esageratamente cattive. Una disgrazia aver a che fare con queste ultime.”

Forse intendeva riferirsi a un vicino che avanzava diritti di proprietà su una parte di un piccolo giardino, un centinaio di metri quadrati circa, annesso alla casa avita. Avevo il rogito che documentava il mio diritto. Su di esso la volontà sua faceva agio. S’era convinto d’averne titolo e non c’era verso di convincerlo del contrario. I dispetti che, in mia assenza, mi aveva dedicato! Ma questa è tutt’altra storia, tangenzialmente estranea a quella che racconto, anch’esso fatto vero di fede. Perciò ometto di ulteriormente specificare.

Scendendo la bellezza del paesaggio attrasse la sua attenzione molto più di quanto potesse la mia non brillante conversazione. Potei in questo modo dedicarmi alla rievocazione delle maniere spicce e a volte esagerate, con le quali si provvedeva alla doquazione (educazione) dei pargoli. Per alcuni credo non fosse neanche questione di doquazione, ma di medicina preventiva, da propinare ad ogni buon conto; o quantomeno per abituarli ai contraccolpi della vita da adulti. Anche se, poteva succedere, i contraccolpi delle botte spesso producessero caratteri ribelli o noncuranti delle sanzioni. Con la conseguenza, corollario quasi inevitabile, che incoraggiavano a assumere atteggiamenti che a posteriori giustificavano quello ch’era successo nell’anteriore. Me ne hanno date tante. Possibile non posa restituirne qualcuna anche io?

Condensai la rievocazione in unico caso, che vi offro a mo’ d’esempio. Quello di un adolescente dirimpettaio, figlio esagerato quanto il padre moderato. Buon uomo, costui; d’animo cortese e modi acconci. Ottimo sarto, per altro, tenuto in grande considerazione da clienti e amici, nonostante non fosse propriamente uomo di rispetto. Il figlio, invece, mio dio! L’esagerazione in persona. Esagerato anche per essere un adolescente. Fimminaro, scostumato, bugiardo e spendaccione (la negazione del genitore). Naturalmente spendeva i soldi guadagnati dal padre, che la madre gli passava sottobanco, o rubacchiava, negando senza arrossire, se accusato di averlo fatto. Inutile dire che disobbediva non appena ne aveva l’occasione, disobbediente per principio, dotato di una grande fantasia che lo induceva a vantarsi di imprese delle quali aveva udito raccontare, o visto occasionalmente nel cinema parrocchiale. Gli piaceva vantarsi, gabbare il prossimo. Ma lo faceva senza cattiveria, per la soddisfazione di dimostrarsi più svelto e in gamba. Sbaglio se affermo che possedeva l’orgoglio di Lucifero? Non sbaglio.

L’unica che non si potesse dire contro di lui è che menasse le mani volentieri. Se occorreva non si tirava indietro, ma se poteva evitare, evitava.

Inutili le prediche, gli ammonimenti, le punizioni. “Stortu” era, storto intendeva rimanere.

Esasperato il padre decise di infiggergli una punizione esemplare, tale che se la sarebbe ricordata. Una prima passata di calci e pugni servì a preparare la punizione seconda, quella vera, che applico immediatamente. Legato ai piedi del letto, ginocchioni, in perenne penitenza, a pane e acqua all’inizio (a correggere provvide l’indignazione della moglie e madre, che impose almeno quel limite. Il mangiare di tutti anche a lui): e solo a certe condizioni, quella di una lunga corda, mandato al bagno per l’esercizio degli inevitabili bisogni. Tre volte al giorno, mattino, mezzogiorno e sera

La punizione venne giustificata facendo appello alla legge del contrappasso, dell’insigne Maestro Nostro, Dante Alighieri. Non mancava di brandelli di cultura il nostro buon concittadino. Ecco la giustificazione: il figlio usurpava del diritto alla libertà, trasformandolo in arbitrio? Puntava costantemente al proprio vantaggio, infischiandosene del disagio dei parenti? Lo si puniva limitandone la libertà e procurandogli altrettanti e più gravi disagi di quelli nei quali coinvolgeva il parentado. E non aveva messo le mani addosso, si dice, a una lontana cugina che, conseguenza di quell’episodio (toccamenti, più che altro. Oggi si direbbe, atti di libidine) era dovuta scappare dal paese, rifugiarsi al nord per avere qualche possibilità di trovare marito! Si calpestava allora l’orgoglio del ragazzo con la medesima crudeltà con la quale egli calpestava l’umiltà degli altri. I diversi da lui, che da lui si potevano salvare esclusivamente adoperando la violenza. Lo zio, infatti, era stato sul punto quasi di ammazzarlo. La zia, di graffiargli i facci (le guance).

Tre giorni rimase il poveretto legato al letto, rimproverato, sprezzato, deriso. Per tre giorni il padre sperò invano in qualche manifestazione di pentimento. Torvo e silenzioso il figlio aspettava terminasse la pena, sapendo bene, addestrato dai piaceri ai quali volentieri chiedeva accesso, che ogni cosa che abbia inizio, ha anche fine. Ecché, si trattava di un ergastolo, forse?

Giunto quasi al termine del terzo giorno il povero padre, stanco più del figlio di quel protrarsi increscioso della situazione, si convinse della necessità di inserire un aggravio ulteriore. Un aggravio tale da indurre il giovane a più miti consigli. Occorreva si piegasse, altrimenti tutto quello a che sarebbe servito?

Guardate, osservate, siamo di fronte alla trappola psicologica in cui cadono tutti coloro che ricorrono con un eccesso di fiducia nella violenza. Ignorando che certi spiriti non li si può piegare, solo spezzare. Quel suo ancor più povero figlio, in particolare, non era con le cattive maniere che lo si poteva convincere. Là dove non si arrivava con le buone era escluso si potesse con le cattive.

Avvicinò il giovane stremato e gli chiese se non volesse rinunciare all’orgoglio e riconoscere i propri errori.

Sbajjhiasti, fijjhiu meu. Sbajjhiasti.” (Hai sbagliato, figlio mio. Hai sbagliato.)

Liberatemi. Doppu ‘ndìndì parramu.” (Liberatemi. Dopo parliamo.)

Ora, ora. Dimmi ca no fa’ ‘jhiù.” (Promettimi che non lo fai più.)

Eu non fici nenti!” (Non ho fatto niente!)

Nenti facisti? E qundu ‘ntà putica mi mentisti i mani ‘ntà buggia.” (Niente hai fatto? E quando dentro la sartoria mi hai messo le mani in tasca?)

Centu liri, mi pigghiavu. Chi sunnu pevvui centu liri?” (Cento lire ho preso. Cosa sono per voi cento lire?)

Arrobbasti a to patri!” (Hai rubato a tuo padre.)

Chi arrobbari e arrobbari! M’imprestavu! Vi tuorno, appena pozzu…” (Che rubare e rubare! Li ho presi in prestito. Oppena posso ve li restituisco.)

Sì, u juornu du cunnu… quandu si piscia a gajhina…” (Sì, il giorno della vulva… quando piscia la gallina…)

Prima o po’, vi tuornu… criditimi.” (Prima o poi ve li restituisco… credetemi.)

E tua cugina Lucrezia, chi dici i to cugina Lucrezia?”

E quantu a faciti randi. Pe na toccatina i culu!”

Ti vittaru chi parravi ca mujjheri i dufacci (con la moglie di duefacce)! U sa’ cu è, no?”

E chi mo non si poti mancu parrari?”

Insomma non ci fu verso di strappargli mezza parola di pentimento. Il che fece sorgere spontanea la necessità di fare ricorso al supplemento di sanzioni che era già nella testa dell’artigiano. Mostrare a tutti l’umiliante condizione in cui era incorso a causa delle sue imprese. Legato come un animale!

Capitò proprio a me, il prescelto dal destino, per rendere testimonianza dell’episodio, per dare inizio al supplemento di pena. A me che ero mezzo parente e primo vicino. Il vicino più vicino di tutti. Non so dire quanti anni avessi, qualcuno in meno del suppliziato sicuro. In compenso ero considerato, nonostante la tenera età, più affidabile e meglio in grado di tanti altri da fungere da dissuadente.

Sono tutte aleatorie le convinzioni, convenzioni e certezze di questo mondo. Nessuna ipotesi è in grado di stabilire con certezza se, ad esempio, l’ultima tirannia di un autocrate, sarà tale (ultima) anche definitivamente oltre che temporalmente; in questo nostro caso se la correzione tentato dal padre emenderà o guasterà per sempre, l’ostinato insolente e disubbidiente.

Ricordo, per sezioni e singoli fotogrammi, la corta clip della scena che ne conseguì. La metà di destra della porta a doppia anta che veniva aperta. Il campo lungo del tinello, del corridoio che portava alla cucina e, a seguire, alla camera da letto. Anche quella porta aperta. Ai piedi del letto, a capo chino, il suppliziato. Udendo la voce del padre che m’invitava a entrare, alzò la testa, rendendosi subito conto di ciò ch’era l’ulteriore al quale era stato condannato.

L’urlo allora che si levò dalle sue viscere, salì verso il petto e gli uscì dalla gola. Il “No!” grande lungo con il quale si ribellò. Con il quale infuriò. E promise morte. Morte a sé stesso, se ad altri non gli sarebbe stato concesso di infliggerla.

Fu un “no” che sembra impossibile riuscire nell’impresa di descriverlo, non certo possibile in alta fedeltà. Dare una idea precisa della lunghezza e potenza dell’urlo (il primo urlo, perché gli altri che diede non furono che una breve, insistita iterazione). Onomatopeizzando probabilmente farei sorgere nei lettori d’idea che vanamente sto cercando di dare. Comunque ci provo. Fu qualcosa come un lungo “nooooooooooooo!” di disperazione: così tanto lungo da terminare in gracidio di gola, in colpi di tosse… un no pieno di dolore, disperazione, ribellione, indignazione e sollevazione. No, no, no, no, no, no, no! E via noando. No rancorosi, totali, totalizzanti. Nello stesso tempo si mise a dare strappi alla corda che l’aggiogava al letto, il no che diventava “non voglio! Non voglio! Questo no! No! No!”. Strappi tanto forti che riuscì a spostare il letto. Sperando di riuscire a spostarsi abbastanza da sottrarsi allo sguardo indiscreto di chi fosse stato fatto entrare. Il rifugio di un angolo che lo sottraesse agli sguardi di estranei. A costo di procurarsi strappi alle braccia, a costo di diventare invalido.

Fortuna l’acume del padre che capì e provvide per tempo. Quello della madre anche, la quale si mise a strillare come una pazza. A minacciare il marito, correndo in cucina per uscirne con in mano un coltello (ignoro se per dare addosso al coniuge o tagliare le corde che legavano il pargolo). Non vidi altro. Il buon uomo mi spinse fuori e chiuse la porta. Le grida dentro cessarono. Non i pianti della povera madre.

Un’ora dopo il tanghero era fuori che si massaggiava gambe e braccia. Non però trionfando. Lacrimando. Lacrime silenziose. Che sono le stesse mio di adesso che scrivo.

Non chiedo le vostre. Non è per farvi piangere che vi sottopongo tutto questo. È perché sappiate e consideriate. Le tante cose. Anzitutto l’amore chi ci tocca evocare, sempre e al quale dimentichiamo troppo spesso di ricorrere.

2

Credo che a questo punto vi aspettiate una morale. Ogni storia degna di questo nome è in obbligo d’esporla. Non lo farò. Lascerò a voi, alla vostra sensibilità e intelligenza inventarne una. Dotandovi di questa ulteriore informazione. Che anni dopo si presentò in casa di un amico, più povero di lui, per chiedere aiuto, aiuto materiale, aiuto economico. Aveva perduto la nave che avrebbe dovuto portarlo in America. Correndo dietro una gonnella conosciuta sul treno per Roma, non era corso abbastanza svelto dietro al treno che doveva portarlo non so bene dove. A Civitavecchia, Livorno. Forse Genova. Imbastì a proposito il progetto, credo costruito là per là, che bisognava di una piccola somma per procurarsi un nuovo biglietto per (credo) Genova; e per un panino con il quale sfamarsi. Tutte le risorse essendo state dilapidato per rendere piacevoli le circostanze dell’incontro con la bella del treno. Avventura pazzesca nella quale solo lui poteva incorrere; o comunque solo lui architettare. Altro non so. A parte che negli Stati Uniti è riuscito ad arrivare. Che ha voluto restituire il prestito contratto con il comune amico; e che ora si governa alla grande, prospero e stimato padre di famiglia, in quel del Connecticut.

Sia lode a lui e al Pateterno (Padre Eterno) che lo ha aiutato.

(*) Grotteria è un piccolo centro agricolo della Vallata del Torbido nella Locride, sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria. Il territorio estende dal Mar Jonio (Grotteria Mare) alle Serre (Croceferrata, 1100 m di altezza) e confina con i Comuni di Galatro e Fabrizia a Nord, Mammola ad Ovest, San Giovanni di Gerace, Martone e Gioiosa Jonica ad Est, Marina di Gioiosa Jonica e Siderno a Sud.

Il centro sorge dai piedi della collina ove è il Castello, a 400 metri circa di altezza, scendendo a gradoni verso il basso, fino ad arrivare alla Chiesa del Crocifisso (270 metri d’altezza). La forma è paragonata a quella del presepe. Più in basso del Crocifisso vi è il torrente Caturello. Undici sono i rioni (rughe) che lo compongono: Crocefisso, Nucara, Matrice, Pisciotto, Trinità, San Giorgio, Frandisca-Donna Covella, Bofia-Soccorso, Sant’Antonio, San Domenico e Castello.

Miglieruolo
Mauro Antonio Miglieruolo (o anche Migliaruolo), nato a Grotteria (Reggio Calabria) il 10 aprile 1942 (in verità il 6), in un paese morente del tutto simile a un reperto abitativo extraterrestre abbandonato dai suoi abitanti. Scrivo fantascienza anche per ritornarvi. Nostalgia di un mondo che non è più? Forse. Forse tutta la fantascienza nasce dalla sofferenza per tale nostalgia. A meno che non si tratti di timore. Timore di perdere aderenza con un mondo che sembra svanire e che a breve potrebbe non essere più.

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