Cervello, controllo, corpi
Riflessioni di Giuliano Spagnul su «Neuroviventi» di Marco Pacioni
«Un fantasma si aggira nel mondo. Il cervello». Inizia così la prefazione di Adriano Prosperi al libro di Marco Pacioni, Neuroviventi. Politica del cervello e controllo dei corpi, Mimesis 2016, pagine 136 euro 14. Ma forse più che di fantasma occorrerebbe parlare di un nuovo demiurgo, o meglio neurodemiurgo1. È molto difficile rendere in modo chiaro ed esaustivo ciò che il libro racconta delle politiche sulla vita che questo nuovo sovrano si appresta ad esercitare in modo sempre più pervasivo fin dall’inizio di questo millennio. Il non corposo libro, diviso in 25 brevi capitoli, affronta una tale molteplicità di prospettive che è inevitabile chiedersi se non corra il rischio di una certa frammentarietà. Forse limite e pregio del libro è proprio aver aperto una serie di innumerevoli porte o finestre di discussione, rischiando una dispersione ma permettendo anche una stimolante possibilità di aderire ai problemi più urgenti e scottanti della realtà che stiamo vivendo. Al solito si potrebbe dire “ancora domande ma non risposte”; però le domande che sono capaci di indirizzare pratiche sono molto più importanti delle risposte che solitamente chiudono autoritariamente un solo discorso alla volta nella gabbia della verità, ingessando l’agire e privandolo delle sue potenzialità creative. Se vogliamo comunque azzardare di identificare la tesi principale da cui muove l’intero libro, potremmo dire che le neuroscienze – cioè la frontiera più avanzata della scienza moderna – sono di fatto un ritorno alla vecchie concezioni deterministiche dell’Ottocento positivista riviste e potenziate dalla forza dei recenti mezzi messi a disposizione dalla tecnologia. Il comun denominatore fra le due epoche, tra due mondi storici che sembrerebbero lontanissimi e inaccostabili è costituito da quell’idea che sembra indispensabile per qualunque pensiero scientifico che voglia definirsi tale: la ricerca di un’essenza, quel qualcosa che costituisce la caratteristica vera, autentica dell’oggetto da conoscere, «un’essenza che nel caso della neurogenetica dell’umano è definibile come il neurovivente. E questa essenza è tale perché essa prescinde dalle relazioni contingenti che instaura con l’ambiente». E non potrebbe essere diversamente se oggi di fatto l’antica hybris ritorna in auge non come una minaccia ma come una risorsa per l’umanità, una risorsa che per quanto pericolosa può essere governata dalla civiltà occidentale grazie all’uso della ragione, unica prerogativa e garanzia per poter accedere a ciò che possiamo considerare come indubbiamente vero. Il mondo occidentale sembra non aver cercato altro da 2500 anni: come garantire, certificare qualcosa che possa essere al di là di ogni possibile dubbio ciò che dichiara di essere. Per esclusione ogni prospettiva diversa che abbia l’ardire di porsi come alternativa va puntualmente stigmatizzata. E così è possibile trovarci oggi di fronte al paradosso «che proprio quando la possibilità di manipolazione degli esseri aumentano e la creazione di nuovi ibridi è sempre più a portata di mano torni in auge un’identità essenzialista dell’umano. Il paradosso è però solo apparente se si considera che l’essenza umana stabilita dalla neurogenetica è il frutto di una ‘ontologia operativa’,2 cioè quell’ontologia stabilita da una volontà di sapere 3 che separa ciò che è conoscitivamente e tecnicamente riproducibile da ciò che riproducibile non è». E questo fa sì che «il sapere inteso come riproducibilità assicura identità e controllo. Sostituisce l’imitazione, fondamentale nel processo dell’apprendimento, con la replicabilità». Lo scarto, il residuo, quello che rimane escluso da ogni possibile imitazione e che proprio in quanto tale ha sempre, storicamente, permesso la possibilità dell’imitazione come generazione creativa del nuovo e non pura e semplice duplicazione, cioè ripetitivo, viene così a essere espulso in via definitiva dalla vita umana.
Su questo possibile punto di partenza vorrei seguire almeno due tracce fra le tante che questo libro suggerisce: la prima è la distinzione fra prevedere e prevenire. Vecchio adagio della saggezza popolare: prevenire è sempre meglio che curare. Come non essere d’accordo? E prevedere poi, perché contrapporlo? Se si vuole prevenire bisogna pur prevedere cosa prevenire. Siamo sempre nel sapere popolare, materia per antropologi e folkloristi, non certo per il sapere scientifico, quel sapere scientifico che sempre più è «volontà di sapere a tutti i costi». E se “a tutti i costi” vuol dire di necessità dover «esercitare un controllo meccanico di causa-effetto ad ogni passo» in cui si procede verso la conoscenza vera, oggettiva, questo vuol dire di fatto non potersi accontentare «di prevedere», perché prevedere implica una distanziazione fra la previsione e il far qualcosa al riguardo e cioè implica l’atto di una scelta. Si può decidere allora di prevenire agendo di conseguenza, ma questo per una politica che vuole governare la vita attraverso la limitazione del possibile, dell’incerto, dello scarto vuol dire insinuare dentro di sè il baco dell’incertezza, dell’errore, del limite. Per entrare nel concreto «la donna e l’uomo neuroscientifici (…) forti delle apparenti certezze fattuali osservate dalle neuroscienze, possono e anzi devono decidere di non percorrere la distanza fra la mera predisposizione a certe caratteristiche e il tempo in cui tali caratteristiche si verificheranno fattualmente». Il feroce dibattito, per la verità puro scontro, a cui stiamo assistendo fra pro e anti vaccini, per fare un esempio fra i tanti possibili, evidenzia in modo plateale l’ansia e il disorientamento che questa evoluzione sempre più accelerata verso la società sicura per eccellenza cova al suo interno.
La seconda traccia parte invece dal capitolo introduttivo, con quel titolo inquietante: «Jekyll o Hyde?»: «Quando forse è troppo tardi, Jekyll capisce che non è soltanto una sua anomalia la forte inclinazione a poter essere anche un altro, ma qualcosa che caratterizza tutti gli esseri umani» .Analizzando il famoso racconto di Stevenson, Marco Pacioni ci dice che «alla fine della storia, il dottor Jekyll sembra capire che è inumano non distinguersi in personalità diverse che coabitano, che non è umano separarsi, stabilirsi per sempre in un’unica identità e scartare la possibilità di essere altro o con un altro». Novelli Jekyll tutti noi rischiamo a nostra volta, estromettendo da noi il “mostro”, di avviarci verso quella strada identitaria che ci potrebbe ridurre «a dover essere soltanto uno» invece che molteplicità. La paura del mostruoso ce lo fa estromettere col possibile risultato di rimanerne affascinati e in qualche modo potenzialmente succubi. Ancora un mostro su un’isoletta di un fiordo norvegese, o ad alta quota in una cabina di pilotaggio di un aereo di linea, o in una discoteca per gay in una cittadina statunitense, o in… un altro posto in cui inevitabilmente il prossimo mostro si scaglierà contro quelli che fino a poco prima erano suoi simili ma che a un certo punto non lo sono stati più. L’unico simile a se stesso è diventato lui stesso, quando le possibili sfaccettature della propria identità si sono saldate in un’unica definitiva personalità, quella del mostro. Figura eroica4 e destinata a emanare un fascino sempre più grande in tutti quelli che potrebbero essere, sarà il caso a deciderlo, le sue prossime vittime. Sì, fascinazione perché sta proprio nel rifiuto di un qualsiasi riconoscimento con il mostro, e comunque con il qualunque altro da noi, che si insinua quel malcelato sentimento di attrazione, quello per cui, alla fine, gli “Hannibal Lecter” piacciono!
Nota 1. Il termine neuro è diventato sempre più invasivo fino ad assurgere a vera e propria “neuromania”.
Nota 2. Giorgio Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. Homo sacer, II.5, Bollati Boringhieri.
Nota 3. «tra il XVI e il XVII secolo (e soprattutto in Inghilterra) è apparsa una volontà di sapere che, anticipando i contenuti attuali, disegnava piani d’oggetti possibili, misurabili, catalogabili; una volontà di sapere che imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza), una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere più che leggere, verificare più che commentare); una volontà di sapere che prescriveva (e con modalità più generali di ogni strumento determinato) a che livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere verificabili e utili»: Michel Foucault, «L’ordine del discorso», Einaudi 1972.
Nota 4. https://www.labottegadelbarbieri.org/recensione-a-heroes-suicidio-e-omicidi-di-massa/
QUESTA RECENSIONE COMPLETA UN TRIO IDEALE SUL CERVELLO con quelle sui libri «La cura» (La malattia è un evento) e «Neurocapitalismo» (cfr Neurocapitalismo e cura).