Chiamatemi antipolitica
di Daniela Pia
Vorrei presentarmi, sono l’antipolitica: quella becera, coi piedi troppo per terra, che disgusta un po’ i signori che “la politica” la fanno sporcandosi le mani, lo dicono loro non io. Sono un po’ frustata anche perché uso i mezzi pubblici, non ho la piega ai pantaloni, la messinpiega appena due volte l’anno, manicure fatta coi denti, che ogni tanto, spesso, ho travasi di bile dovuti ai rincari continui, e sto lì a limare le unghie e non solo, sino a che non vedo rosso sangue. Nel 1993 sono andata a votare al referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, non dico cosa ho votato che il voto è segreto e, da allora, ho imparato a limare, con sempre crescente passione, nel senso di quella di nostro Signore. Nemmeno fossi stata in carcere, o forse sì, per avere una così assidua consuetudine con la lima. Dunque, riflettevo sul fatto che, nonostante il «popolo sovrano» abbia manifestato la sua volontà, i partiti non hanno rinunciato ai finanziamenti pubblici; nel dicembre ’93, sempre loro, in Parlamento, con un coupe de theatre degno del mago Silvan, hanno trasformato gli inverecondi finanziamenti in più dignitosi “rimborsi” elettorali e le somme loro destinate sono lievitate: da 40 milioni agli attuali 500. Ci dessero la ricetta di siffatto lievito, sapessero quanto noi femminas dell’antipolitica sapremo risparmiare. Insomma hanno riempito i loro forzieri di una somma che grazie alla volontà popolare, espressasi coi referendum, è triplicata rispetto alle spese effettive dei partiti. E me li guardo – i Casini, i Bersani e gli Alfano – di trasmissione in trasmissione, che non ne disdegnano nessuna, sempre grasso che cola, trasportati da autisti-guardie del corpo, sempre trafelati, a salire e scendere da aerei pagati da noi, ad assistere a prime, pagate da noi, col sudore profumato, che mica è roba popolare il loro. Penso (sì, confesso: sono una tossicodipendente del pensiero) e mi arrovello, cercando di trovare differenze, quelle che in passato mi hanno dato l’idea dell’appartenenza, e non riesco più a trovarne di convincenti. Si dovevano ridurre lo stipendio, destri e sinistri, e stiamo ancora aspettando l’ epifania. Intanto noi, quelli della ripugnante antipolitica, ci siamo infine stancati della incessante valanga di putridume che emerge quando la magistratura fruga nelle loro tasche. Nel frattempo cerchiamo di mantenere figlioli trentenni che quando non va troppo male, e cioè sono disoccupati, sono in mano ad aguzzini che vietano maternità e malattie – «ma come ti sei fratturata una gamba? Beh, così non va bene» – quando non giungono persino a negare pause bagno. E ci guardiamo allo specchio e ci vediamo invecchiare e con noi invecchiano le speranze e cresce la rabbia, quella che loro chiamano con disprezzo, masticando le parole quasi fossero vetro, «antipolitica». Così sussiegosi questi luminari della politica che da decenni sono lì a rappresentare il nuovo e il vecchio, sempre loro, negli ultimi giorni hanno lanciato grida d’ allarme: «Attenzione, signori, guardate che senza il sostegno dei soldi pubblici la politica diventerà appannaggio dei Paperon de Paperoni e della Banda Bassotti». Ah sì? Davvero? Eppure mi era parso di riconoscere sui banchi del Parlamento solo queste due categorie. Mi sorge spontaneo un consiglio: fateci un piacere a noi dell’antipolitica, restateci pure ad immolarvi per il “bene della patria” ma senza il nostro danaro, restituitecelo, almeno nell’ultima tranche alla quale, sinora solo la Lega, bontà sua, ha proclamato di rinunciare. E non fingete di arrovellarvi su disegni di legge che dovrebbero partorire un’autorità di controllo “indipendente” che vigili sui vostri bilanci, salvo poi far decidere al solito Parlamento eventuali sanzioni. E venite finalmente a RIPULIRVI le mani con noi, in fabbrica, nelle scuole, dentro i treni-bestiame dei pendolari, alle Asl, nei call center: può darsi che frequentando l’ignobile antipolitica ricomincerete a capire cosa, in passato, ci era parso dovesse essere la politica.