Chiapas: libertà per Alberto Patishtán…
…ostaggio dello Stato.
di David Lifodi
La prigionia di Alberto Patishtán, professore indigeno tzotzil recluso da tredici anni, è l’emblema della corruzione della giustizia messicana e della sua sottomissione ai potenti. “El Profe”, questo il nomignolo con cui è chiamato affettuosamente, non è solo un prigioniero politico, ma è anche un simbolo della resistenza contro cui si è accanito il Messico dei los de arriba.
I guai per Patishtán sono cominciati il 12 giugno 2000, quando a Simojovel, municipio chiapaneco di El Bosque, vengono uccisi sette poliziotti. Allora, come del resto oggi, il Chiapas era infestato dall’esercito e dai paramilitari e il presidente Ernesto Zedillo era impegnato a condurre la sua guerra personale contro gli zapatisti. L’omicidio dei poliziotti ebbe l’effetto di spingere il presidente ad inviare altre centinaia di militari dell’Esercito Federale e servì per far passare agli occhi dell’opinione pubblica come responsabili dell’omicidio gli zapatisti. In realtà fu proprio l’Ezln a condurre una coraggiosa campagna di controinformazione, evidenziando che l’attacco contro i poliziotti era stato orchestrato con metodi propri dei paras o dei narcotrafficanti e comunque con il tacito appoggio dell’esercito: era impossibile, infatti, muoversi in quelle zona senza essere scoperti dai militari. Al tempo stesso, sempre nel Chiapas, era in corso una faida all’interno del Partido Revolucionario Institucional (Pri) e dei suoi partiti alleati: Hermann Bellinghausen scrisse su La Jornada che fu proprio il governo chiapaneco ad armare dei dissidenti del Partito del Lavoro (vicino al Pri), per compiere la strage. A fare le spese di questa macchinazione fu il professor Patishtán, indigeno e, allora, con delle simpatie priiste, nonostante molti membri dello stesso Pri sostenessero che era innocente. In carcere “El Profe” si è avvicinato all’Altra Campagna zapatista, e questo ha contribuito alla persecuzione dello stato e della giustizia messicana nei suoi confronti. Sono in molti a sostenere che Patishtán è un ostaggio: solo poche settimane fa la giustizia messicana ha confermato la condanna nei suoi confronti nonostante l’evidente innocenza ritenendo infondate le prove a favore del professore, che sta scontando una doppia discriminazione, sia per essere indigeno sia per la sua vicinanza alla lotta zapatista. La reclusione di Patishtán rappresenta un chiaro ammonimento per tutto il Messico che sta cercando di resistere alla spoliazione delle risorse naturali e oppone i diritti civili, sociali e politici in un contesto più simile ad una democratura che ad una democrazia. Tutto questo mentre nel paese crescono le proteste degli insegnanti contro una serie di misure liberticide prese dal Congresso, ma spacciate come riforme del lavoro. Patishtán fu sequestrato il 19 giugno 2000, una settimana dopo l’omicidio dei poliziotti: è stato torturato ed ha assistito, impotente, alla fabbricazione di prove fittizie contro di lui. Nel frattempo, mentre “El Profe” veniva arrestato, il presidente messicano Ernesto Zedillo si recava nella Selva Lacandona per inaugurare una strada sicuro di non subire contestazioni. Patishtán, insieme ai maestri rurali, era il portavoce della protesta contro il sindaco del municipio di El Bosque Manuel Gómez, priista, accusato di corruzione: questa crescente mobilitazione nei confronti di Gómez aveva già spinto Zedillo ad ordinare la militarizzazione del Chiapas, secondo quanto aveva già denunciato il subcomandante Marcos. Inoltre, l’altra “colpa” di Patishtán di fronte al governo messicano, è stata quella di aver lavorato, durante la sua reclusione, a fianco degli ultimi, di quei dannati della terra conosciuti in carcere a cui “El Profe” ha insegnato lo spagnolo, ma ha anche contribuito alla formazione della loro coscienza politica. Sempre in carcere il professore è entrato in contatto con il collettivo La Voz de Cerro Hueco (questo il nome del carcere in cui è recluso), insieme al quale ha aderito alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona.
“A volte”, ha dichiarato Patishtán, “uno deve passare da queste situazioni, affinché altra gente si accorga di quello che viviamo”, riferendosi al silenzio che circonda la lotta zapatista, le carcerazioni preventive e le ingiustizie che vive quotidianamente il movimento indigeno, ma al tempo stesso la campagna internazionale per la sua liberazione cresce al grido Somos todos Patishtán.
Ottima nota che stimola l’ attenzione su un caso emblematico e poco conosciuto, almeno in Italia.