Ci manca(va) un venerdì – 21
Almeno quattro modi per dire amore: dove l’Astrofilosofo Fabrizio Melodia serpeggia fra greci antichi, Dacia Maraini e Konrad Lorenz
«Un rapporto d’amicizia che sia fra uomini o fra donne, è sempre un rapporto d’amore. E in una carezza, in un abbraccio, in una stretta di mano a volte c’è più sensualità che nel vero e proprio atto d’amore»: scrive la brava Dacia Maraini. Assai acuto, devo ammetterlo.
In effetti l’amicizia è una sfumatura dell’amore, come hanno da sempre insegnato i greci.
I latini hanno il verbo “amo”, per definire questo sentimento, assolutamente privo di ogni sfumatura, un modo di pensare di una cultura essenzialmente poco evoluta dal punto di vista linguistico e sociale.
I greci avevano quattro modi di dirlo. “Agapao”, amore dell’aver caro qualcuno; “Stergo”, amore per un familiare; “Phileo”, l’amore dell’amicizia, concetto essenziale dell’amore di cui parla Socrate per mano di Platone; “Erao”, l’amore passionale e sessuale.
La “philia” – dunque l’ “amicizia” – è una delle più alte forme d’amore, di cui l’amore sessuale sarebbe un modo diverso, ma non meno completo e profondo degli altri.
Dunque l’affermazione della Maraini è corretta: l’amore dell’amicizia si esplica in gesti che l’amore sessuale invece travalica.
Al dire, preferisce l’indicare. Spesso una mano tenuta da un amico non ha la stessa forza della mano tenuta da una persona animata da passione o da un voler bene.
L’amicizia profonda è una danza d’amore in cui solo il muoversi insieme a ritmo porta a toccare vette inesplicabili di passione, forza e felicità, anche quando non sempre si genera consonanza.
Anzi, forse è proprio nelle sincere litigate che si esplica la vera amicizia, proprio in virtù di quella sincerità che è alla base della fiducia con la quale nasce l’amore dell’amicizia.
Solo un vero amico dice in faccia le cose come stanno e non se ne va dopo averlo fatto, soffrendo magari poiché non sopporta di veder buttare via la vita.
«Un vincolo personale, un’amicizia individuale si trovano soltanto negli animali con un’aggressione intra-specifica altamente sviluppata, anzi, questo vincolo è tanto più saldo quanto più aggressiva è la rispettiva specie animale» ebbe modo di affermare in modo dirompente il noto etologo Konrad Lorenz, suscitando non poco scalpore.
In sostanza, l’amicizia sarebbe possibile solo come interazione aggressiva di un animale con l’altro? Non è poi tanto sbagliato, e più lo scambio bellicoso è forte e sincero, tanto più salda diventa l’amicizia, suggellata dall’aver condiviso il sangue.
Nella quiete spesso l’amicizia non nutre se stessa in modo appropriato: è nello scambio, nell’interazione fra i due mondi, nella diversità dei punti di vista, nel confronto e non nella fuga che si è veri amici.
Quando un amico, ai nostri occhi, è in difficoltà e non facciamo nulla per aiutarlo, nemmeno parlargli (poiché tanto sono affari suoi, abbiamo già i nostri problemi, e altre cavolate varie…) ecco come in realtà l’amicizia non era sincera ma solo una convenzione sociale di quieta non belligeranza e non intromissione nello spazio vitale.
In sostanza, non vi è amicizia se non c’è dialettica o scontro, non vi è amicizia se non nei gesti accennati, negli atti silenziosi, nella presenza discosta, nelle liti notturne e nelle scazzottate che in realtà sono urla d’amore a un cuore sordo.
«Quante persone ci vengono a trovare senza annunciarsi? Questo è un buon criterio per giudicare l’amicizia. E quante ci direbbero quali sono i nostri difetti? A quante facciamo regali inaspettati? Con chi possiamo rimanere in silenzio?» scriveva con grande saggezza il letterato britannico Cyril Vernon Connolly.
La vera amicizia si nutre di irrazionalità come le visite inattese, i doni inaspettati, le litigate senza un perché, le riappacificazioni subitanee, vive d’ascolto e partecipazione, vive di silenzi profondi, vive di lontananza e di vicinanza.
L’amicizia vive nel nostro quotidiano e quando essa non trova soddisfazione, ecco che s’inventa la guerra: la guerra non è altro, a volte, che una disperata richiesta d’amore.
Purtroppo oggi ben commercializzata dall’industria della morte al pari di quella dei “Baci Perugina”, in cui l’amore viene banalizzato in una festa comandata in cui la spontaneità e la sincerità vengono usate dal Mercato secondo i propri fini.
Interessantissimo quel che l’astrofilosofo ci ricorda. Almeno per me è evidente la confusione che oggi regna quando si usa la parola amore per indicare in modo indifferenziato quello che i greci indicavano con quattro diversi nomi: appunto Stergo, Phileo, Erao e Agapao. Fra i 4 il più “perduto” è proprio quest’ultimo che a quanto capisco (correggetemi se sbaglio) è amore d’intelligenza, di ragione e della comprensione.
La faccenda si complica un bel po’ se dobbiamo dar retta a Fatema Mernissi che ha scritto «Le 51 parole dell’amore» (tradotto da Giunti) e a Tahar Lamri che ha pubblicato (da Mangrovie) «I sessanta nomi dell’amore», un geniale insieme di riflessioni e racconti che si chiude appunto con le 60 parole d’amore in arabo: in ordine alfabetico da «alaqa», che si potrebbe tradurre affetto, a «widd» che è «la purezza dell’amore» ma in mezzo naturalmente c’è «junun», ovvero la follia d’amore, o «ladhàà», cioè il morso del fuoco.
Dalle parti dell’amore a Roma c’è la definizione ironica «scorticatoio» che sono le «coccole» nella fase più esplorativa (forse gli anglofoni tradurrebbero «petting»). Da lì si fa presto a scivolare nel Kamasutra che peraltro è un testo ben più interessante di quanto pensino tante persone ossessionate dal sesso o da quella ginnastica a-ritmica che loro prendono per sessualità.
Certo che se ci avventurassimo nella fantascienza almeno un racconto di Robert Sheckley (Melodia lo sa bene) bisognerebbe tenerlo presente, ovvero «Il linguaggio dell’amore»; altro che i 60 (o i 51) modi per definire l’amore: sul lontanissimo – dalla Terra ovviamente – pianeta Tyana II l’imperativo era «studiare scientificamente l’amore». Il protagonista Jefferson Toms decide di raggiungerlo per poter dire a Doris «esattamente» ciò che prova. Magari una volta lo riassumeremo qui in blottega ma… senz’altro è meglio se lo leggete in una delle antologie di Robert Sheckley, a partire dalla più famosa intitolata «La decima vittima».