Co-esistenza o co-Resistenza?
“There are already Palestinian Gandhis – they’re women” di Yasmina Mrabet
Yasmina Mrabet ha intervistato (il 10 gennaio) per Peace X Peace http://www.peacexpeace.org/ il fotogiornalista israeliano Mati Milstein sul suo attuale progetto, la mostra fotografica “Palestine: Women First” http://vimeo.com/33312186. Traduzione e adattamento di Maria G. Di Rienzo.
Yasmina Mrabet: Cosa ti ha spinto a cominciare a riprendere le giovani attiviste palestinesi?
Mati Milstein: Ho cominciato a fotografarle durante la Marcia palestinese unitaria del 15 marzo 2011 che chiedeva la riconciliazione fra Fatah e Hamas. All’epoca, la sola cosa che saltava all’occhio, a parer mio, era il fatto che “i dimostranti” erano in realtà “le dimostranti”. Non capivo allora chi erano queste donne o perché erano particolari. In genere, gli uomini palestinesi sono da lungo tempo lo standard visivo dell’attività politica, sia essa diretta contro l’occupazione israeliana o a questioni interne. Perciò, vedere donne dare inizio agli slogan, reggere megafoni e dirigere le attività di protesta era per me, come giornalista, inusuale.
Lavoro nella regione da quasi 15 anni e con poche eccezioni il conflitto israeliano-palestinese si iscrive in un paradigma noto ed uno svolgimento di routine: forza contro forza, uomini che reagiscono con violenza alle azioni di altri uomini. Ma a cominciare dalla Marcia del 15 marzo, un gruppo di giovani donne indipendenti ha cominciato ad alterare la dinamica e la natura stessa della lotta palestinese contro l’occupazione. Durante le manifestazioni di Ramallah, in un incidente che illustra il tentativo di marginalizzarle, queste donne sono state aggredite fisicamente dalle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese e dai lealisti di Fatah.
Le attiviste hanno preso la decisione consapevole di stare in prima linea contro la diseguaglianza di genere, l’establishment palestinese e l’occupazione israeliana. Il tipo di attività che svolgono ha cominciato a sfidare – e in un certo modo ad alterare – sia la lotta contro l’occupazione sia la natura spesso sciovinista della loro stessa società. Sebbene alcuni villaggi palestinesi proibiscano alle donne di partecipare alle proteste contro le forze di sicurezza israeliane, le donne della “Coalizione del 15 marzo” (come alcuni le hanno chiamate) hanno portato avanti le loro azioni nel piccolo villaggio di Nabi Saleh, nella West Bank, settimana dopo settimana, fronteggiando l’esercito israeliano che impiegava armi mortali. Non sono indietreggiate ne’ davanti alle molestie sessuali verbali ne’ davanti alla violenza fisica di parte dei soldati; si sono guadagnate il rispetto degli uomini del villaggio ed hanno assunto ruoli centrali nelle attività di protesta.
Dopo aver letto delle analisi critiche sulla copertura fotogiornalistica della Primavera Araba e sul ruolo delle donne nelle dimostrazioni in Medio Oriente, contrarie a quello che io testimoniavo quotidianamente, ho preso la decisione deliberata di descrivere le attiviste fotograficamente per quello che esse sono, non per quello che noi ci aspettiamo, vogliamo o crediamo che siano.
Yasmina Mrabet: Data la preminenza dei valori patriarcali nella società israeliana e in quella palestinese, che tecniche stanno usando le donne per far udire le loro voci? E queste tecniche funzionano?
Mati Milstein: Lo stesso fatto che il ruolo delle donne nell’attività politica palestinese continua a crescere indica che è stato raggiunto un certo livello di accettazione. Questo gruppo di attiviste in particolare (assieme agli attivisti di sesso maschile che le seguono) si distingue per l’approccio nonviolento delle azioni. I soldati sono addestrati a contrastare la violenza ed a rispondervi con facilità: e quando il confronto è violento sono generalmente gli uomini che vi danno inizio.
Perciò, quando devono misurarsi con donne che impiegano tecniche strettamente nonviolente, spesso faccia a faccia e a distanza zero, i soldati si trovano in svantaggio dal punto di vista tattico e da quello psicologico. Le donne a volte tentano di trascinarli in conversazioni o dibattiti, li sfidano verbalmente, a volte in modo molto duro. I soldati appaiono emotivamente a disagio e raramente guardano negli occhi le donne: sembrano incapaci di rispondere a nient’altro che alla violenza. Nelle ultime settimane, hanno deciso di cercare di prevenire il contatto fra le donne e i soldati, di modo che non si trovino faccia a faccia.
La nonviolenza è un principio fondamentale per queste donne ed io le ho viste spendere molte energie durante le manifestazioni per distogliere uomini e ragazzi palestinesi dall’idea di lanciare sassi alle truppe israeliane. A mio parere, sentono che il farlo minerebbe la loro strategia nonviolenta e potrebbe creare una sorta di “legittimazione” facilitando la risposta violenta da parte dell’esercito. L’esercito israeliano ha da tempo formulato un responso standard agli uomini che lanciano pietre, ma in questo momento non sa cosa fare quando si trova davanti donne nonviolente, forti, che parlano.
YM: Le donne israeliane partecipano al fianco delle palestinesi in alcune di queste manifestazioni?
MM: Nelle proteste della West Bank contro l’occupazione le donne israeliane sono assieme a quelle palestinesi. I sostenitori israeliani – siano donne o uomini – ricevono un caldo benvenuto dai palestinesi in questo tipo di azioni, perché esse sono viste non come “co-esistenza” ma piuttosto come “co-resistenza”. La differenza principale è che la coesistenza viene percepita come una normalizzazione del conflitto la quale, nel mentre dimostra che alcuni israeliani ed alcuni palestinesi possono essere buoni e giocare insieme, mantiene semplicemente lo status quo dell’occupazione e le attuali dinamiche di potere. In sintesi, i programmi di coesistenza sono percepiti da chi vi si oppone come strutture che mantengono e sostengono l’occupazione. La co-resistenza, d’altro canto, per come io la comprendo, è un approccio che non mira solo al termine dell’occupazione israeliana ed all’assicurare giustizia al popolo palestinese, ma cerca anche nel frattempo di alterare l’intera dinamica e la narrativa comunemente accettate del conflitto, e cioè la prevalente dicotomia “noi contro di loro”.
YM: Se c’è una cosa che vorresti mostrare al mondo del movimento delle donne palestinesi, qual è?
MM: Ci sono due fotografie in particolare, del progetto, che vorrei menzionare perché credo illustrino precisamente la realtà delle attiviste palestinesi. Una ritrae un’attivista durante la Marcia del 15 marzo. Sta su un balcone di un edificio nel centro di Ramallah e guarda la folla in basso. Tiene in mano la sua bandiera nazionale arrotolata e ha come cornice un poster gigante: è circondata da figure politiche maschili gigantesche, che la fanno sembrare più piccola. L’apertura nel poster ha contorni irregolari, perché la donna ha dovuto usare attrezzi di fortuna per improvvisare un varco e aprirsi una via attraverso la barriera: semplicemente per vedere e per essere vista.
La seconda ritrae la testa di una donna che partecipa ad una dimostrazione contro i soldati israeliani a Nabi Saleh. Il capo ed il volto sono coperti da un brillante tessuto giallo, ma lo smalto sulle unghie, l’anello ed i lunghi capelli indicano che è una donna. E’ una persona che non si sta coprendo la testa e il viso per principi religiosi o pressioni sociali: invece, ha deliberatamente scelto di mettersi in questa situazione con la faccia coperta non per nascondere il suo profilo pubblico, ma per proteggersi dal gas lacrimogeno e partecipare direttamente ad un’azione politica in una maniera che sfida contemporaneamente gli uomini israeliani e quelli palestinesi coinvolti nella sua oppressione.
Molti, in Israele e altrove, lamentano quella che credono essere un’assenza, l’assenza del “Gandhi palestinese” che altruista e nobile, senza usare violenza, liberi il popolo palestinese dai guai in cui si trova, guai per cui viene anche ritenuto responsabile. Tuttavia, io vorrei contestare questa visione. C’è già un Gandhi palestinese, anzi, ce ne sono molti (o meglio, molte). Queste attiviste palestinesi rischiano vita e libertà per assicurare giustizia alla loro gente. Condannano l’uso della violenza e cercano soluzioni creative. Invece di impegnarsi in azioni che rinforzano la violenza ed un ingiusto status quo, con il loro esempio personale dimostrano che c’è una via verso la giustizia e l’eguaglianza non solo per il popolo palestinese nel suo insieme, ma anche per le donne palestinesi.
YM: Qual è il tuo approccio al progetto della mostra, come uomo israeliano?
MM: E’ importante per me sottolineare che non intendo certamente parlare a nome di chi organizza queste azioni. In effetti, andrebbe contro le mie intenzioni e non è compito mio comunque il farlo. Tutto quel che ho detto si basa su ciò che ho visto e sulle mie riflessioni al proposito durante il tempo che ho passato con queste donne.
Sono un osservatore esterno e di fatto impersono – come uomo israeliano – ciò che molti e molte percepiscono come nemico archetipale. Sono ben conscio del fardello che comporta l’essere un occupante che documenta l’occupazione. Non c’è nulla che io possa fare per eliminare tale fardello, ne’ posso far finta che non esista: ma posso agire con sensibilità e accortezza al fine di tenere nel conto questa dinamica di potere nel corso del mio lavoro.
Sono arrivato a concepire questo progetto durante un periodo di estrema frustrazione verso la società in cui vivo e la stagnazione in cui una nazione controlla e detta i termini dell’esistenza di un’altra. Sempre durante questo periodo sono arrivato a conoscere personalmente gli individui che dovevano essere miei “nemici”. Mi sento rinato grazie a ciò che ho testimoniato mentre lavoravo al progetto della mostra. Mi sento molto fortunato, perché le donne mi hanno permesso gentilmente di documentare le loro azioni e mi hanno aiutato a capire il loro approccio alla nostra realtà congiunta. Sono stato costretto a rivalutare – in buona parte grazie a ciò – la mia percezione al proposito. Il mio mondo è irrevocabilmente cambiato.