Cocoliche e lunfardo: l’italiano degli argentini
di David Lifodi
Cocoliche e lunfardo: l’italiano degli argentini (Sabatino Annecchiarico , Mimesis Edizioni 2012, pagine 160) non si limita solo a raccontare la storia e il lessico di una migrazione linguistica, ma descrive bene e con dovizia di particolari il multilinguismo dei porteños, gli abitanti di Buenos Aires, che hanno assorbito quella babele di dialetti portata dagli emigranti di tutta Italia che sbarcavano in Argentina.
Sabatino Annecchiarico, migrante, figlio di immigrati italiani in Argentina, indaga sul meticciato linguistico che ha ben presto conquistato le strade e le piazze di Buenos Aires, ma svolge anche un interessante lavoro di ricerca sul vocabolario lessicale argentino di origine italiana, a cui dedica un piccolo e gustoso vocabolarietto nella parte finale del suo volume. La ricerca di Sabatino, però, non si ferma qui: attraversa la storia italiana pre e post unitaria, racconta le vicende argentine tra ‘800 e ‘900, analizza le mutazioni linguistiche a livello storiografico, soprattutto attraverso una comparazione minuziosa, e al tempo stesso stimolante, della stampa italiana nel suo paese. Si scoprirà, allora, che tutti i dialetti italiani hanno influito sul modo di parlare degli argentini: “In questo rimescolamento linguistico, tutto era permesso pur di capirsi, anche a discapito dei dialetti e delle lingue materne. In questa babele linguistica furono gli italiani, senza dubbio, i veri maestri della comunicazione, soprattutto orale”. È in questo contesto che nasce il cocoliche, un insieme di parole non esistenti prima eppure comprensibili a tutti, la cui paternità è propria degli emigranti italiani che, soprattutto a livello orale, crearono una sorta di lingua tutta nuova infarcita di espressioni gergali miste tra le inflessioni dialettali della penisola ed uno spagnolo stentato e, in certi casi, maccheronico. Del resto, gli italiani che arrivavano a Buenos Aires dopo viaggi estenuanti, mischiavano il loro modo di parlare con quello castigliano ed altre innumerevoli varietà linguistiche in un “crescente crogiolo linguistico del tutto singolare”. Il termine cocoliche è stato mutuato dal nome di Antonio Cuccoliccio, un manovale emigrato dalla Calabria alla fine dell’’800 riciclatosi come lavoratore in una compagnia teatrale di Buenos Aires, ma che, soprattutto, parlava un pessimo castigliano. Lo scrittore e romanziere argentino Eduardo Gutiérrez, nell’opera teatrale Juan Moreira, introdusse un personaggio di nome Cocoliche, che, pur rivendicando la sua argentinità, si esprimeva in un gergo fatto di espressioni dialettali italiane miste a qualche parola di castigliano. Juan Moreira, caposaldo della letteratura argentina, fu portato sulla scena proprio dalla compagnia teatrale in cui era impiegato Cuccoliccio, la cui gestualità colpì così tanto l’attore Celestino Petray, che riuscì a creare un personaggio del tutto nuovo in grado di cimentarsi con il cocoliche. Petray era facilitato dalla capacità di imitare le fonetiche linguistiche degli immigrati, ma il successo dello spettacolo teatrale derivò dal gradimento espresso dagli spettatori per un lessico in cui ben poche erano le espressioni di italiano e castigliano puro a fronte della maggior parte delle voci estranee ad entrambe le lingue d’incontro eppure comprensibili per il pubblico, compresi i frequenti casi di misunderstanding all’interno dei dialoghi. Il cocoliche finì per rappresentare una sorta di unità linguistica in Italia alla fine del XIX secolo in luogo di quella politica, già avvenuta, ma ancora bel lontana dal radicarsi tra persone dello stesso paese e parlanti idiomi assai diversi tra loro. Inoltre, il cocoliche non servì solo ad accomunare gli italiani d’Argentina, ma finì per porsi “come un’interlingua tra il castigliano degli argentini e l’oralità dialettale degli italiani”. La penetrazione lessicale dialettale più incisiva fu quella ligure: del resto negli ultimi vent’anni dell’800 la metà degli abitanti de La Boca, uno dei quartieri storici di Buenos Aires, era di origine genovese: “una sonante oralità ligure, estesa a macchia d’olio su tutta la metropoli porteña, si confondeva con i suoni degli altri numerosi dialetti italiani”. Se il cocoliche rappresenta un linguaggio ibrido (paragonabile, per certi aspetti, al cosiddetto attuale portuñol), al contrario, il lunfardo è un modo di parlare intenzionale voluto dagli stessi argentini di Buenos Aires, non a caso famosi in tutta l’area ispanoamericana per parlar male il castigliano o “storpiare la lingua di Cervantes”. Nel suo Lunfardo, curso básico y diccionario, Josè Gobello definisce il lunfardo “un vocabolario composto da voci di origini diverse che l’abitante di Buenos Aires utilizza in opposizione alla lingua ufficiale”. La definizione è particolarmente appropriata perché i porteños erano figli in maggioranza di stranieri e appartenevano alle nuove generazioni di argentini. Nel 1870 la popolazione di Buenos Aires era composta da 95mila nativi e 93mila stranieri, mentre nel 1895 i nativi furono addirittura superati dagli stessi stranieri. I porteños vivevano in una tale babele lessicale che finirono per copiare il modo di parlare non solo degli italiani, ma di tutti i popoli che sbarcavano nella loro città. Sabatino Annecchiarico coglie bene i tratti di questa fratellanza linguistica italo-argentina, racconta l’influenza delle culture regionali italiane sugli abitanti di Buenos Aires, ma soprattutto individua nel cocoliche e nel lunfardo due forme lessicali che hanno contribuito a creare un’unità d’Italia in terra straniera e, al tempo stesso, a porre le basi dell’argentinità. Infine, il libro è corredato da bellissime foto d’epoca che raccontano la storia dell’emigrazione italiana in Argentina, da quelle dell’Hotel del Inmigrante a quella di copertina, tratta dall’archivio del Museo Nacional de la Inmigración di Buenos Aires.
Nella seconda metà del ‘900, nota Sabatino Annecchiarico, i cittadini di origine italiana residenti in Argentina erano circa 15 milioni, quasi la metà dell’intera popolazione di allora: l’Italia era una nazione di emigranti che, sulle stesse navi che li conducevano in America Latina, si contaminavano linguisticamente tra loro incrociando lingue e dialetti diversi. Un crogiolo linguistico che molti hanno dimenticato a favore di parole d’ordine escludenti e razziste esemplificate dall’inqualificabile “padroni a casa nostra”. Il libro di Sabatino Annecchiarico è leggibile e godibile perché evidenzia l’intreccio plurilessicale tra Italia e Argentina e ne racconta la storia: da non perdere.
Bella la sintesi della lettura fatta da David Lifodi, vorrei anche aggiungere che il libro analizza quasi 1000 voci dialettali italiane che si sono trasformate, rimescolate e riorganizzate dando origine a tante altre voci lunfarde