Colombia uccide, Italia archivia
Il 15 luglio 2020 Mario Paciolla veniva trovato senza vita a San Vicente del Caguán. Lavorava per l’Onu, aveva paura. Ora la procura di Roma riprova a chiudere l’inchiesta. Parlano i genitori.
di Simone Ferrari, Gianpaolo Contestabile (*)
A quattro anni di distanza dalla morte violenta di Mario Paciolla in Colombia, una nuova richiesta di archiviazione del caso da parte della procura di Roma si abbatte sugli sforzi di familiari, amici e attivisti per ricostruire la verità e ottenere giustizia sulla vicenda.
Il 15 luglio 2020 il corpo di Mario Paciolla veniva ritrovato senza vita nella sua abitazione a San Vicente del Caguán, dove lavorava come funzionario della missione dell’Onu per la verifica degli accordi di pace. Sebbene l’autopsia svolta in Colombia abbia indicato il suicidio per asfissia come causa del decesso, fin da subito la famiglia ha rifiutato questa ricostruzione parlando di omicidio. I dubbi sono stati alimentati, in primo luogo, da una serie di depistaggi da parte degli stessi funzionari della missione Onu e dagli agenti di polizia accorsi sul luogo. Da alcuni anni i genitori di Mario, Anna Motta e Pino Paciolla, conducono una battaglia per la verità e la giustizia per il loro figlio, visitando scuole, università e luoghi di attivismo.
A quasi quattro anni dalla morte di Mario è arrivata, per la seconda volta, la richiesta di archiviazione da parte della procura. Quali sono, secondo voi, le motivazioni che stanno portando i pm a chiedere la chiusura delle indagini?
Quando quattro anni fa la morte di Mario ha sconvolto la nostra vita e abbiamo iniziato il percorso di verità per nostro figlio, sapevamo che la strada sarebbe stata tutta in salita, e che ci saremmo scontrati contro un muro di gomma di poteri forti. L’indagine è complessa, pertanto rassegnarsi all’archiviazione potrebbe essere considerata la soluzione più comoda. Immaginiamo possano esserci delle pressioni internazionali, dei rapporti commerciali e diplomatici che vanno salvaguardati. Ma noi non possiamo accettare che la salvaguardia di tali relazioni possa pregiudicare la nostra richiesta di giustizia. Chiederemo che si continui ad indagare anche su elementi di cui nessuno ci ha mai dato spiegazioni. Le nostre avvocate, che saranno coadiuvate da periti di nostra fiducia, si opporranno all’archiviazione. È vero che ad oggi non sembra esserci un movente certo, ma esistono prove scientifiche e indiziarie che ci dicono che Mario è stato ucciso. È questa, prima di tutto, la verità che noi sappiamo e che auspichiamo emerga in sede processuale.
Quali sono gli elementi che, secondo voi, dovrebbero essere presi in considerazione per riaprire l’inchiesta?
Il medico legale Fineschi ha realizzato un’autopsia lunga e impegnativa, perché le condizioni del corpo non erano ottimali. Le sue conclusioni sono queste: “Vale il conto, tuttavia, di precisare che talune evidenze – non trovando spiegazione alternativa nell’ambito dell’ipotesi suicidaria – sostengono in maniera prevalente l’ipotesi dello strangolamento con successiva sospensione del corpo”. Ed è ancora più esplicito a riguardo dei tagli sui polsi: “Le evidenze riscontrate nell’ambito della vitalità non consentono di escludere in termini di ragionevole certezza la possibilità che le lesioni siano venute a prodursi in limite vitae o addirittura post-mortem”. Basta tutto ciò o bisogna sapere altro?
La versione delle autorità colombiane, ovvero che Mario si sia suicidato, chiama in causa osservazioni di carattere psicologico. Quali sono per voi gli elementi che smonterebbero questa ricostruzione?
Mario era un amante della vita. Era gioioso di stare al mondo e aveva forti legami con la sua famiglia, i suoi amici, la sua città. Mai ci avrebbe dato volontariamente un dolore così grande. Mario ha cercato con ogni possibilità a sua disposizione di tornare in Italia. Il 14 luglio alle ore 00.30 acquista un biglietto con un volo umanitario per tornare il 20 luglio in Europa, un volo da Bogotà a Parigi. In quel momento avverte l’ambasciata che sta lasciando la Colombia. Il tempo intercorso tra l’acquisto del biglietto e l’ora presunta della morte è di circa due ore: in queste due ore avrebbe meditato, preparato ed eseguito il suo suicidio. Come dice il giudice nel suo provvedimento di rigetto della richiesta di archiviazione, in cui dispone ulteriori indagini, ciò non è logico. Abbiamo sempre sostenuto che la preoccupazione di Mario è stata scambiata per ‘disagio psicologico’. Ma di fatto la sua era una paura legittima, e realistica, per la sua incolumità. Noi siamo certi che lui da subito abbia compreso di poter essere ucciso. Nella telefonata dell’11 luglio ci dice: “Me la faranno pagare”. In un’altra telefonata, a un’amica, dice chiaramente per due volte: “Faranno una messinscena”, come in effetti avviene.
Qual è stata la comunicazione con l’Onu durante questi quattro anni?
È chiaro che ci sono state delle negligenze clamorose da parte dell’Onu. Nelle ore successive alla morte di Mario, l’organizzazione non aveva nemmeno avvertito l’ambasciata italiana della morte violenta di un italiano che lavorava per loro. Quando alle 18.30 di quel 15 luglio 2020 ci arriva la dolorosa notizia, contattiamo noi l’ambasciata per avere la certezza della morte di Mario. Loro sapranno confermarla solo alle ore 22.30. Anche su questo nessuno ha mai fatto chiarezza. In questi anni l’Onu non ha mai chiarito i suoi comportamenti, né con noi né con le nostre legali. La Missione ha sempre sostenuto di avere avviato un’inchiesta interna, di cui non abbiamo mai avuto notizie. Per noi è fondamentale sapere perché per la morte di Mario sono stati disattesi tutti i protocolli internazionali, inclusi quelli della stessa organizzazione. Inoltre, vorremmo sapere perché non ci sono stati restituiti gli scritti di nostro figlio, ciò che lui annotava: osservazioni personali, articoli giornalistici, poesie e racconti che certamente esistevano, poiché lui ce ne parlava sempre. Sicuramente erano pronti a partire per l’Italia insieme a lui. La sua perdita è un dolore lacerante che mai sarà sanato in tutta la nostra vita, ma la mancanza di questi suoi ricordi, del capitale umano di ciò che scriveva, è un bene perduto che avrebbe potuto alleviare in parte il nostro dolore.
Fin dall’inizio avete iniziato a chiedere giustizia e verità per vostro figlio, pur sapendo che sarebbe stata una battaglia legale lunga e dispendiosa. Oltre alle aule di tribunale, quali sono gli altri ambiti in cui bisogna lottare per ottenere verità e giustizia per Mario?
La triste vicenda di Mario non può e non deve essere solo un affare di famiglia. Dovrebbe chiamare in causa prima di tutto lo Stato, che non si è mai interessato a darci delle risposte. Solo alcuni politici, a livello individuale, hanno prodotto interrogazioni parlamentari e ci sostengono ancora. Siamo stati ascoltati anche dalla Commissione diritti umani del Senato, ma ovviamente l’audizione non poteva essere risolutiva. Per questo siamo grati quando ci invitano a testimoniare la vita di nostro figlio, soprattutto ai giovani, per raccontare chi era Mario e quante cose buone ha fatto e avrebbe potuto fare. Crediamo che sia necessario creare una verità sociale: raccontare di Mario affinché non accada mai più a nessuna persona che parte, per qualsiasi ragione, di ritornare tra i propri cari in una cassa di legno.
(*) Link all’articolo originale: https://ilmanifesto.it/colombia-uccide-italia-archivia