Colpisce più la lingua (araba) che la spada
Prendiamo una frase italiana piuttosto banale con molte parole che iniziano con la lettera A: «La nave era in avaria. L’ammiraglio uscendo dall’arsenale si lamentò degli acciacchi. Giunto a casa si buttò sull’alcova azzurra mangiando arance e albicocche con un po’ di alcool». Tutte le 9 parole con la A vengono dall’arabo.
Tentiamo con la C? «Ho messo il caffè nella caraffa. Nella dispensa c’è una cassata con i canditi, nella casseruola un po’ di carciofi». Le 6 parole con la C derivano dall’arabo.
Lo stesso vale – è abbastanza noto – per alchimia, algebra, azimut, cammello, chimica, elisir, Gibilterra, harem, intarsio, monsone, nababbo e via così fino a zenit e zero. Ma l’origine araba è certa anche per aguzzino, alfiere, almanacco, assassino, bagarino, barattolo, bizzeffe, il toscanissimo buttero, canone, catrame, cerbottana, chitarra, cotone, crumiro, denaro, divano, dogana, facchino, garza, gatto, giacca, giubba-giubbotto, limone, liuto, macabro, magazzino, materasso, melanzane, nafta, nuca, ovatta, pappagallo, ragazzo, ricamo, safari, saracinesca, sciroppo, spinaci, taccuino, talco, tamburo, tariffa, traffico, valigia, zafferano, zecca e zucchero.
Gli scacchi vengono dall’India, sì, ma arrivano a noi attraverso gli arabi, come del resto tanti nomi di stelle e molta della cultura greca che essi salvarono mentre l’Europa era imbarbarita.
Gentilini, l’ex sindaco leghista di Treviso, ama il soprannome appioppatogli di sceriffo; certo ignora che deriva dall’arabo (in origine era «sharif» cioè nobile).
Araba è l’origine del «padano» risotto. E l’italianissima pasta ci arriva dalla Sicilia saracena: i documenti più antichi – come ricorda Massimo Consoli che si è dilettato in queste ricerche – spiegano che a Trabia c’erano una serie di mulini per la lavorazione e la testimonianza più autorevole (Libro di Ruggero, del 1154) è infatti del geografo arabo Al Idrisi.
Se si va sul linguaggio meno colto, anche bagascia e forse cazzo hanno origini nella lingue araba. Ma anche l’articolo italiano «il», quello spagnolo «el» e il francese «le» giungono da lì.
Nel libro «Le parole di origine araba nella lingua italiana» (edito a Padova nel 1991 dall’esotico editore Zanatel Katrib) Lorenzo Lanteri ne indica 600. E a cosa pensate si riferissero, all’origine, cognomi come Mori, Moro, Morini, Moretti, Morucci?
Se ne facciano una ragione anche i fascisti: il cognome Mussolini ha la sua origine nel tessuto detto mussola o mussolina che, passando dalla Francia, ci arrivò dalla città irachena di Mossul. O forse… esiste una spiegazione ancor più inquietante (per i fascisti s’intende): chiunque frequenti i romagnoli nota subito la straordinaria somiglianza fra il modo in cui pronunciano «musulmani» e il cognome dell’uomo che si fece Duce; del resto, Predappio non è molto lontana da un luogo che tuttora si chiama Mercato Saraceno. Si sentiva un erede degli antichi romani, mentre era di ceppo arabo?
Ovviamente, un discorso linguistico analogo vale per Spagna, Portogallo, Francia, Creta, Cipro… E per Malta, conquistata dai nordafricani di Kairuan (oggi Tunisia) sin dall’869: qui, grammatica e vocabolario tuttora sono simili all’arabo, talvolta con divertenti piccoli cambiamenti come nel caso del vocabolo scritto «haxix» che indica le verdure ma si pronuncia proprio come la sua lontana nonna, cioè haschisch.
Se i più ignorano queste radici arabe dell’Europa, la colpa non è unicamente del tempo. Ben sappiamo che il controllo della memoria è questione politica.
Nel secolo XIX, gli storici europei, in conformità con il sorgente razzismo, occuparono gran parte del loro tempo a cancellare il ricordo delle influenze di Egizi e Fenici, inventandosi un modello «ariano». Il poderoso saggio di Martin Bernal «Atena nera: le radici afroasiatiche della civiltà classica» (ora nelle edizioni Pratiche-Est) lo mostra al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma gioverebbe dare uno sguardo anche agli studi, purtroppo quasi ignorati in Italia, del senegalese Cheick Anita Diop. Sulle «censurate matrici afro-mediorientali della nostra civiltà» ha di recente riflettuto anche Silvio Marconi in «Reti mediterranee» (Gamberetti, 2003), divertendosi a smontare, con una leggerezza narrativa giocata sull’attualità ma con spessore storico, le tante balle prima e dopo quel «Delenda Carthago» che tuttora ci vengono sorbiti dai manuali scolastici anche pre-Moratti.
Tornando alla Sicilia (al Siqilya), vale ricordare che fu sotto gli arabi dall’823 al 1090. Ma anche quando fu conquistata da Ruggero d’Altavilla e almeno fino al 1250, l’arabo restò la lingua riconosciuta della cultura insieme al greco. Proprio quando i normanni – cristiani di religione ma parzialmente arabi per cultura – sottomisero l’isola, il grande poeta arabo-siciliano Ibn Hamdìs, costretto all’esilio, scrisse bellissimi versi sul rimpianto («oh nobile patria. Se vi vien meno l’aria di lei, i vostri affetti andranno dispersi per la terra») e ricordando il palazzo dei principi normanni li descrisse come «una collana di perle al collo di una giovinetta».
Non solo della memoria di come molte parole (ma anche cibi e conoscenze) sono entrate nella nostra cultura siamo mutilati, ma anche di arte e pensiero poetico dell’al Siqilya. In questi mesi, l’attrice Sarina Aletta (accompagnata dalla chitarra di Sandro Peres) porta in giro per l’Italia il recital «Poeti arabi di Sicilia» che restituisce parte di quelle sapienze perdute. «Nell’isola, attorno all’anno mille, con la zagara e il gelsomino d’Arabia fiorivano magnifici versi, soprattutto d’amore», spiega Aletta durante lo spettacolo. «Quella che è chiamata dominazione araba raggiunge vertici di massimo splendore con la dinastia degli emiri kalbiti (o kalbidi), eruditi che governano sapientemente tra il 948 e il 1053. Nella cultura araba, la poesia ha sempre occupato un ruolo di primissimo piano. Si tramandavano miti e valori dei beduini. E’ da questi cantori erranti nel deserto che, attraverso felici contaminazioni, si arriva a una èlite di eclettici poeti-scienziati che si esibisce in splendidi giardini lussureggianti, con musica e danzatrici. In questo clima di raffinati salotti letterari trionfa la poesia descrittiva, erotica e bacchica. Convivono poeticamente le differenze, persino quelle religiose. A Palermo (Balaram), scrive Ibn Hawqal, viaggiatore e arguto cronista iracheno, tanta dovizia di fede era stimolata anche dal fatto che questi saggi maestri erano esonerati dalle guerre; e aggiungeva che la coesistenza fra immigrati, neo convertiti, ebrei e cristiani era pacifica e costruttiva in un clima d’alto livello culturale e di benessere economico. Insomma, pur non mancando qualche battaglia e scorrerie di briganti, l’idillio arabo-siculo fu esaltante, non solo per lo scambio poetico (seme che germoglierà nella nuova poesia volgare italiana) ma per l’impulso che ne deriva, in ogni campo: urbanistico, agricolo, commerciale, amministrativo, sociale. Collaborazione e arricchimento reciproci fra genti armoniosamente diverse. E’ interessante notare che la Sicilia saracena, sin dall’inizio, non fu retta da generali, ma da uomini di cultura e di scienza. Avevano capito – al contrario di noi – come nello scambio poetico, attraverso la cultura e la conoscenza, si conquista l’essere umano, assai più che con la spada».
UNA BREVE NOTA
Ho ritrovato nel mio archivio “babelico” questo articolo che scrissi – una decina d’anni fa mi pare – per il quotidiano «il manifesto». Mi è sembrato utile riproporlo qui. Aggiungo solo un’informazione per chi si sottopone alle leggi del sapere, del buon leggere e del ventre (gastronomia significa questo: dal greco gastèr cioè ventre e nomìa che è legge): esiste un piacevolissimo libro di Maruzza Loria e Serge Quadruppani intitolato «Alla tavola di Yasmina» ovvero «Sette storie e cinquanta ricette di Sicilia al profumo d’Arabia»; fu pubblicato, con l’introduzione del “prezzemolo” Andrea Camilleri, prima in francese e poi, nel 2004, dagli Oscar Mondadori.
Vi ricordo che – nonostante qualche interruzione (come oggi) – il blog ha digiunato per tutto agosto. Si torna “a pieno regime” da sabato 1 settembre, con i consueti tre post al dì. Se volete, potete giocare (alla Petrolini) con me: io dico “risorgerà, più bello e più leggiadro che pria” e voi subito, senza respirare “Bene, bravo”. (db)
Bel ripescaggio, complimenti dall’Osservatorio Astronomico dove numeri, teoremi e vocaboli di origine araba li usiamo tutti i giorni — e tutte le notti. Saluti da Vega, Deneb e Altair, le tre stelle del cosiddetto triangolo estivo, ovviamente nomi derivanti da termini arabi.
Il linguista dilettante (pur di pelle chiara) in me ringrazia l’ottimo DB per questo gran bell’articolo