Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne

Recensione al libro di Vincenzo Comito (Futura Editrice, pagg. 181, euro 15, 2023)

di Gian Marco Martignoni

E’ stato lo storico francese Fernand Braudel, direttore delle “Annales“, a segnalare che nella storia del capitalismo “ciò che è in gioco ogni volta è lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale“.

L’ennesima conferma di questa perspicace constatazione si evince dalla lettura del libro di Vincenzo Comito “Come cambia l’industria. I chip, l’auto, la carne“ (Futura Editrice, pagg. 181, euro 15, 2023), che con una mole impressionante di dati e notizie documenta lo spostamento in Asia e in particolare in Cina dei settori principali della produzione industriale.

I dati riferiti all’anno 2021 sono eloquenti: il 30,5% della produzione industriale è attribuibile alla Cina, quella in discesa degli Stati Uniti è pari al 16,8%, mentre il Giappone vanta un 7%. Se poi entriamo nel dettaglio, la Cina produce il 70% dei pannelli solari su scala mondiale, il 60% delle batterie e delle auto elettriche, oltre a possedere il vantaggio incomparabile del controllo della produzione del 70 % delle terre rare. Al contempo, la produzione di fonderia dei chip più avanzati è oggi in capo alla Tsmc a Taiwan, con una quota del mercato superiore al 50%, e alla Samsung nella Corea del Sud con il 17%.

Sempre la Samsung, con la SK Hynix, sono il primo e il secondo produttore di chip di memorie al mondo, mentre l’olandese Asml produce sistemi fotolitografici per la produzione dei chip avanzati, con una quota pari al 67% del settore. Tutto ciò spiega per quali ragioni gli USA abbiano scatenato una guerra tecnologica e commerciale contro la Cina, chiedendo da un lato alla Tsmc di costruire stabilimenti nella loro nazione, nella Ue e in India, e dall’altro lato all’Asml di bloccare tutte le sue esportazioni, innovative o meno che siano, nella direzione di Pechino, con l’evidente obiettivo di riprendere un ruolo di primo piano in questo settore strategico, contando sul peso specifico di alcune aziende, a partire da Intel, da sempre all’avanguardia nella competizione mondiale.

A fronte di questo contesto è perciò inevitabile che attorno all’European Chips Act si registri un diffuso scetticismo sulla sua effettiva praticabilità, dato che la Ue è dipendente per il 98% dalla Cina nel campo delle batterie per il settore dell’auto rispetto al reperimento dei metalli necessari anche per la tanto auspicata transizione energetica.

Proprio il settore dell’auto, che fattura annualmente più di 2000 milioni di dollari, è caratterizzato sia da un sensibile calo delle vendite, attestatesi a 78 milioni di veicoli nel 2022 (3 milioni in più del dato riferito al 2010) sia dal passaggio a quella tecnologia elettrica o ibrida dominata dalle aziende cinesi (Geeely, Baidu, ecc…).

Nella competizione globale le grandi multinazionali tedesche e giapponesi si stanno predisponendo per accelerare la riconversione delle loro produzioni, anche se dopo il caso Wolkswagen del 2016 emergono comportamenti da parte di alcuni produttori che contrastano con le normative anti-inquinamento. Di fatto solo l’azienda Tesla, a fronte di nove aziende cinesi nei primi dieci posti al mondo, si è dimostrata in grado di competere nel settore dell’elettrico, grazie alla presenza di un suo stabilimento in Cina.

Nonostante ciò, le previsioni di Morgan Stanley stimano che le vetture elettriche saranno nel 2030 solo il 10 % del parco circolante: pertanto, non vi sarà quell’inversione di tendenza finalizzata a contenere il riscaldamento globale, pur se è prevedibile un notevole calo dei livelli produttivi per “il disamoramento crescente verso i veicoli individuali da parte delle nuove generazioni“. Più che grave è invece la situazione che si prospetta per Stellantis, in quanto il nuovo gruppo industriale, nato dalla sommatoria di due debolezze, ovvero Psa e Fca, non ha una sua presenza sul mercato emergente della Cina, ed in Italia, per via di un perdurante basso utilizzo degli impianti – anche tramite il reiterato ricorso alla cassa integrazione – sono a forte rischio i livelli occupazionali, con tutti i riflessi in negativo che si prevedono per il comparto della componentistica.

Infine, è notevole lo sguardo che Comito giustamente riserva al settore agro-alimentare, il cui giro d’affari è valutato in 8000 miliardi di dollari annui, poiché la critica agli allevamenti intensivi e la crescita della consapevolezza nei confronti della sostenibilità ambientale si scontrano con i fenomeni della degradazione delle terre del pianeta (il 40% al 2022), della grave perdita della biodiversità (l’86% delle specie animali sono a rischio di estinzione), e, purtroppo, stante l’incremento dello sfruttamento dei lavoratori e delle lavoratrici – in particolare migranti – con il grave peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita.

Di conseguenza, la giusta esigenza di ripensare sia la filiera della carne che quella del settore agricolo, in quanto responsabili di gran parte delle emissioni di gas nocivi e dell’utilizzo smodato dei fertilizzanti chimici e dei pesticidi, nonché del maltrattamento degli stessi animali, deve fare i conti con la difesa ad oltranza degli interessi delle lobby agricole e dei grandi complessi agro-industriali, ma anche con la spaventosa crescita del consumo di carne e di latte nel mondo.

Se, come è noto, i nord-americani consumano oltre 100 chili di carne a testa all’anno, i cinesi, che ne mangiavano 4 chili nel 1979 all’anno, ora sono passati su dati del 2013 a 62 chili, mentre la produzione di latte dell’India è passata dai 20 milioni di tonnellate del 1970 ai 174 del 2018. Sostanzialmente la “trappola evolutiva“ , evidenziata dal filosofo della scienza Telmo Pievani nell’inserto del Corriere della sera La Lettura, di domenica 14 aprile, che ci sta conducendo verso la catastrofe ecologica, appare sulla scorta delle puntuali e condivisibili riflessioni di Comito inarrestabile.

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