Come terminare
Cosa fare quando non c’è più niente da fare? La cosa più saggia è non far niente. Wu wei.
di Franco Berardi “Bifo”
In questi giorni ho letto un libro di Nouriel Roubini, che certamente è più autorevole di me. Il titolo inglese del libro è Megathreats, la versione italiana: La grande catastrofe.
Roubini elenca dieci mega-minacce che assediano il futuro del pianeta.
L’intrecciarsi di queste minacce – da quella ambientale a quella della de-globalizzazione a quella della guerra – rende assai arduo trovare una soluzione per un problema alla volta.
La minaccia delle minacce, per l’economista che è Roubini, sarebbe l’immensità del debito, e la sua tendenziale inarrestabile crescita.
Non consiglio la lettura di questo libro: l’autore ripete ossessivamente le sue minacce come se volesse spaventare il povero lettore, e alla fine risulta ansiogeno.
Non si capisce cosa dovremmo fare per evitare l’immane catastrofe, ma Nouriel ripete: all’erta, all’erta! facciamo qualcosa per evitare il collasso finale!
Non gli passa nemmeno per la mente che forse quando non c’è niente da fare la cosa migliore è proprio questa: non fare niente, e sperare che dio ce la mandi buona.
Tanto sappiamo tutti che dio non c’è, o se c’è ha cosa di più importante da fare che occuparsi dei nostri guai. Aveva mandato il suo figliolo per avvertirci di non essere così stronzi, e noi l’abbiamo messo in croce, figuriamoci se ancora ha voglia di perdere tempo con noi.
Questo Roubini sarà anche un bravo economista, non ne dubito, ma il suo problema è proprio questo: è un economista, e ho detto tutto.
So che ci sono economisti un po’ meno ossessionati di lui, io ne conosco alcuni che sono molto più simpatici, ma insomma ci siamo capiti: Roubini è ossessionato dall’economia, ha la testa piena di superstizioni. La sua principale ossessione è il collasso finanziario, il debito impagabile, e la crescita che non c’è più.
Figuriamoci se gli oceani straripano e le foreste prendono fuoco che importanza può mai avere il debito da pagare. Chi muore non paga debiti, e la verità che traspare da tutto il libro è che stiamo morendo.
Voi mi perdonerete se faccio un po’ lo spiritoso, visto che sto parlando di cose più grandi di me (ma anche più grandi di Roubini, e soprattutto più grandi di tutti i potenti della terra).
Infatti sono convinto che l’ironia sia la sola difesa contro l’inevitabile.
Per cominciare avanzo l’ipotesi che la causa della generale crisi di ansia stia nel fatto che la nostra cultura non ci ha preparato ad affrontare ironicamente la nostra personale inevitabile estinzione, e ora che l’estinzione si presenta come inevitable per l’intero genere umano, ne facciamo inutilmente un dramma e ci precipitiamo a tirare bombe su qualche disgraziato più disgraziato di noi perché in questo modo pensiamo di risolvere qualche problema mentre, naturalmente, non facciamo che peggiorarlo.
Cerchiamo di vedere il lato buono della situazione, se mi permettete: ci troviamo in una condizione del tutto originale. Mai nella storia umana si è ragionato di una possibilità come quella che ci si presenta: la possibilità (altissimamente probabile) di una terminazione della civiltà, e forse anche l’estinzione della vita.
Pensavate voi forse che sarebbe durata per sempre?
Nulla dura per sempre, ringraziamo il cielo di avere la fortuna di assistere a uno spettacolo che non si ripeterà. E cerchiamo di pensare, perché pensare non fa mai male, neppure nelle situazioni più disperate.
Come dice un’amica di Bari: sappiamo tutto ma non possiamo niente.
Io le rispondo: non è proprio vero che sappiamo tutto, ma quello che sappiamo (che non è tutto) suggerisce che l’estinzione sia inevitabile.
Quello che non sappiamo non lo sappiamo. Ed è lo spazio per l’imprevisto.
Dell’imprevisto non possiamo parlare, quindi su questo ci mettiamo zitti come del resto consiglia di fare Wittgenstein.
Quello che sappiamo ci consiglia di mettere in conto varie prospettive di terminazione. Ci sono terminazioni dolorose, violente, crudeli e tormentose.
Ma si può immaginare una terminazione incruenta, e perfino felice.
Tutti gli indicatori di cui disponiamo puntano alla terminazione per combustione, essiccamento, desertificazione…
Nessuna politica di riduzione delle emissioni di anidride carbonica potrebbe funzionare al punto cui siamo arrivati, neppure se ce ne fosse la volontà politica. Ma comunque la volontà politica di ridurre le emissioni non esiste, perché le principali preoccupazioni dei poteri politici sono la crescita e la guerra.
Per esempio l’ottima candidata alla presidenza americana ha detto che lei persegue una politica verde come no, però la sua politica verde non esclude il fracking.
La domanda cui dobbiamo rispondere, dunque: cosa si fa quando non c’è più niente da fare?
La mia risposta: niente.
Non si fa niente, quando è inutile agitarsi.
Sembra una risposta sciocca, invece forse non lo è.
Se fossimo tutti capaci di non fare niente certamente diminuirebbero le emissioni come è accaduto nel 2020, ma per poco tempo, e in maniera minima. Grazie al virus le emissioni sono diminuite soltanto dell’8%.
Mettiamola così: la terminazione è inevitabile ma ci sono possibilità differenti di terminazione: varie possibilità di terminazione cattiva e qualche possibilità di terminazione non tanto male, tipo eutanasia.
Cattiva è certamente quella che si sta preparando: innervositi per l’impotenza tiriamo fuori la pistola e ci spariamo addosso.
Abbastanza accettabile mi pare invece l’auto-terminazione che consiste nella sospensione della riproduzione del genere umano.
D’altronde mi pare che l’evoluzione abbia già scelto questa strada, indipendentemente dalla nostra consapevolezza di quello che stiamo (non) facendo.
Cerco di spiegarmi.
Un capitolo del libro di Roubini riguarda l’invecchiamento della popolazione.
Essendo un economista quello che lo preoccupa è come pagheremo le pensioni, la solita solfa. Naturalmente come pensionato mi seccherebbe se non mi pagassero più la pensione, ma questo è il dito che indica la luna. E Roubini la luna non la vede.
Un mondo in cui un terzo della popolazione ha più di sessantacinque anni è psicologicamente depresso, incapace di pensare un futuro, e fisicamente incapace di mobilitare le energie necessarie per qualsiasi impresa.
Nel 1945, dopo cento milioni di morti, gli abitanti della terra ripresero a sognare, progettare, costruire….
Il fatto è che in quegli anni nascevano continuamente dei nuovi esseri umani che non sapevano niente della guerra, e che credevano che tutto fosse possibile. Infatti venne fuori il Sessantotto.
Come dice Bataille: il non sapere giudica il Sapere, e il ‘68 giudicò il sapere.
Oggi crediamo di sapere le cose che crede di sapere Roubini, e restiamo paralizzati dal debito e dalla crescita.
Per questo non c’è nessuna immaginazione di futuro, e nessuna energia per il presente. I vecchi sono la maggioranza tendenziale, e i giovani nascono già vecchi a causa dell’eccesso di informazione disponibile e dell’impossibilità di elaborarla in maniera collettiva. I movimenti sono fiammate che non durano, che non si trasferiscono nella vita quotidiana, perché l’attenzione è attratta quasi tutta dallo schermo.
Ma torniamo a Roubini. L’economista si limita a dire: ci sono troppi vecchi per l’economia. Non producono, consumano e vogliono la pensione, e non ci sono abbastanza giovani per pagarla. A parte che basterebbe aprire le frontiere per avere un po’ di giovani, vallo a spiegare alla massa di vecchi (e di giovani senescenti) ossessionati dalla paura che gli stranieri ci portino via quel poco che è rimasto.
Ma in ogni caso siamo onesti: la popolazione del nord del mondo è destinata a diminuire nei prossimi decenni, al punto che alcuni demografi prevedono che dopo la grande accelerazione del ventesimo secolo (da due miliardi a otto) ci aspetta la grande decelerazione che ci riporterà a due miliardi all’inizio del secolo prossimo.
Se nel ventesimo secolo la maggioranza era di giovani, nel secolo ventuno la maggioranza tende ad essere di anziani.
Ma l’economista non si chiede: come mai ci sono troppi vecchi? E soprattutto: come mai non ci sono più giovani (e quei pochi sono così depressi)?
Perché il punto centrale di tutta la questione è proprio questo: come mai non si fanno più figli?
Questa domanda è importante, perché forse qui sta il segreto della buona auto-terminazione.
Wu wei, che vuol dire: non fare.
Per un milione di anni le donne sono state costrette a fare figli perché non c’era modo di evitarlo senza rinunciare a quello che per la maggioranza della popolazione umana era l’unico piacere della vita. Ma ora non è più così.
Si può far l’amore senza fare figli.
Inoltre la voglia di fare l’amore sta scomparendo per molteplici ragioni: negli ultimi trenta anni il tempo di vita cosciente è assorbito dallo schermo in connessione. E come se questo non bastasse durante la pandemia il corpo dell’altro è diventato oggetto di sensibilizzazione fobica. Ci fa paura.
Inoltre anche se fate l’amore, non serve più a fare figli perché la fertilità è crollata (58% in meno in 40 anni) grazie alle microplastiche (non tutto il male vien per nuocere). Le microplastiche non scompariranno, perché la plastica resta insostituibile, quindi possiamo sperare che presto la fertilità umana sia definitivamente azzerata.
Per finire (questa è la cosa più importante di tutte) cresce nella coscienza femminile il dubbio sulla moralità del mettere al mondo persone cui non si può garantire neppure il minimo sindacale dell’aria respirabile.
Mi pare che le donne del nord del mondo – in maniera cosciente o inconsapevole – sempre di più respingano l’idea di generare le vittime dell’inferno climatico, della guerra nucleare sempre più probabile, e della ferocia dilagante. Le donne africane e quelle del mondo arabo seguiranno, c’è da scommetterci. In India la natalità è già scesa sotto il tasso di riproduzione.
Ecco quello che sta accadendo: stiamo sospendendo le attività necessarie per riprodurre il genere umano.
Alcune lo chiamano “birth strike”.
In Corea del Sud c’è un movimento che si chiama 4NO:
No dating
No sex
No marriage
No children
L’interesse individuale non coincide affatto con quello della specie.
Anzi.
Il nostro interesse personale (e anche l’interesse degli umani che non metteremo al mondo) consiste proprio nell’ignorare l’interesse della specie, visto che la specie umana ha fatto chiaramente fallimento, come mostra il ripetersi di Auschwitz nella striscia di Gaza.
Dovete scusarmi se faccio lo spiritoso su cose tanto gravi, ma è il solo modo per immaginare come va a finire.
O come potrebbe andare a finire o magari anche no.
Infatti non mi stanco di ripetere:
l’inevitabile spesso non accade perché quello che accade è imprevedibile.
30 agosto
Da Il Disertore https://francoberardi.substack.com/