Compagno zombi/2
Un breve romanzo horror di fantapolitica proletaria: seconda e conclusiva parte (*)
di Gianni Sartori
CAPITOLO TERZO
IMMUNE …. ? NO, PORTATORE SANO!
(anno quinto G.T.O.)
“Il computer? Internet? Face book? Le peggiori invenzioni dopo la bomba atomica e l’automobile”. Svampita, scrostata, ma ancora leggibile la scritta a caratteri cubitali, di chiara marca luddista, troneggiava incongrua sull’area cosparsa di carcasse d’auto e carcasse tout-court, anche se si capiva che internet e face book erano aggiunte ampiamente apocrife. Con il senno di poi, pensava Lone Ranger (nome d’arte; all’anagrafe, quando ancora l’anagrafe esisteva, era semplicemente Mario Mariotto) si poteva tranquillamente attribuirgli – al marchingegno elettronico – anche il primo posto. Per quanto lo riguardava rimaneva convinto dell’esistenza di un’intima relazione, sincronica e non casuale, tra la diffusione capillare di computer e affini e la comparsa degli zombi. Un effetto collaterale dell’eccessiva permanenza davanti allo schermo? O magari – ipotesi Matrix – l’intrusione di una realtà parallela in quella abitualmente percepita?
Proprio a causa dei computer, sostenevano sia gruppi dissidenti neopentecostali che gli anarco-comontisti di ritorno, gli zombi avevano preso forma e consistenza. Internet in particolare pareva aver smosso i fondali di una quarta o quinta dimensione rimaste fino ad allora ai margini del nostro universo e della nostra percezione, dilagando poi in territori altamente appetibili.
Producendo e alimentando una variante di massa, nell’epoca della riproducibilità tecnica, di spiriti barontici, lemuri, lamie, succubi e affini. Insomma: zombi, come vennero frettolosamente battezzati seduta stante.
Lone Ranger smontò da Silver, appoggiò lentamente, senza produrre alcun rumore, il cavalletto rimanendo poi in silenzioso ascolto di un lamento, un rantolo, un verso che indicasse la presenza di zombi. Gli altri furono meno discreti e il rumore di un paio di biciclette lasciate pesantemente cadere violò la quiete del luogo.
Lone Ranger sapeva, o almeno credeva, di essere sostanzialmente immune al morso dei ritornati in vita, sempre che così la si potesse definire. Per ben tre volte era stato azzannato, in parti non vitali fortunatamente e tutto si era risolto con una infezione circoscritta guaribile con tanto disinfettante e qualche antibiotico. Per precauzione anche l’antitetanica. L’ingente scorta di medicinali prelevati dai depositi ospedalieri saccheggiati sarebbe durata a lungo, probabilmente più dei tempi di scadenza dei medicinali. Al “dopo” avrebbero pensato a tempo debito, sempre che per allora qualcuno di loro fosse ancora in vita. Sapeva altrettanto bene che la condizione di “immune” non costituiva una garanzia assoluta: uscire indenne dallo scontro con le deteriorate creature era una possibilità, mai una certezza .
Anche per lui, l’improvvisa apparizione di un gruppo troppo consistente, un’arma che si fosse inceppata, il momentaneo esaurimento di proiettili o anche un attimo di disattenzione potevano risultare fatali. Se l’ultimo morso, quello della suora con il volto ridotto in brandelli, fosse arrivato più in profondità, quasi certamente sarebbe morto dissanguato in pochi minuti.
E se in quella cantina, invece di un paio di cadaveri malconci che procedevano a fatica su arti ridotti a moncherini, avesse incontrato la riesumazione ben conservata di qualche militare professionista? Facile profezia: ci sarebbe stata una conclusione diversa, completamente a suo sfavore.
Gli ex militari, quasi super-zombi, rappresentavano un problema anche in quella valle stretta e impervia, in passato conosciuta come Val Pisona, dove il gruppo si era isolato. Proprio quella mattina, appena usciti dalla gola, ne avevano intravisto un intero squadrone, scivolare silenziosi tra gli alberi, inquietanti nelle loro mimetiche a brandelli e scavalcare agilmente alte recinzioni di fronte a cui gli altri zombi rimanevano a vagare impotenti. Forse un effetto residuale dei duri allenamenti o delle droghe a cui si erano assuefatti in vita, quella di prima.
Era proprio il caso di stare in guardia, preferibilmente armata.
Si chiedeva spesso Lone Ranger fino a che punto potesse spingersi; di quanto questi suoi limiti superassero quelli di ogni altro membro della squadra. Dall’immunità derivava il suo prestigio, ma anche una maggior responsabilità, l’obbligo morale di intervenire sempre, possibilmente per primo. “Onori, ma soprattutto oneri” mormorava talvolta.
Il medico del loro gruppo, un veterinario prima della catastrofe, aveva iniziato a prelevargli regolarmente piccole quantità di sangue pensando col tempo di ottenerne una sorta di vaccino. Un problema era quello della conservazione delle scorte, provvisoriamente risolto utilizzando un’antica ghiacciaia, risalente alle invasioni teutoniche e scoperta nella faggeta lungo il torrente.
L’altro problema, trovare volontari.
Dato che nessuno di loro era disposto a fungere da cavia non restava che andarselo a cercare, il “volontario”.
Per questo Lone Ranger, Revaival, El Bo e Mariavergine si erano messi in caccia, per trovare nei boschi qualche scampato. Uno di quelli che vivevano isolati in luoghi impervi, tra le rocce e i rovi, dove gli zombi procedevano a fatica. Lasciate le biciclette al termine della strada che in quel punto sprofondava nel torrente senza riemergere sull’altra riva, cominciarono a risalire l’impervio fianco del monte costellato di macigni e solcato da forre profonde. Cercavano qualche esemplare, almeno uno, di quei “rinselvatichiti” che la Tribolazione aveva risospinto ai primordi, fino al paleolitico e oltre.
Ne avevano già intravisti alcuni schizzare via, arrampicarsi agilmente sulla parete, superare d’un balzo lo strapiombo e scomparire oltre le creste, in alto. Senza che ci fosse nemmeno il tempo di ferirli o azzopparli. Quella che riuscirono finalmente a catturare doveva essere giovanissima. Leggermente zoppicante per qualche pregresso incidente, non fu altrettanto agile dei suoi compagni e finì attorcigliata nella rete lanciata da Revaival.
Squittiva, gridava, graffiava e mordeva…finché non la tranquillizzarono con una botta in testa.
“Spero di non averla ammazzata – bofonchiò El Bo, preoccupato all’idea di doversi rimettere in cammino per trovare un’altra preda, ora che la luce del sole calava e le ombre della montagna si allungavano.
Invece la giovane preda si risvegliò presto, ma ritrovandosi legata e appesa a un palo trasportato dai suoi cacciatori, rimase tranquilla. Almeno apparentemente perché, appena El Bo incautamente tentò di arruffarle i capelli, con un morso secco gli staccò una falange abbondante. Solo l’intervento di Lone Ranger, la cui autorità era fuori discussione, impedì che venisse massacrata sul posto.
Fasciato frettolosamente, il ferito venne sbrigativamente invitato da Mariavergine a proseguire da solo per raggiungere rapidamente la base in modo che il medico potesse ricucirlo.
Da allora se ne persero le tracce. La perdita di sangue doveva aver lasciato una traccia odorosa richiamando predatori affamati. Non necessariamente zombi.
Quanto all’esperimento finì come era prevedibile. La giovane selvaggia dopo la prima trasfusione fu preda di convulsioni, emise urla strazianti e la trasformazione avvenne in tempi record. “Peccato – commentò leggermente schifato Lone Ranger dopo averle sfondato il cranio a colpi di vanga – era anche carina”.
E questo fu l’unico epitaffio per l’innocente creatura strappata alla Montagna.
“Altro che immune – pensava intanto il medico. “Questo rischia di infettarci tutti”. Avrebbe dovuto occuparsene, prima o poi.
CAPITOLO QUARTO
UN GIUDICE
(anno sesto G.T.O.)
In fondo se l’aspettava, anche se non così presto. Per anni in quel buen retiro tra i boschi in prossimità di una base militare si era sentito al sicuro. Giudice in pensione, aveva goduto a lungo i frutti del solerte impegno a difesa dei privilegi istituzionalizzati.
La base, un mattino qualsiasi, rimase deserta, smobilitata. Ora poteva sentirne i cancelli sbattere lugubremente nel vento. Vedeva le torri di guardia emergere dagli alberi già invase da edere e viticci. E coppie sempre più numerose di gheppi e poiane sorvolavano gli spazi aperti dove fino a qualche anno prima pattugliavano i droni. Intanto anche la moglie lo aveva lasciato, scappando con un giovane inserviente (e chissà da quanto durava la tresca…). Poi se ne andarono le ultime guardie del corpo, infine anche il cane.
Rimase così, tapino, in rassegnata solitudine aspettando la conclusione. Inevitabile come una nemesi.
Sempre più spesso rivedeva nitidamente, con estrema chiarezza e precisione, il volto pallido, stravolto, del giovane operaio, prelevato direttamente sul posto di lavoro e trascinato all’obitorio per riconoscere il corpo della fidanzata devastato, straziato, assolutamente non identificabile. Una pura cattiveria da parte sua, completamente inutile ai fini investigativi. Nelle sue intenzioni, una punizione supplementare per chi aveva osato pensare che “ribellarsi è giusto”. E soprattutto aveva osato metterlo in pratica.
L’esperienza doveva essere stata devastante se dopo qualche mese lo avevano ritrovato impiccato nella sua cella. “Effetto collaterale – aveva pensato – la Giustizia doveva comunque fare il suo corso”. E poi si ricordava anche di quell’altro, come si chiamava quell’altro? La sua colpa, aver prestato l’auto alla moglie, militante rivoluzionaria, senza nemmeno chiederle a quale scopo. Poi venne ritrovata in prossimità di un supermercato (l’auto, non la moglie) dopo un fallimentare tentativo di “esproprio proletario” con un paio di molotov avvolte in Famiglia Cristiana nel bagagliaio. Ostinatamente, non aveva mai voluto coinvolgere nessuno. Negli anni successivi, trascorsi nella “giostra dei camosci” delle carceri speciali, aveva sperimentato di tutto, dai pestaggi all’isolamento. “Poteva fare qualche nome – si diceva il giudice – avremmo usato maggior clemenza”.
Anche se, ma questo il giudice solerte non poteva saperlo, chi aveva maggiormente e ingiustamente pagato le conseguenze di quella condanna sproporzionata era stato un cane. Per qualche anno vagò per la città alla disperata ricerca del suo amico perduto. “E’ un cane libero” proclamava la consorte del prigioniero e forse ci credeva davvero. Tornava alla casa ogni due-tre giorni, mangiava qualcosa e ripartiva, finché un giorno, mancavano ancora anni al termine della detenzione, non rincasò. Da allora nessuno lo vide più. Era, vagamente, uno “spinone” con gli occhi buoni, marroni.
Ma il giudice in pensione era ossessionato dagli altri due. Ne percepiva la presenza spesso, troppo spesso, con crescente inquietudine. Talvolta gli capitava anche di sognarli: giovani, belli e ribelli come lui non era mai stato. E ormai sepolti, ma vicini l’una all’altro.
Si svegliava allora bruscamente, sudato, con un gusto amaro in bocca.
Vennero col buio. Lo sciabordio strascicato di piedi e moncherini che risalivano dalla cava abbandonata ebbe un effetto ipnotico, tetanizzante. Nessun inutile tentativo di fuga.
Soltanto il tempo di mormorare: “Ragazzi… siete voi?”.
Non erano loro naturalmente. Dopo tanto straziante dolore chi sovraintende a questa valle di lacrime aveva concesso una meritata Pace eterna. Ma non faceva gran differenza. Affamati, assetati, zombi anonimi lo circondarono e sommersero senza incontrare alcuna resistenza. Dopo qualche ora quanto ancora rimaneva del solerte magistrato prese a strisciare lungo il bordo della piscina scivolandovi fatalmente dentro. Per il resto di quella che forse impropriamente venne definita “prosecuzione della vita con altri mezzi” rimase in ammollo nelle acque putride del fondo. Ricoperto da sanguisughe e ratti norvegesi che piluccando di giorno in giorno lo ridussero, letteralmente, all’osso.
CAPITOLO QUINTO
LES PENDUS
(anno terzo G.T.O.)
Tre anni già passati e loro erano ancora lì. Appesi, brancolanti e maleodoranti alle pareti del Trojon. Immersi in un continuo dondolio prodotto dalla brezza, ora di monte ora di valle, alternativamente. Gli tornò alla mente il ritornello che cantava sempre la nonna Erminia “…guarda come dondolo, guarda come dondolo…” quando per farlo addormentare gli raccontava la sua favola preferita, quella dell’orco Benito e della strega Claretta.
Non solo i moschettoni, anche cordame e imbragature avevano resistito: incredibile! Che pubblicità sarebbe stata per la ditta produttrice se ancora ce ne fosse stata una!
El Moro ricordava come fosse, non proprio ieri, ma ieri l’altro, l’improvviso silenzio disceso come nebbia ovattata dalle pareti, lo scricchiolio tenue di rami spezzati nella boscaglia, l’improvviso emergere tra le ginestre e i siliquastri del primo volto devastato, oscenamente ghignante. Urla, grida, lamenti e la fuga affannosa lungo i sentieri, scorciatoia diretta verso le fauci spalancate dei predatori. Alcuni già imbragati cominciarono a risalire le corde rimanendo poi sospesi, impossibilitati a proseguire. Ormai ogni cengia accessibile era ricoperta di zombi, brulicanti come vermi su una carogna infetta.
Sopravvissero qualche giorno. Di più soltanto quelli che pur nella concitazione avevano avuto l’avvertenza di afferrare qualche borraccia; ancora piena, s’intende. Poi, dopo qualche tempo, crampi e inedia li stordirono. Rimasero ad agonizzare, stremati e disidrati, in attesa della morte e della successiva trasformazione. In parte disossati dai vendicativi corvi imperiali, i patetici climbers annaspavano ora nel vuoto perdendo liquidi organici da ogni ferita e orifizio. Spettacolo desolante vedere così bravi e fieri atleti ridotti a penzolanti simulacri di umanità: braccia e gambe come zampe di insetto, sguardi appannati, fauci spalancate a emettere rauchi e catarrosi lamenti.
El Moro, lui quel giorno era transitato solo per un sopralluogo, per controllare se, dopo anni di astinenza, qualche rondine rossiccia fosse tornata a nidificare.
Si era salvato rifugiandosi in una stretta cavità in cui filtrava abbastanza acqua da consentire una, se pur sofferta e momentanea, sopravvivenza.
Per nutrirsi, esaurita la modesta scorta d’ordinanza di tavolette energetiche, solo muschi, licheni, capelvenere e terriccio. Ma non sassifraghe, assolutamente. Dopo (quanti giorni? Tre? Quattro? Cinque? ) aveva colto l’attimo fuggevole in cui l’orda si era allontanata per inseguire un paio di incauti e occasionali viandanti. Risalito rapidissimamente lungo una larga fessura obliqua, a tratti zigzagante lungo l’impervia parete, rischiando quel tanto che basta sprovvisto com’era di corda e cordini, sbucò in prossimità della cima. Ancora qualche minuto disteso tra i cespugli, pungenti, delle ginestre a scrutare i movimenti di quelle creature oscene già riconosciute e identificate. Zombi, che altro potevano essere se non zombi? Appena il tempo per pisciare e poi via di nuovo.
Muovendosi circospetto tra sentieri ben noti che presto sarebbero stati restituiti alla legittima vegetazione, aveva raggiunto il suo punto cardinale di riferimento, un modesto capitello dedicato al locale santo taumaturgo. Lasciandosi alle spalle la sacra edicola, si era ritrovato a calpestare la ghiaia della tortuosa strada bianca che conduceva alla cava abbandonata della Costola. Qui lo attendeva, ben nascosto e mimetizzato tra olmi, siliquastri, robinie e qualche carpino, il fedele velocipede. Ma non si sarebbe ugualmente salvato senza la fortunata coincidenza che lo fece inciampare, letteralmente, in un piccone abbandonato da qualche raccoglitore abusivo di tartufi, con cui sfondare il cranio a un paio di zombi troppo invadenti che gli vennero allegramente incontro. Poi la corsa frenetica verso la città. Mentre sulla provinciale decine di camion e auto fumavano e bruciavano rendendola impercorribile, la pista ciclabile era cosparsa soltanto di qualche cadavere. Alcuni davano ancora segni di vita. “Ma quale vita? Quella di prima o l’altra, quella di dopo”? – si chiese senza fermarsi per controllare.
Poi tutto divenne rapido, frenetico per ricostituire la vecchia brigata. La “Staffetta rossa itinerante” in realtà non si era mai sciolta, se non formalmente e tutti, chi più chi meno, avevano conservato qualche arma celandola in garage o seppellendola nell’orto.
Rientrare in “servizio attivo” fu questione di qualche giorno, il tempo di procurarsi altre armi, viveri, medicinali e combustibile. Dopo una settimana costituivano già uno dei primi gruppi meglio organizzati per la sopravvivenza.
“Alla fine – si disse – ce la siamo cavata mica male”.
Ora ritornava dove tutto era cominciato, al comando di una piccola squadra di ricognitori per verificare l’esistenza di possibili rifugi alternativi per la loro comunità.
Doveva ammetterlo: l’ambiente e il paesaggio sembravano averne soltanto guadagnato. Sparvieri e pecchiaioli, divenuti ormai stanziali, sorvolavano l’ardita rupe verticale. Corvi imperiali dalla voce rauca e timidissime rondinelle rosse erano rientrate nei legittimi spazi ancestrali.
“E tutto questo in soli tre anni – pensava – chissà fra trenta o trecento…”.
Predisposto fin dalla nascita a visioni, allucinazioni e profezie, già contemplava l’incedere solenne di bisonti e caribù. Fantasticava di orsi e leopardi, linci e uri, cervi e lupi…e magari anche qualche tigre in trasferta.
“E perché no?” – brontolava. Si sapeva che gruppi clandestini di antispecisti scampati alla repressione antropocentrica dei decenni precedenti erano prontamente entrati in azione liberando migliaia di animali da zoo e allevamenti.
Chissà, forse ne era valsa la pena alla fine. “E poi, vuoi mettere? Un sacco di stronzi in meno” concluse poco cristianamente.
Da lontano soltanto qualche residua macchia rossastra sotto al Pareton permetteva di identificare il punto in cui sorgeva quello che universalmente era stato conosciuto come “Eremo”: In realtà l’eremo storicamente accertato si trovava poco lontano, all’interno della grande cavità. Quella casetta rossa, prima di diventare un richiamo turistico, era adibita a garconniere per i sollazzi agresti dei signorotti locali.
La battaglia campale che aveva portato alla definitiva demolizione del manufatto era nata per una serie di malintesi e sfortunate coincidenze.
L’impronunciabile organizzazione politico-militare SOLSS (“Speleisti organizzati per la liberazione del sottosuolo”) in cui era confluita l’ala minoritaria – provisional – del NLF (Neandertal Liberation Front, sostenitori di una interpretazione letterale e ortodossa del zerzan-pensiero) lo aveva espugnato spazzando via la debole resistenza frapposta dal gruppo speleo che da decenni lo gestiva, in affido.
Fortemente istituzionalizzato e burocratizzato, il CSPV (Collettivo Speleo Pan e Vin) aveva dato ulteriore conferma della propria scarsa inclinazione all’autodifesa. I “SOLSS”, meglio armati, addestrati e organizzati, si erano quindi asserragliati nella rossa magione respingendo a valle sia gli abitanti del luogo, intere famiglie, che alcuni turisti sprovveduti rimasti bloccati dall’insorgere dell’epidemia zombi.
Ma presto la situazione doveva cambiare radicalmente.
All’arrivo del plotone in armi, esiguo ma agguerrito, di soldati fuoriusciti da un tunnel secondario della base missilistica, si erano illusi di poter dettare condizioni. Poco propensi alle trattative diplomatiche, i militari invece aprirono immediatamente il fuoco con lanciagranate e mortai, demolendo in breve la costruzione. Gli scampati al crollo e alle esplosioni, risalito il primo tratto della parete aggrappandosi a rami e appigli e strisciando tra pungitopo, spinachristi e rovi di vario genere, si erano riuniti all’interno del primo grande covolo soprastante. Da qui attraverso un rudimentale cancello già predisposto e bloccato con catene e lucchetti, si erano rintanati nella galleria che consentiva l’accesso all’ultima aerea cengia. In silenzio, al freddo e utilizzando le scarse riserve di cibo, ma pur sempre ancora vivi. In speranzosa attesa che i soldati prendessero il largo.
Invece questi parevano intenzionati a soggiornare a lungo, trovando riparo nell’ampia caverna asciutta già asilo di paleolitici neandertaliani, leoni e orsi.
Soltanto una provvidenziale e incurabile intossicazione generale con sintomi spettacolari, da Ebola, aveva provveduto a eliminare in pochi giorni, tra emorragie e diarree, gli invasori in mimetica e anfibi.
Si mormorava che prima di rifugiarsi sulla “traversata alta”, il “Chimico”, un misterioso militante di origine mediorientale che si era integrato nell’organizzazione solo recentemente, avesse versato il contenuto misterioso di alcune sue fialette, gelosamente custodite e da cui non si separava mai, nella vasca che raccoglieva l’acqua dello stillicidio e che normalmente serviva da “cantina sociale”. Rigorosamente analcolica, beninteso.
Si trattava di una sostanza micidiale. Inodore e incolore a effetto ritardato, contro cui gli abituali accorgimenti da scuola di sopravvivenza adottati dai militi risultarono del tutto inutili e inefficaci.
Fatto strano, a distanza di qualche giorno nessuno dei cadaveri in mimetica si era ancora trasformato in zombi. Restavano distesi, con le membra scomposte e contorte, lì dove erano crepati.
Un effetto presumibilmente dovuto non alla sostanza mortale ingerita, ma piuttosto alle dosi da cavallo di vaccini e ricostituenti a cui i soldati si erano sottoposti.
Scesi circospetti dalle cenge, provvidero comunque a decapitarli e bruciarli diligentemente uno per uno, neanche fossero vampiri.
In ogni caso, l’Eremo era perso, ridotto in macerie, indifendibile. La piccola comunità, ridotta a meno di un terzo del gruppo originario, decise all’unanimità di stabilirsi provvisoriamente ai “piani alti”, sul percorso aereo di strette cenge che incidevano l’ ampia, impervia e soleggiata parete. Qui, relativamente fuori portata dall’orda famelica, un paio di covoli consentivano una precaria sopravvivenza. Irrilevante a questo punto la loro denominazione. Non potendo più legittimamente utilizzare la sigla SOLSS optarono per un modesto e prosaico GOSS (Gruppo omogeneo scampati e sopravvissuti).
Così almeno l’aveva raccontata uno di loro, scoperto dalla piccola banda in esplorazione. Se ne stava rannicchiato e tremante in uno stretto cunicolo nei pressi della Rupe del Cane ammazzato. Disse di essere stato mandato alla ricerca di tuberi e radici con altri superstiti. Ma questi evidentemente se l’erano data a gambe al primo sentore di estranei. Senza nemmeno avvisare il compagno distratto. Del resto erano tempi bui e pericolosi che imponevano dure regole di sopravvivenza.
Lo lasciarono andare, dopo aver preso in consegna un magro bottino di bacche, germogli e tuberi. E non persero tempo a controllare quale fosse la reale consistenza della piccola comunità costretta ormai a languire e consumarsi aggrappata alle pareti. Di sicuro non costituiva più un pericolo.
Raggiunte le prime case del villaggio, Maiolese – un cumulo di macerie infestate da ratti, colubri, ramarri e scorpioni – constatarono che l’alto, sproporzionato campanile era ancora in piedi.
“Sarebbe un buon punto di osservazione – osservarono quasi contemporaneamente Eurialo e Niso.
Da qualche minuto El Moro avvertiva una sensazione di pericolo, quel formicolio sotto la nuca che talvolta mette sul chi vive chi si trova sotto tiro. E infatti dall’alto della torre campanaria un solitario Franco Tiratore (era il nome anagrafico, non la qualifica) li stava puntando con la carabina da quando il primo della fila indiana era emerso dalla boscaglia. Il potenziale cecchino si limitava a tenerlo ben inquadrato nel mirino, senza sparare. Sapeva bene cosa era accaduto poco lontano, in un altro villaggio dal caratteristico campanile guarnito di grandi statue evangeliche. Il vecchio prete, convinto che fosse suonata l’ora della preannunciata Apocalisse, si era inerpicato sul campanile mettendosi a sparacchiare su ogni bipede in movimento. Prima agli zombi, sicuramente orde infernali vomitate dall’Inferno, ma poi anche a quelli ancora in vita, a scopo preventivo.
Malauguratamente finì per infastidire una truppa di cavatori provenienti, con armi, attrezzi e bagagli, dalla Val Leona.
Piccati dalla poca creanza del prelato, non esitarono a minare seduta stante la base del campanile e ridurlo in macerie. Ora ne rimaneva soltanto un modesto moncherino, efficace memento mori per i viandanti.
Visto che l’Eremo era ormai inutilizzabile, completarono il giro di esplorazione controllando le antiche grotte già utilizzate in epoche lontane come rifugio provvisorio dagli indigeni.
“Troppa umidità e nessuna via d’uscita – commentarono all’unisono Eurialo e Niso.
In realtà una “via di uscita” ci sarebbe stata. Forse anche due, ma sconosciute ai più.
Lasciato Maiolese ai suoi tremori, risalirono lungo il sentiero che ricamava i versanti del Trojon. Ripensando a quei poveri grotteschi fantocci rimasti appesi, si erano ripromessi di abbatterne pietosamente alcuni, almeno quelli più a portata di tiro. Ma poi, distratti dalla rumorosa stampede di una mandria di cinghiali assaliti da cani rinselvatichiti, se ne scordarono.
Già tra i campi, dove crescevano a centinaia giovani pioppi e salici, El Moro si volse per un ultimo sguardo alla parete rimanendo impressionato dall’improvvisa virata di un corvo. La nera silhouette in volo si stagliava contro la cattedrale di luce emergente dalle profondità oscure del bosco come un iceberg dai flutti. Regale, l’uccello si infilò nella Valle della Sibilla e scomparve. Ma la sua ombra, sproporzionatamente grande, rimase ancora a planare sulla parete rocciosa illuminata dal sole morente.
CAPITOLO SESTO
VOGLIA DI MARE
(anno trentesimo, circa, dall’inizio della G.T.O.)
Francisque e altri cinque guerrieri erano usciti alle prime luci dell’alba perprocurare altre scorte di cibo, scarpe e magari medicinali non ancora scaduti(“Dopo trent’anni? Praticamente impossibile” – aveva obiettato – anche semagari in qualche sotterraneo, chissà….”). Non riuscendo a rientrare prima del buio si erano asserragliati in un rudere, una vecchia torretta utilizzata come appostamento fisso con un solo accesso di entrata basso e stretto, prontamente barricato con tronchi e pietre. La finestrella in alto,raggiungibile con una fatiscente scaletta interna a chiocciola, era munita di solide sbarre. Alcune feritoie, per quanto permetteva ancora la folta vegetazione rampicante che andava gradualmente ricoprendo il fabbricato, avrebbero consentito di abbattere, al momento della sortita mattutina, eventuali zombi deambulanti nei paraggi. Sgombrando il campo per un rapido sganciamento.
Il giorno dopo scoprirono invece di essere completamente sotto assedio, circondati da decine di morti-viventi. Dalle feritoie e dalla finestrella in alto iniziarono a sparare, con parsimonia e a colpo sicuro. Gli archi non erano utilizzabili, ma le due balestre apparivano completamente a loro agio nelle feritoie. L’intera mattina trascorse in un tiro a segno che, lentamente, apriva varchi sempre più consistenti nella folla affamata finché, quando ormai temevano di dover trascorrere un’altra notte nel provvisorio rifugio, gli ultimi zombi, inspiegabilmente, cominciarono ad allontanarsi. Dopo un po’ qualcuno ritornava sui suoi passi ma poi riprendeva la strada del bosco.
Uscirono in formazione di combattimento scaricando altre frecce per poi velocemente risalire il pendio che li separava dalla lunga, impervia, discesa verso casa.
Quando giunsero in vista della palizzata il sole era già calante e il silenzio totale.
Niente voci o rumori, solo qualche fil di fumo scompigliato dalla brezza. Compresero all’unisono, senza nemmeno doversi guardare in faccia che il Cavaliere pallido era passato senza far prigionieri.
Divelta solo in parte, la lunga sequenza dei pali che circondava l’antica villa signorile, era comunque ormai inutilizzabile. Erano rimasti troppo in pochi per ricostruirla in breve tempo, prima che qualche banda di zombi o di semplici saccheggiatori ne approfittasse per entrare. Per qualche notte si asserragliarono nella torretta centrale da dove una scala esterna e un ponte sospeso garantivano possibili vie di fuga, ma anche, se non costantemente vigilate, un accesso per nemici esterni.
Una rapida ispezione dei magazzini confermò quanto era facilmente prevedibile. Tutte le scorte di viveri erano state prelevate e le rimanenze distrutte o rese inutilizzabili da quanto vi era stato versato, qualche tanica di benzina che i saccheggiatori non avevano ritenuto conveniente portar via. Tracce evidenti di zoccoli calpestavano gli orti interni e Francisque si ricordò dei cavalieri nomadi segnalati dagli esploratori sui crinali del monte Rugolo.
I resti ancora leggermente fumanti intorno alla fontana barocca rivelarono presto il loro macabro contenuto. Tra mozziconi di pali e brandelli di attrezzi, dalla cenere sporgevano ossa inequivocabilmente umane. Quanto restava dei loro compagni. Uno spettacolo che tuttavia non turbava più di tanto la piccola schiera di superstiti, abituati ormai a convivere con questo e altro, anche peggiore.
All’alba del quarto giorno, dopo aver dormito poco e male, sia per i severi turni di guardia che per la demoralizzante scoperta di dover ricominciare dal niente, decisero di rimettersi in cammino. Era urgente trovare un riparo adeguato; la proposta del Borela di ricostruire la palizzata venne scartata a priori. Ridotti com’erano di numero, la ricostruzione avrebbe richiesto troppo tempo.
E comunque le dimensioni della villa, con tutte le sue finestre, scale, portoni e scantinati da controllare era praticamente indifendibile da quanti – sei – erano rimasti. Partirono sotto una pioggerella sottile, fastidiosa. Ma dopo qualche ora splendeva il sole, stormi di galline rinselvatichite balzavano in volo dall’erba alta e il primo zombo della giornata si affacciava tra i tronchi di quercia.
“Buongiorno” – disse gentilmente Francisque sfondandogli il cranio con un lancio quasi perfetto della bipenne.
“Cominciamo bene – mormorò tra i denti mentre estraeva l’ascia tenendo un piede sul collo del defunto, per la seconda volta e definitivamente.
“Uno di questi giorni vorrei proprio andarmene al mare” – pensò.
Non c’era da scandalizzarsi. Anche alle rudi guerriere post-apocalisse poteva capitare qualche aspirazione piccolo-borghese. Di tanto in tanto.
CAPITOLO SETTIMO
“DALL’OPERAIO MASSA ALL’OPERAIO SOCIALE. DALL’OPERAIO SOCIALE ALLA MULTITUDINE. DALLA MULTITUDINE ALL’ORDA-ZOMBIE...?”
(anno settimo G.T.O.; probabile, non confermato)
Militant 5 ritornò col pensiero, non senza un residuo di commozione, a quando la fase era cominciata. Solo pochi giorni, ma pareva un’eternità. Il “Vecchio Negro”, anziano ma sempre carismatico, massimo teorico di quanto ancora era riconducibile alla vecchia AutOpAp (Autonomia Operativa Apocalittica) si tolse gli occhiali posandoli sul tavolo. Trasse un profondo respiro e tossicchiò leggermente, quasi a voler attirare l’attenzione. Ma solo pro forma: tutti, intuendo la gravità e le conseguenze di quanto stava per dichiarare, pendevano già dalle sue labbra.
“Compagni” – esordì, con una formula ormai obsoleta. A ognuno corse un brivido lungo il fondoschiena intuendo che quella parola sacra e amata veniva pronunciata forse per l’ultima volta.
“Compagni” riprese con affettuosa stanca dolcezza “è chiaro che l’attuale congiuntura sociale ci impone nuovi compiti, fino a ieri impensabili. Con oltre il cinquanta per cento della popolazione mondiale trasformata in zombi – stime peraltro in difetto e destinate a mutare in breve tempo, possiamo già prevedere che entro qualche mese raggiungeremo il 60-70 per cento – restare arroccati in una posizione attendista, difensiva significherebbe fare il gioco del capitalismo ormai avviato a una totale dissoluzione. Gli zombi, diseredati, espropriati, manomessi, offesi, umiliati e bistrattati – e, sottolineo, anonimi e almeno tendenzialmente collettivisti – rappresentano il nuovo Proletariato, la versione post-apocalittica della Multitudine. Il nostro compito non è ignorarli, tantomeno contrastarli o, Dio non voglia (emergeva sempre nei momenti di massima tensione questo suo retroterra profondamente cattolico) combatterli.
Dobbiamo andare all’Orda zombi come i vecchi populisti russi andavano al Popolo. Dobbiamo confonderci con loro, diventare come loro… dobbiamo porci alla testa di questo immenso sommovimento…”. Vedendo la perplessità diffondersi sui volti leggermente stravolti della platea comprese che l’altro suo retroterra, quello leninista, stava riprendendo il sopravvento.
Si concesse una pausa, poi chiarì: “Solo metaforicamente, chiaro, non fraintendete compagni. Come stabilito dall’ultimo Congresso, niente capi, niente avanguardie…”.
Un altro profondo respiro, un risucchio catarroso e completò : “… ma non si dica per questo, sia ben chiaro, che siamo anarchici, non sia mai…”.
“MAI!” esclamarono all’unisono gli astanti con malcelata, se pur stanca, fierezza.
“Chiarito questo punto – concluse, in maniera frettolosa, ma giustificata dalla portata immane di quanto stava per dire – dobbiamo diventare zombie… intanto. Poi si vedrà”.
L’accampamento era ammutolito. Pur avendo oscuramente presagito che questa era la via, l’unica alternativa all’autoscioglimento, al rientro nella norma di una omologata sopravvivenza piccolo-borghese, il colpo fu tale da lasciarne molti senza fiato e con il cervello in caduta libera.
Nessuno tuttavia osò proclamare apertamente quello che in molti pensavano: “Tu sei completamente pazzo, sei fuori come un pergolo!”. Nessuno sul momento lo contraddisse, ma nella notte molte tende si svuotarono e alla luce tremolante dei fuochi si videro ombre allontanarsi in direzione della boscaglia. Per i transfughi questa defezione dell’ultima ora non servì che a rimandare di qualche giorno l’inevitabile dipartita. Quando non vennero sommariamente divorati sul posto, finirono trasformati in morti-viventi.
Gli altri, la maggior parte, usi a obbedir tacendo, si avviarono il giorno successivo verso la preannunciata Orda che arrivava dal Nord. Sprovvisti al momento di tesi programmatiche, ma pur sempre in maniera organizzata. Poi si sarebbe visto, come aveva sentenziato l’amato leader. Il quale, per il momento, se ne sarebbe rimasto barricato nel bunker attrezzato con mesi di anticipo e di cui nessuno conosceva l’esatta ubicazione, per valutare il momento più opportuno per … per fare cosa non era ancor chiaro, ma l’evolversi della situazione avrebbe sicuramente fornito gli elementi indispensabili per agire di conseguenza.
L’impatto con l’Orda fu clamorosamente disastroso. In molti, giunti a pochi metri dalle affamate, sbavanti fauci spalancate, nell’udire distintamente quel sordo e folle digrignare di denti, le grida rauche dei dannati che pregustavano il macabro festino, fecero dietrofront e se la diedero a gambe. Gesto politicamente scorretto ma umanamente comprensibile, anche se ormai inutile. Inseguiti e atterrati (e atterriti, ovviamente), sommersi da corpi indecentemente decomposti, vennero divorati seduta stante. Solo qualcuno si rialzò, per quanto claudicante e barcollando andò a ingrossare l’orda che ciecamente, sul far della sera, proseguiva il suo cammino. Ma della maggior parte dei coraggiosi neo-populisti non rimase che qualche brandello di carne disperso sul terreno.
Mentre lo azzannavano, Militant 5 pensò con rimpianto alla ragazzina con i capelli rossi che non avrebbe più rivisto. In realtà stava poco lontano e in quello stesso momento pranzava e cenava con le interiora del compagno Geremia (Militant 13); ma questo non lo avrebbe mai sospettato.
Dal suo bunker munito di periscopio, il leader, vista la mala parata e dopo aver ermeticamente chiuso ogni feritoia, si accinse a scrivere un trattato definivo: “Stato, Rivoluzione e Zombi: Che Fare?” Ma si corresse prontamente: “Stato, Rivoluzione e Zombi: Che Fare!”. Mentre un sano ottimismo rivoluzionario lo pervadeva da capo a piedi.
FINE ?
Avvertenza: quest’opera è di pura fantasticheria. Ogni riferimento a persone e luoghi realmente esistenti – o esistite – è da considerarsi puramente casuale (e comunque il cane si chiamava Gloff).
L’IMMAGINE E’ RIPREESA da “DODICI” DI ZEROCALCARE.