Coprifuoco turco sui kurdi
di Francesca Innocenti, Guido Roggero, Niccolò Bartoloni (*)
«Il Pkk è il popolo e il popolo è qui!» gridano gli adolescenti di Batman nel Bakur, Kurdistan turco. E’ il 20 marzo, vigilia degli unici festeggiamenti permessi del Newroz ad Amed, considerata dai curdi la propria capitale, ma a Batman le celebrazioni sono state vietate, come in tutte le altre città del paese.
Le strade sono presidiate da decine di mezzi blindati e militari che, armati di tutto punto con indranti e armi da fuoco, tengono sotto tiro le persone. Entriamo in città al seguito di Mehmet Ali Aslan, deputato locale del’Hdp, e siamo subito accerchiati dai militari che impediscono ogni assembramento, con getti di acqua urticante e lacrimogeni; anche un semplice ballo tradizionale, simbolo di resistenza, diventa un valido pretesto per essere attaccati.
Il momento più teso si raggiunge quando un giovane viene preso con la forza e i presenti cercano di liberarlo: i soldati sparano una raffica in aria ed un anziano si scaglia contro i corpi speciali a mani nude. A nulla vale l’intervento del deputato e dopo poco siamo costretti a lasciare la piazza per trovare riparo nella vicina sede dell’Hdp da cui per ore assistiamo alle azioni di polizia ed ai rastrellamenti. La sede stessa è fatta bersaglio dei getti d’acqua e del lancio di lacrimogeni. Mehmet Ali Aslan, si interpone in prima persona, arrampicandosi su un mezzo antisommossa per bloccarlo, ma deve allontanarsi quando viene colpito in faccia dai gas.
La sensazione che abbiamo tornando a casa è quella di un movimento realmente popolare che sente proprie sia le posizioni piu radicali del Pkk che le pratiche di rappresentanza istituzionale dell’Hdp. Ne abbiamo la conferma quando, il giorno successivo, partecipiamo ai festeggiamenti ad Amed, balli e canti riempiono la piazza dalla mattina e quando viene acceso il fuoco simbolo del Newroz le persone sono centinaia di migliaia. Il 21 marzo è la festa più importante per il popolo curdo, che lo considera l’inizio dell’anno e che è simbolo della sua resistenza.
Le bandiere sono di tutti i colori, da quelle delle tante associazioni che costituiscono la partecipazione dal basso, caratteristica dell’autonomia democratica, a quelle dei partiti di sinistra, dei gruppi armati e di autodifesa.
I colori del Rojava e di Ypg/Ypj sottolineano la continuità tra il progetto di confederalismo democratico in atto nel nord della Siria dal 2012 e le dichiarazioni di autogoverno proclamate nel Bakur.
I festeggiamenti avrebbero dovuto concludersi il 22 a Cizre, città in macerie diventata simbolo della resistenza di questi mesi e ribattezzata la Kobane turca. Il coprifuoco qui è stato dichiarato a settembre e da quel momento è proseguito con brevi pause fino ad oggi. I posti di blocco dislocati su tutte le vie d’accesso hanno impedito l’ingresso sia alle delegazioni internazionali che a Demirtas, co-presidente dell’Hdp. Le immagini dalla città assediata raccontano lo stesso scenario visto a Batman.
Il coprifuoco imposto da mesi nelle città del Bakur sta lasciando una scia di sangue e distruzione. Una guerra non dichiarata che ha già provocato circa 450 morti fra i civili e 350.000 sfollati. In queste ore sappiamo che a Nusaybin, Sirnak e Gever il coprifuoco è imposto anche bombardando con i carri armati, mentre nei quartieri si resiste alle violenze dello Stato con le barricate.
Lo Stato ha posizioni sempre più autoritarie anche sul piano dei diritti politici, con decine di giornalisti e accademici arrestati o inquisiti e giornali commissariati. E’ sempre piu’ insistente la richiesta di un ulteriore inasprimento della legislazione antiterrorismo che tolga l’immunità ai parlamentari dell’Hdp, rendendolo di fatto illegale.
Questi due aspetti stanno erodendo le speranze di una soluzione pacifica del conflitto nel sud est del paese, che si era intravista con i colloqui aperti da Abdullah Ocalan con il governo tra il 2012-2014. La prima rottura di questo equilibrio si è avuta quest’estate, quando, dopo l’attentato di Suruc, l’aviazione ha bombardato le postazioni del Pkk nel nord dell’Iraq. Da quel momento le tappe si sono susseguite velocemente: dichiarazioni di autogoverno, coprifuochi e formazione delle unità di autodifesa popolare.
La conseguenza di queste scelte politiche è la radicalizzazione del conflitto. Di fatto in Turchia è in atto una guerra civile ma gli stati europei sembrano ciechi, troppo impegnati a trattare con Erdogan perchè blocchi il flusso di profughi.
Per riaprire la speranza di una soluzione pacifica sarebbe essenziale che gli stati dell’Unione Europea dessero legittimità politica all’amministrazione federale del Rojava e riconoscessero il Pkk come forza popolare, togliendolo dalla black list delle organizzazioni terroristiche.
(*) questo reportage di Francesca Innocenti, Guido Roggero e Niccolò Bartoloni è apparso anche sul quotidiano «il manifesto» del 26 marzo. L’immagine è ripresa dalla rete.