Cose viste: fra virus, governi e paura
di Julien Coupat et alii (*)
Abbiamo visto abolita con uno schiocco di dita la libertà più elementare delle costituzioni borghesi – quella di andare e venire.
Abbiamo visto un presidente pretendere di regolare dall’Eliseo i «dettagli della nostra vita quotidiana».
Abbiamo visto un governo promulgare dall’oggi al domani delle nuove abitudini, la maniera corretta di salutarsi e anche promulgare una «nuova normalità».
Abbiamo sentito trattare i bambini come delle «bombe virali» – e alla fine no.
Abbiamo visto un sindaco vietare di sedersi più di due minuti sulle panchine della «sua» città e un’altra proibire di comprare meno di tre baguette per volta.
Abbiamo ascoltato un professore di medicina depresso parlare di «forma di suicidio collettivo per se stessi e per gli altri» a proposito di giovani che prendevano il sole in un parco.
Abbiamo visto un sistema mediatico perfettamente sconsiderato tentare di riguadagnare un po’ di credito morale attraverso la colpevolizzazione di massa della popolazione, come se la resurrezione del «pericolo giovani» avrebbe prodotto la propria.
Abbiamo visto 6000 gendarmi delle unità di «montagna» appoggiati da degli elicotteri, dei droni, dei fuoribordo e dei 4X4, lanciati in una caccia nazionale ai passeggiatori sui sentieri, sui bordi dei fiumi, dei laghi – senza parlare, evidentemente, dei bordi del mare.
Abbiamo visto i polacchi in quarantena spinti a scegliere tra fotografarsi a casa propria su di una applicazione che combina geolocalizzazione e riconoscimento facciale o ricevere la visita della polizia.
Abbiamo sentito i vecchi bussare alla porta della loro camera all’RSA per implorare che li si lasciasse uscire a vedere il sole magari per l’ultima volta, e la barbarie civilizzata ammantarsi di scuse sanitarie.
Abbiamo visto la nozione di «distanza sociale», concepita nell’America degli anni ’20 per qualificare l’ostilità dei bianchi verso i neri, imporsi come norma evidente in una società d’estranei. Abbiamo così visto un concetto nato per rispondere alle rivolte razziali di Chicago nel 1919 essere mobilitato al fine di fermare l’ondata insurrezionale mondiale del 2019.
Abbiamo visto, nelle nostre notti al confino, i satelliti di Elon Musk sostituire le stelle, come la caccia ai Pokemon ha sostituito quella alle farfalle scomparse.
Abbiamo visto da un giorno all’altro il nostro appartamento, che ci era stato venduto come rifugio, rinchiudersi su stesso come una trappola.
Abbiamo visto la metropoli, una volta svanita in quanto teatro delle nostre distrazioni, rivelarsi come spazio panottico del controllo poliziesco.
Abbiamo visto in tutta la sua nudità la fitta rete delle dipendenze alle quali le nostre esistenze sono sospese. Abbiamo visto in cosa consiste la nostra vita e a cosa siamo vincolati.
Abbiamo visto, nella sua sospensione, la vita sociale come immensa accumulazione di vincoli aberranti.
Abbiamo visto gli Stati Uniti, la Francia o l’Italia dichiarare una guerra implacabile a un nemico invisibile e mimare così il potere cinese. Abbiamo visto gli Stati più occidentali adottare naturalmente le parole, i metodi e le maniere reputate proprie del «dispotismo orientale» – ma senza avere i suoi mezzi. Abbiamo visto che la spietata governamentalità cinese, che prima era designata come nemica, essere in realtà un modello. Abbiamo visto verso cosa tendono le nostre democrazie.
Abbiamo visto il sociale riassorbirsi sempre più nel governamentale e questo ridursi al puramente ostile. Abbiamo visto la separazione compiuta coincidere con il progetto di una governamentalità perfetta.
Abbiamo assistito per settimane all’interminabile sketch governativo delle maschere, dei test e dei posti in rianimazione. E abbiamo visto in questa buffonata il riflesso della nostra impotenza senza misura. Abbiamo visto la passione triste di essere ben governati di fronte al fatto di essere sempre delusa.
Abbiamo visto le sarte del villaggio sopperire alle carenze dello Stato e le infermiere parlare con più autorevolezza di un cosiddetto Presidente. Abbiamo visto sfilare porta-parola senza parole, generali senza esercito, strateghi senza strategia e ministri senza magistero. Abbiamo visto crollare l’antica fede nello Stato nel momento stesso in cui questo ritrovava una insperata ragion d’essere.
Abbiamo letto questo comunicato del Centro Padronale svizzero: «Bisogna evitare che certe persone siano tentate di abituarsi alla situazione attuale, cioè lasciarsi sedurre dalle sue insidiose apparenze: molto meno circolazione sulle strade, un cielo senza traffico aereo, la fine della società dei consumi… Questa percezione romantica è ingannevole, poiché il rallentamento della vita sociale ed economica è in realtà molto triste per molti abitanti che non hanno alcuna voglia di subire per ancora molto tempo questa esperienza forzata di decrescita».
Abbiamo visto lo Stato francese, normalmente chiamato alla grandiosità come tutto ciò che è francese, essere riportato alla sua reale situazione di Stato fallito. Abbiamo visto sotto il luccichio del suo apparato una realtà da «Terzo Mondo» – scippando delle mascherine alle proprie collettività locali e ai suoi « alleati europei », mobilitando l’esercito come un qualsiasi presidente messicano per mettere in scena un controllo della situazione alla quale nessuno crede, mimando a colpi di elicotteri e TGV un’efficacia di cartone, appropriandosi degli slanci di solidarietà spontanea verso i medici e gli infermieri che fino a quel momento aveva sempre disprezzato.
Abbiamo visto, attraverso i buchi nelle bluse delle infermiere, l’intenso bricolage che si fa passare per «le nostre istituzioni».
Abbiamo visto la meta-burocrazia privata dei gabinetti di consiglio mondiali essere altrettanto imbranata della burocrazia statale, e tuttavia estendere ovunque il suo raggio d’azione.
Abbiamo visto come gli Stati Uniti, in tanto che Stato fallito, sono uguali alla Francia.
Abbiamo visto ovunque la pretesa ad amministrare le cose, a gestirle da lontano, schiantarsi sul reale.
Abbiamo visto la passione per l’orto, o per l’allevamento di polli, impossessarsi di coloro che fino a quel momento avevano giusto tre vasi di fiori appassiti.
Abbiamo visto dispiegarsi l’auto-organizzazione locale, da vicino a vicino, e anche i territori vissuti, come un riflesso vitale che riportava un po’ di senso e di aderenza – come esperienza infima ma reale di potenza collettiva.
Abbiamo visto il riflesso di centralizzare-pianificare-organizzare peggiorare la situazione dappertutto, migliorando solamente l’immagine degli organizzatori.
Nei confronti della crisi abbiamo visto lo Stato come ciò di cui non abbiamo più bisogno e da cui nulla viene in nostro soccorso se non come sorda minaccia o colpo basso. Abbiamo visto che vivere senza lo Stato, o lontano dal suo impero, è divenuta per molti la prima misura vitale.
Non abbiamo visto, nel corso della prova generale di confinamento mondiale, alcuna cesura tra un «mondo di prima» e un «mondo di dopo». L’abbiamo vista come semplice rivelazione del mondo che c’era già, ma la cui coerenza era rimasta fino ad ora muta.
Abbiamo visto sorgere, insieme alla messa agli arresti domiciliari della maggior parte della popolazione mondiale, una nuova architettura prefabbricata della separazione, dove l’assenza di contatto forma la condizione per cui tutti i rapporti siano mediati ciberneticamente.
Abbiamo visto emergere, in fondo alle statistiche del ministero dell’interno riguardo al 20% dei parigini andati a confinarsi fuori città, l’ecosistema fino a ora clandestino della sorveglianza di massa. Al riguardo, abbiamo visto quanto fosse vano distinguere tra organizzazione statale e data brokers privati, tra chi detiene i titoli e chi dispone dei mezzi.
Abbiamo sentito Eric Schmitt, ex-dirigente di Google ora pilastro del complesso militare-industriale statunitense, esprimere ciò che ci si guarda bene dal dire in Francia: la descolarizzazione online dei bambini è una vera e propria «sperimentazione di massa in materia di insegnamento a distanza». Per poi precisare il piano: «se dobbiamo costruire l’economia e il sistema educativo del futuro sull’on-screen, avremo bisogno di una popolazione integralmente connessa e di un’infrastruttura ultrarapida. Il governo deve procedere, anche come piano di rilancio, a investire massicciamente sulla conversione delle infrastrutture informatiche nazionali in piattaforme basate sul cloud, e agganciarle al sistema 5G». In questo suo appello alla gratitudine per i giganti dell’informatica, abbiamo percepito la voce trionfante dei nuovi padroni: «pensate un po’ a come sarebbe la vostra vita in America senza Amazon!»
Abbiamo visto, con l’inarrestabile pretesto della pandemia, illuminarsi la coerenza dei pezzi finora disgiunti dei piani imperiali: geolocalizzazioni, riconoscimenti facciali, contatori elettrici «green», droni nel caos, proibizione del pagamento in contanti, internet delle cose, generalizzazioni dei sensori e della produzione di tracce, piattaforme informatiche per l’assegnazione delle case popolari, privatizzazione esasperata, economie tutta in smartworking, i consumi a distanza, le conferenze a distanza, le consulenze a distanza, la sorveglianza a distanza e, per finire, i licenziamenti a distanza.
Abbiamo visto nel tasso di equipaggiamento tecnologico in dotazione a ciascuno la condizione per sopportare una reclusione che ancora dieci anni fa sarebbe stata patita come intollerabile – un po’ come l’introduzione della televisione nelle prigioni ha estinto le grandi rivolte.
Abbiamo assistito all’inflazione folgorante di una particolare tecnologia: quelle di cui Kafka diceva saremmo morti, perché «moltiplicano la frequentazione spettrale tra gli uomini».
Abbiamo visto, con il confinamento mondiale, la socializzazione del virtuale rispondere alla virtualizzazione del sociale. Il sociale non è più il reale. Il reale non è più il sociale.
Abbiamo visto, negli Stati Uniti, il coprifuoco poliziesco prendere il posto del confinamento sanitario, e l’applicazione del tracciamento immaginato «per il covid» usata per rintracciare gli insorti.
In Francia, abbiamo invece visto manifestazioni prima vietate per insondabili ragioni di ordine pubblico esserlo adesso per insondabili ragioni di ordine sanitario.
Una volta confinata la popolazione, abbiamo visto la polizia godere fino all’orgasmo della ritrovata sovranità su uno spazio pubblico idealmente deserto. E abbiamo visto in compenso, negli Stati Uniti, in cosa può consistere un deconfinamento riuscito: riprendersi la strada, la rivolta, il saccheggio, la riduzione in cenere della polizia, dei grandi magazzini, delle banche e degli edifici governativi.
Abbiamo visto, su un balcone a Nantes, uno striscione stupido e codardo: «Restate a casa! Prepariamo le lotte di domani!»
Abbiamo visto ovunque dei cittadini intonare in coro lo «state a casa» abbaiato dai poliziotti e dai loro droni.
Abbiamo visto la sinistra, come sempre, all’avanguardia del «civismo» che aspira a produrre governanti – all’avanguardia dunque del gregarismo.
Abbiamo visto la burla dei «permessi di vivere» immaginati nel 1947 dai dadaisti della Da Costa Encyclopédique divenire realtà come politica statale e misura civica. Che sia stata facoltà di ciascuno richiederli avrebbe dovuto allertare sulla stravaganza dell’iniziativa.
Abbiamo visto a cosa si riferisce il «rigore budgetario», così come l’imperativo morale di alzarsi presto al mattino per andare a lavoro.
Abbiamo visto, per chi continua a lavorare, che il lavoro forzato è la verità del lavoro salariato, che l’essenza dello sfruttamento è il suo essere senza limiti e che l’autosfruttamento è la sua energia motrice.
Abbiamo visto che la gerarchia sociale si fonda puramente sul grado di parassitismo. Abbiamo visto la società dell’utilitarismo mandare a casa in quanto «inessenziali» i propri gestori.
Abbiamo esperito nella falsa alternativa tra uno spazio pubblico totalmente sorvegliato e uno spazio privato destinato alla stessa fine, la mancanza di luoghi intermedi in cui riprendere localmente in mano le condizioni di esistenza che ci sfuggono da ogni parte. Abbiamo visto nella proliferazione dell’intermediazione di tutti i generi – commerciale come politica, intellettuale come sanitaria – la conseguenza di quest’assenza spaziale.
Abbiamo percepito l’apparato mediatico e governamentale suonare per due mesi come un pianoforte i nostri stati d’animo, da palinodia a menzogna grossolana, da contraddizione aperta a rivelazione fasulla.
Abbiamo provato come, attraverso l’insondabile minaccia del virus, ci si legasse a noi stessi legandoci agli altri, ma attraverso un legame che è in sé una dissociazione: la paura.
Ripreso da Qui e ora, continua qui
Julian Coupai credo sia l’autore o uno degli autori del libro L’insurrection qui vient, pubblicato in Francia nel 2008