Così un uomo
un racconto di Mauro Antonio Miglieruolo (*)
1
Era a causa di una moglie e due figli, ai quali ammetto di continuare a voler bene, che per quasi venti anni, anni non sgradevoli, non m’accorgevo, o m’accorgevo a stento, dell’esistenza delle donne. Il mondo ne era pieno eppure non riuscivo che a collocarle nella funzione svolta, non per quello che erano. Inservienti, cameriere, capi reparto, collaboratrici o concorrenti. Non altro. Rifiutavo di vedere tutto il resto.
2
Al termine di una penosa ispezione nel corso della quale avevo fatto piangere una vera brava persona (eccezionale: un imprenditore); conobbi di me quel che dovevo conoscere. La mia verità nascosta, il mio meschino vero essere mascherato dietro la permanenza di una bonomia e fedeltà del tutto aleatoria. Aleatorio e durevole. Verità che ebbe la sua occasione per farsi largo e non seppe prenderla a volo.
3
Il consulente del lavoro che teneva la contabilità dell’imprenditore (hiii! Imprenditore, quale pretenziosa definizione!) aveva sbagliato tutto, a partire dall’inquadramento, applicando riduzioni di tariffa che non spettavano. Ora bisognava pagare anni di arretrati più multe e interessi. Una cifra esorbitante che il poveretto non era in grado di pagare. Inevitabile chiusura e fallimento.
Si mise a piangere davanti a me con un rammarico e una intensità che mi colpì al cuore. Aveva voluto essere in regola, amministrare bene, preciso e onesto con dipendenti e fornitori. Lavorato bene. Ed ora con un pugno di mosche in mano.
Aveva i capelli bianchi e una volontà di agire correttamente che effettivamente mi commosse. Volli far qualcosa per lui, ma non potevo nulla. A meno di sbagliare a mia volta e questo intenzionalmente non m’era mai successo.
4
Fu certo il turbamento prodotto in me dal caso straordinario (l’onestà accompagnata dalla disdetta) che m’aprì alle novità e possibilità del mondo. Constatavo come la precarietà accompagnava l’uomo a ogni passo. Esiti crudeli sempre possibili. Io stesso in qualsiasi momento potevo trasformarmi in boia. O diventare vittima. Non esisteva nulla a cui aggrapparsi. L’immagine stessa di moglie e figli naufragava nella pena della quale indirettamente e innocentemente ero responsabile.
Mi avviai sulla via del ritorno con l’amaro in bocca.
5
Mancava più di un’ora alla partenza del treno. Comprai il biglietto e mi recai al bar della stazione a centellinare il tempo restante e la frustrazione.
Ordinai una birra.
Non la bevvi. Mi limitai a guardare il bicchiere, dentro cui una moltitudine di bollicine ascendevano verso la sommità del liquido. Lì si perdevano. Migliaia e migliaia di bollicine.
Ero tanto assorto ad osservare l’effimero di quella loro impresa eccezionale, l’ascesa verso il Paradiso, che non mi avvidi che il posto davanti a me era stato occupato. O meglio, me ne resi conto, avvertii una presenza, senza però accettare di portarla alla consapevolezza dell’istante. Una presenza straordinaria, che si dimostrò dirompente. Non mi curai di sollevare lo sguardo per accorgermene.
L’intensità sorridente, lo scoprii dopo essere tale (sorridente) e l’attenzione con la quale fui osservato, mi spinse a sollevare gli occhi, costretto alla presa d’atto.
Li abbassai immediatamente. Sconvolgente. Spaventoso, persino. Troppo oltre la mia possibilità d’intendere e volere. Tornai a porre attenzione alle bollicine.
“Le ha contate tutte?” udii.
E poi: “Pensa di continuare? Ce ne sono molte in attesa, sa?”
La voce mio Dio! Più esorbitante dell’aspetto. Quella di un flauto e di un violino fusi insieme per trarre, oltre alle proprie sonorità, quelle dell’anima dell’interlocutore. Ebbi un brivido lungo la schiena. Com’era possibile accoppiare tanta bellezza a una tale voce? E a una tale nobile postura, alla tranquilla gestione dell’essere suo del momento e per il momento?
Di bollicine ce n’erano parecchie. Abbastanza da riempire l’ora in attesa di transito del treno. Salivano e avrebbero continuato a salire fino a che il treno fosse arrivato. Nel loro effondersi sorse improvviso, salì e salì, proprio come le bollicine, un oscuro timore. Vidi deserti e foreste lussureggianti, montagne innevate, un casotto isolato nel bel mezzo della solitudine. Vidi la mia storia e quella di tutti gli uomini. Quel che avevo di fronte ne era il riassunto. Una sintesi nobile che interrogava, senza vi fosse possibilità d’una risposta adeguata.
Tornai alle bollicine, ma senza più guardarle; o guardandole distrattamente. Davanti agli occhi avevo l’immagine nobile della donna che scorreva eternamente uguale sullo schermo mobile della mia immaginazione. Continuai a guardare la donna nello schermo della mente. Per tutto il tempo che la donna mi concesse.
Studiandola, immaginandola, evolvendola.
Il sorriso lieve, contenuto, pronto a sfociare in una risata di divertita malizia. La postura, seduta composta, come non sanno più assumere le fanciulle d’oggi. Una regina.
Avrà avuto al massimo venticinque anni, ma emanava una padronanza di sé che a volte non si acquista neppure a cinquanta. Nello stesso tempo che constatavo, il film continuava a rimandarla, un loop eterno, accompagnando l’immagine con le note di una spinetta, giuro che l’udii, che ripeteva all’infinito le note di una invocazione, il ritmo accorato e disperato e impaziente di un perpetuo “mio Dio! Mio Dio! Mio Dio!…” Già, mio Dio!
Su quell’invocazione, che era una preghiera implicita, pregai a mia volta. Ignoro se invocando d’essere salvato o lasciato alla perdizione che preparavo per me stesso.
Sollevai gli occhi.
Incontrai i suoi, in un pieno d’intenzione che nemmeno vecchi innamorati. Lei sfidando. Io auspicando indulgenza.
“Che ha?” chiese sorniona. Immaginai lo sapesse. Chiese ugualmente. Poiché non rispondevo insistette:
“L’ho notata, sa? Veramente più che altro ho notato la nube nera dei suoi pensieri. Una di quelle nubi che portano precisamente tristezza e distruzione. Mai sentito un uomo più afflitto. Ma lei è davvero così tanto triste?”
Occhi grandi, belli, luminosi. Gioielli incastonati dentro una sfera altrettanto luminosa alla quale facevano corona i capelli; e definita da guance, naso, bocca, gola…
Ne fui abbagliato. Mai visto nulla di più completo e bello. Una sfera celeste, su un corpo la cui prestanza l’abito non riusciva ad occultare. Angelo o demonio. Destinato a portare gli uomini in Paradiso o precipitarli nell’Inferno?
Continuai a fissarla finché dal fondo dell’anima arrivò l’avviso. Chi ero e quale fosse la mia meta.
Mi alzai di scatto, rumorosamente, facendo quasi precipitare la sedia. Un attimo dopo ero fuori, il cuore che batteva all’impazzata. In ritirata da uno strano pericolo. Senza voltarmi a guardare. In un estremo tentativo di razionalizzazione, accampai la fretta che metteva l’altoparlante, annunciante l’arrivo del treno.
Il treno arrivò e fui svelto a salirvi. Ma già rimpiangendo quel che senza pensare mi ero lasciato dietro. Senza la sussistenza di un vero efficace perché.
6
Non appena sul treno il rimpianto divenne pentimento. Iniziò a molestare con un turbamento nel petto che poi salì, per produrre pensieri.
Ero stato un idiota. Il destino mi aveva messo di fronte a uno straordinario esemplare umano e io non l’avevo neppure guardato.
Capivo, capivo bene il perché. I miei quasi cinquanta. L’età adatta, lo sfiorire della gioventù. La debolezza umana. Il bisogno urgente improvviso e traditore di uscire dalla regola degli anni, della vita impostata, la prospettiva di una avventura…
Cercai di distrarmi guardando il paesaggio che scorreva all’esterno dello scompartimento. Lo conoscevo bene. Forse sarebbe riuscito a catturarmi, scacciando il chiodo della ragazza; nello stesso modo che la ragazza era riuscito a scacciare quello della pena e del rimorso per la rovina di un essere umano.
Il verde dei prati, che regrediva rapidamente; e il bianco della neve che gradualmente prendeva il posto dell’erba. Era ancora lontana la primavera.
In prossimità dell’ultima stazioncina, qualche minuto prima d’attraversarla, la porta dello scompartimento si aprì, apparve il Controllore. Un uomo alto, lo sguardo buono, per nulla diffidente, inquisitorio. Gli porsi il biglietto che chiedeva. Lo punzonò e fece per richiudere.
“Perdoni, esco,” mormorai. Chiedevo perdono a lui, avrei dovuto chiederlo a me.
Non si scansò per lasciarmi passare. Guardava oltre me, come interessato al paesaggio. Nulla di particolare. Forse per fornire a me il tempo di meditare. Io però già sapevo, avevo fatto la mia scelta. Sapevo di volerla (e poterla) praticare.
La trovai infatti, sempre sorridente, gatta sorniona, in attesa all’inizio del corridoio del vagone accanto; le spalle poggiata alla porta della toletta. Quasi ne fosse la custode.
“Ah, eccoti, finalmente!”
Era giovane ma sapeva degli uomini tutto quello che c’era da sapere. Glielo avevano insegnato, credo, gli sguardi inevitabili sul corpo; l’attenzione costante da cui era circondata, la cautela con la quale ci si rivolgeva a lei. Alla sua intangibile bellezza che la rendeva sovrana. Nonché le esperienze dirette che pure doveva avere attraversato.
“Sono sposato,” l’informai.
“Lo so,” rispose accennando alla fede che portavo al dito. Non era cieca. Avvertita invece, attenta, consapevole. Me la sfilai e depositai in tasca.
Il sorriso scomparve. Si fece seria.
“Lascia perdere… non sei il tipo…”
Sapeva. Lo sapevamo ambedue. Ugualmente scossi il capo.
Ma lei tornando sorridente, incalzandomi: “…anche se sei il mio tipo… ma questo vuol dire poco, vero?”
“È già qualcosa. Molto più delle mie carenze, e impedimenti!”
Solo allora, per quelle parole per le quali trovavo il coraggio, osai guardarla in viso. A lungo. Avido e silenzioso, sfidando il tremore che tutta la bellezza, della quale finalmente prendevo pienamente atto, provocava in me. Che provocava probabilmente in chiunque osasse contemplarla.
La fissai tanto a lungo che si innervosì.
“Il gatto ti ha mangiato la lingua?” chiese.
Prima che potessi risponderle mutò d’espressione, anche la grazia dei lineamenti, alterati da una vena di crudeltà. O dovrei dire, d’incipiente minaccia?
Vidi chiaramente solo la promessa. Dell’improvviso, la vita illimitata, lo scoperchiarsi della tomba dell’impiegato. Che in essa si trovava costretto come morto, ma a cui ogni procedere diverso appariva essere peggio della morte.
7
Non le parlai della dimensione mia e di tanti altri. Mi lasciai vincere da una sorta di slancio poetico, la meditazione implicita all’osservazione delle bollicine che produceva sommesse parole di verità.
Iniziai a parlarle di ciò che ispiravano i suoi occhi.
Mi interruppe sul più bello della descrizione. Quant’erano grandi, quanto luminosi, quanto inevitabili. L’inevitabilità sua intera, bellezza, grazia, modi diretti…
“Che aspetti? Baciami, stupido…”
Ed io invece:
“Alla prima stazione, scendiamo…”
“Sì,” rispose. Il primo dei tanti sì con i quali mi gratificò il resto del giorno.
8
Fui fortunato. Il treno si fermò e così pure il tempo mio, a disposizione. Un incidente, sembra, poche decine di metri fuori dalla stazione, a un passaggio a livello, l’avrebbe tenuto fermo per ore. La copertura ideale per un ritardo che non poteva essere breve. A parte l’orario del treno seguente, previsto in prossimità del tramonto.
9
Una stanza linda e decorosa, al primo piano, pulita, com’era facile trovare da quelle parti. La ragazza oscurò tutto, per difendersi da sguardi indiscreti. Ma accettò, con finta indulgenza, in realtà compiaciuta, che illuminassi la stanza accendendo ogni possibile fonte di luce. Volle però mi girassi, mentre si spogliava. Per farmi mancare il fiato, quando mi autorizzò a voltarmi. E l’ammirai nella semplicità del suo essere. A distanza di anni la sensazione è che, la sua nudità, emanasse luce propria, intensa e abbagliante più di ogni altra della stanza.
Dovetti mettere su una faccia proprio di quelle memorabili, memorabili almeno quanto la sua nudità.
“Sembra tu non abbia mai visto una donna nuda,” commentò scherzosa, volutamente leggera.
Ma era in quella serietà con la quale, scherzando, si dicono cose molto vere.
10
Sdraiati l’uno accanto all’altra…
Chiese:
“A che pensi?”
Era evidente a cosa pensassi. Eppure “a nulla” risposi. Era quel che credevo. Di non avere pensieri. Non di averne la possibilità. Rispose per me l’inconscio, in quella che lei interpretò come una confessione. Guardai l’orologio, che subito dopo gli eccessi della passione, avevo significativamente provveduto a mettere al polso.
“Alla prossima partenza del treno, vero?”
“Abbiamo tutto il giorno a disposizione,” dissi, credendo di rispondere chissà che.
“E perché non anche tutta la notte?”
La domanda mi spiazzò. Portandomi dove temevo d’andare. La ragazza però era avida di chiarezza. Era stata sempre trasparente.
“Perché non molte notti? mesi e anni, al limite…”
Parlando si era girata per fissare il mio profilo. Mi girai anche io, per guardare lei, guardare me da ogni possibile pericolo. Non lessi nulla sul volto. Per un po’. Poi la piega terribile delle labbra, non più per ospitare un sorriso. Per esprimere un “vigliacco” forse nemmeno sussurrato, che immaginai, più che udire.
“Bisogna meritare la felicità, per ottenerla.” Chiosò.
Al punto di quelle parole seppi quel che volevo fare. Non quel che l’opportunità offriva. Quello verso cui mi spingevano paure, accidia e debolezze varie. Mi alzai e rivestii, in fretta. Considerando. Avevo le circostanze dalla mia parte. Ero ancora in tempo. Salvare il salvabile. Potevo farcela.
La stanza aveva un balconcino che dava sulla piazza. Mi sembrava di aver notato una postazione di taxi. La piazza era deserta. A quell’ora, da quelle parti, con quel freddo, ben pochi avevano voglia di passeggiare. Avrei chiesto di un tassista all’accettazione…
Accedetti al balcone. L’aria mi colpì con un pugno di gelo, mi costrinse a dare un passo indietro.
Dovevo essere pazzo. Pazzo del tutto.
“Rimango,” affermai rivolto alla donna. Lei annuì. Con gravità. Il sipario era calato anche sui suoi segreti. Ma così, di nuovo vestita, era anche più bella. Anche se non altrettanto sorprendente.
“Beh, la stanza è pagata…” commentò gelida. Ostile, senza ostentarlo. “Trascorri una buona notte…”
La porta della stanza si aprì, si chiuse.
Il suo passo affrettato nel corridoio… pochi secondi più tardi giunsero dalla strada.
Tornai a affacciarmi. La vidi allontanarsi per un non so dove del quale non ricordo neppure la direzione. In avanti, credo, camminando dritta, con decisione. Immaginai fosse accecata dalle lacrime. Sparì tra i palazzi.
Solo allora mi resi conto che non ne conoscevo neppure il nome.
(*) Avete presente quel vecchio, bel film «Cinque pezzi facili»? Ecco, il nostro Mauro Antonio ci ha regalato 10 pezzi facili. Evviva. Anzi 15. Evviva bis. I “breviari” sembravano finiti ma ora ne sono arrivati altri. Qui in “bottega” ci siamo talmente emozionati (in buon italiano: incasinati) con la numerazione che dal 14 siamo saltati al 16 ma ormai era tardi per rimediare; siamo pigri e dadaisti. Venti pezzi facili? Un altro stop e si riparte? Chissà.