CPR cioè migranti in gabbia: buoni affari anche per Engel Italia
Tre giorni fa il Consiglio dei Ministri ha annunciato la proliferazione di nuovi Centri di Permanenza e Rimpatrio (CPR) per migranti come risposta a chi fugge da guerre, fame e disastri. La decisione apre nuove prospettive di mercato in Italia per le imprese della detenzione amministrativa, vecchie e nuove entità di cui già molto si può dire sulle modalità di gestione di questi inferni.
Particolarmente attuali a riguardo le inchieste sui CPR pubblicate da Irpimedia, che riproponiamo sulla Bottega a puntate.
Voci dai Cpr: le irregolarità segnalate da chi ha lavorato con Engel Italia Srl
Oggi versa in uno stato di crisi, ma continua a gestire, con un altro nome, il Centro per il rimpatrio di Milano.
Federica, nome di fantasia, stava cercando un lavoro nel sociale quando si è imbattuta in un annuncio su Facebook. «Era stato pubblicato da un’azienda che tra le varie cose si occupa di comunicazione, grafica e recruitment. Ho inviato il curriculum e sono stata subito contattata».
All’appuntamento, con lei ci sono infermieri, mediatori, personale delle pulizie, medici, operatori in attesa di essere convocati. L’edificio scelto per il colloquio si trova in via Corelli, a Milano.
Il cortile interno è invaso da materiali da costruzione, impianti smontati perché, secondo quanto spiegano i datori di lavoro, dovrebbe diventare a breve una cucina.
Quando arriva il suo turno ormai è buio e l’illuminazione non funziona: «Attorno al banchetto c’erano tra i tre e i cinque uomini in piedi, gambe divaricate e braccia conserte. Alcuni di loro tenevano in mano un cellulare per usare la torcia – racconta – ho preso il mio telefono e l’ho appoggiato sul banco e ho chiesto agli uomini di puntare le loro torce in altre direzioni perché era poco confortevole».
Le hanno chiesto informazioni sul suo trascorso lavorativo e sulle competenze linguistiche, poi hanno cercato di capire se fosse «pronta ad affrontare una situazione di quel tipo» e se avesse capito bene chi «erano i datori di lavoro».
Il colloquio era finalizzato all’assunzione nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano, uno dei nove attualmente aperti in Italia (il governo Meloni vorrebbe averne venti). Si tratta di strutture di detenzione amministrativa, dove i cittadini stranieri vengono rinchiusi senza che abbiano commesso alcun reato, solo perché sprovvisti di un permesso di soggiorno. Sono gestiti da cooperative, società e multinazionali private che si aggiudicano appalti da milioni di euro di fondi pubblici grazie alla logica della «offerta economicamente più vantaggiosa».
Solo negli ultimi tre anni all’interno dei centri sono morte nove persone. Chi ne esce invece li descrive come un carcere, ma senza le tutele del sistema penitenziario.
«Puoi resistere fino a un certo punto, poi devi decidere: dentro o fuori. Se resti dentro, allora ti tappi gli occhi e le orecchie». Federica si è dimessa dopo soli tre mesi, un tempo comunque sufficiente a sperimentare le condizioni di vita in un Cpr.
«Per identificare una persona veniva usata la parola “merda” e poi magari “alta”, “bassa”, “magra”», afferma. L’ex operatrice denuncia le carenze dell’assistenza sanitaria, l’abuso di psicofarmaci, gli atti di autolesionismo all’ordine del giorno. Ma racconta anche di essere stata ripresa per aver segnalato in una relazione l’assenza di acqua calda, di coperte a sufficienza, del riscaldamento e di vetri alle finestre.
A gestire il centro il quel periodo era la Engel Italia Srl.
La gestione emergenziale cede le strutture ai privati
La Engel Italia è una Srl creata nel 2012 a Salerno dall’imprenditore Alessandro Forlenza e poi ceduta alla moglie Paola Cianciulli, che oggi detiene il 100% ed è amministratrice unica dell’azienda.
In base alla visura camerale, l’attività principale della società fino al 2015 è stata quella alberghiera, sostituita in seguito da «l’assistenza sociale e gestione di centri di accoglienza per immigrati».
Dal 2013 al 2015 la Srl ha gestito un albergo, l’Hotel Engel, a Capaccio Paestum, in provincia di Salerno, lo stesso che diventerà poi uno dei primi centri di accoglienza gestiti dalla società. Una svolta che nel 2014 segnerà il passaggio dal mondo del turismo a quello dell’accoglienza, per poi arrivare nel 2017 al trattenimento dei cittadini stranieri. Oggi la società Engel è in stato di crisi e nel 2022 ha formulato la domanda di ammissione alla procedura di concordato preventivo, aperta dal tribunale di Salerno.
Engel Italia si occupa di trattenimento dei migranti a partire dagli anni in cui i flussi migratori cominciano ad aumentare. Nel 2011 gli sbarchi dal Nord Africa sono la conseguenza delle Primavere arabe, moti delle fasce medio basse della popolazione dei Paesi arabofoni del Maghreb e del Medio Oriente contro i loro governanti. Per i rivoltosi, le speranze di riscatto e della fine delle dittature sono state in larga parte disattese. La violenta repressione che ne è seguita ha poi portato molte persone a fuggire verso i Paesi europei, percorrendo una delle rotte più pericolose al mondo: il Mediterraneo centrale.
L’Italia, che nel 2011 ha assistito all’arrivo di 62.692 persone, ha visto il numero di migranti sbarcati sulle sue coste raggiungere i 170.100 nel 2014 e oltre i 181 mila nel 2016.
Gli sbarchi di massa sono avvenuti però in un sistema di accoglienza impreparato: un approccio emergenziale che ha trasformato ex caserme o alberghi privati in strutture ricettive, con aggiudicazioni straordinarie consentite dallo stato di emergenza nazionale. Una situazione che ha portato molte società private, con nessuna esperienza nel campo dell’accoglienza e del sociale, a entrare nel settore e a vedersi aggiudicati facilmente appalti pubblici, senza reali controlli da parte delle istituzioni.
È la stessa “emergenza” a cui si assiste anche oggi, con la corsa in extremis alla ricerca di nuove strutture.
Si è permesso così, in molti casi, di limitare al massimo i servizi e i diritti delle persone ospitate in nome di interessi economici.
«Da anni lo Stato delega a soggetti che tipicamente sono non profit, ma ora delega sempre di più a organizzazioni che hanno esplicitamente, e non c’è nulla di male, un fine di lucro», spiega Salvatore Fachile, avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi).
Fachile sottolinea, però, che nella progressiva decisione di delegare i servizi, lo Stato «si solleva dalle responsabilità». Non solo: lo stesso Stato «attribuisce gli incarichi ai soggetti privati, consentendo loro di fatto di poter violare le regole contrattuali, sapendo che l’ente privato potrà accettare quel tipo di contratto a quel prezzo solo nella misura in cui venga autorizzato informalmente a violare le regole».
Il sistema è distorto dagli appalti al massimo ribasso che spinge gli enti gestori a ridurre i servizi per contenere i costi. Servirebbero, quindi, garanzie dei diritti di chi è recluso per controbilanciare questa situazione. «E questo nel Cpr non avviene», sottolinea Fachile, perché gli unici trattenuti all’interno delle strutture sono «persone che non hanno alcuna voce in capitolo all’interno della dinamica complessiva sociale: i cittadini stranieri».
Le prime segnalazioni di malagestione
È in questo contesto che la Engel è entrata nel settore, inizialmente in Campania.
Già dall’avvio della gestione dell’Hotel Engel riconvertito sono emersi i primi presunti casi di mala accoglienza. È accaduto dopo un’ispezione dell’allora parlamentare del Partito democratico e oggi imprenditore Khalid Chaouki, insieme a LasciateCIEntrare, campagna lanciata nel 2011 per ottenere la possibilità di visitare gli allora Cie e per chiederne la chiusura. Gli ospiti della struttura avrebbero segnalato alla delegazione la mancanza di beni di prima necessità, tra cui cibo e vestiti, di non ricevere il pocket money (diaria di due-tre euro erogata agli ospiti in contanti o in carte prepagate per piccole spese, ndr), di sentirsi trattati come animali e di temere per la propria incolumità.
La vicenda è stata portata in Parlamento da Chaouki, che ha evidenziato come gli ospiti avessero già segnalato la violazione del capitolato d’appalto alla prefettura di Salerno. L’allora senatore e presidente della Commissione per la promozione dei diritti umani, Luigi Manconi, ha inoltre raccontato alla stampa di aver ricevuto una memoria da alcuni rifugiati del centro. Il caso è stato comunque archiviato dal tribunale di Salerno.
Le stesse segnalazioni si sono ripetute solo pochi giorni dopo nella provincia di Avellino, dove la Cgil ha denunciato gravi violazioni in alcuni centri di accoglienza gestiti dalla Engel. Secondo i sindacalisti, gli ospiti vivevano in condizioni di totale abbandono e disagio, non ricevevano da mesi il pocket money, non era garantita loro l’assistenza sanitaria, né i corsi di italiano. Dalle indagini della procura di Avellino sarebbero emerse gravi inadempienze rispetto al capitolato d’appalto, che hanno portato il giudice per le indagini preliminari a disporre il sequestro probatorio (cioè finalizzato a trovare elementi di prova) di alcuni centri nel 2016.
Nel 2020 la Procura di Avellino ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti, tra gli altri, di Forlenza e Cianciulli per il reato di inadempimento di contratti di pubbliche forniture. Ai rappresentanti della Engel si contestano la situazione di sovraffollamento in uno dei centri e, in generale, la mancanza di servizi o opere previsti dal contratto e relativi all’assistenza alla persona, ai beni essenziali e all’assistenza sanitaria.
Per la Cgil di Avellino, riporta Repubblica, erano denunce conosciute da tempo ma che non «sono mai state recepite dal Prefetto e dai sindaci». Il processo si trova attualmente nella fase di giudizio.
L’anno successivo la Engel vince la gara per la gestione del Cpr di Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza, passando così al business della detenzione amministrativa.
Per gli inquirenti di Avellino, così come secondo le testimonianze degli operatori del Cpr di Milano, Forlenza è «amministratore di fatto» della società, nonostante dal 2014 non ricopra alcuna carica formale. Sentito direttamente a seguito della visita del Cpr, afferma di essere «il direttore» del centro, ma conferma di non avere ruoli nella società. La società non ha voluto però rispondere alle richieste di commento via email inviate da IrpiMedia.
Nonostante i procedimenti e le difficoltà economiche, nel 2021 i vertici della Srl sono riusciti a ottenere comunque la gestione di un altro Cpr, quello di Milano. Nell’aprile del 2022 Engel ha ceduto il ramo d’azienda che si occupa della gestione della detenzione amministrativa a una nuova società, Martinina Srl, di proprietà al 90% della moglie di Forlenza. I nomi dunque continuano a essere sempre gli stessi e ancora una volta nelle visure camerali non compare Alessandro Forlenza.
A ottobre 2022 Martinina si è riaggiudicata l’appalto per la gestione del Cpr di Milano.
A marzo 2023 ha perso invece il centro di Palazzo San Gervasio dopo circa quattro anni e mezzo di gestione. Consiglia Caruso, amministratrice pro tempore di Martinina Srl, non ha voluto rispondere alle richieste di commento inviate via email da IrpiMedia, sostenendo che l’inchiesta «abbia l’unico fine di mettere in cattiva luce l’operato di Codesta società».
Stipendi non pagati, psicofarmaci ai trattenuti: le denunce dal Cpr di Milano
Gli unici a poter entrare all’interno di un Cpr senza preavviso sono i parlamentari.
Per la società civile e i giornalisti è difficile effettuare un monitoraggio, non solo per i tempi di risposta delle Prefetture, che possono impiegare mesi, ma anche perché la visita, quando concessa, si concentra solo su alcuni ambienti comuni, con forti limitazioni.
Come nel caso di quella che abbiamo effettuato il 22 luglio 2022 nel Cpr di Milano, dove ci è stato permesso di transitare solo nel corridoio, ci è stato impedito di parlare con i trattenuti e di visitare i moduli abitativi.
In quel momento, Martinina era già subentrata a Engel da tre mesi ma di questo passaggio di consegne non c’era traccia sul sito della Prefettura, secondo quanto riportato anche nel rapporto dell’ex senatore Gregorio De Falco pubblicato insieme alla rete Mai più lager – No ai Cpr sulla sua visita al Cpr milanese.
Gli stessi operatori intervistati durante la visita hanno confermato di non essere stati avvisati del subentro. Dovrebbero essere proprio le Prefetture a verificare il rispetto del capitolato d’appalto con ispezioni periodiche. Ma, come denuncia l’ex operatrice Flavia, quando avvengono sono spesso sommarie: «Anche se arriva un prefetto, un viceprefetto, non entrano mai nei bracci, mai, assolutamente. Entrano soltanto nei corridoi».
Gli stessi operatori, secondo alcune testimonianze, sono invitati dall’ente gestore a non parlare con i giornalisti né con eventuali parenti dei trattenuti.
Durante la nostra visita, però, i dipendenti della struttura hanno denunciato varie criticità, come il ritardo nel pagamento degli stipendi. «Si lamentano tutti degli stipendi, tutti se ne vanno via di qua», ha detto un’operatrice. «Sto aspettando lo stipendio di maggio ma siamo al 21 luglio», ha affermato un altro.
Una dinamica confermata anche da chi ha lasciato il centro: «Sono tre mesi che non veniamo pagati, neanche il Tfr ho ricevuto. Sono andati via tanti di quegli infermieri e medici… sono scappati», sostiene un ex operatore.
Persino il funzionario della Prefettura che ha seguito la visita è sembrato essere a conoscenza dei reclami, come testimonia anche una lettera del giugno 2022 inviata da alcuni dipendenti al prefetto di Milano: «Ho sentito, però non ho contezza della parte economica, non è il mio lavoro. Chiedete a Forlenza».
Raggiunto all’ingresso del Cpr qualche giorno dopo la visita, sulla questione stipendi Forlenza ha risposto: «E allora sono pazzi. Lei lavorerebbe per un anno in un’azienda senza essere pagato? Tutti i dipendenti fino ad oggi qua sono pagati. Chi non è stato pagato è perché c’è un contenzioso».
Il racconto peggiora quando si parla delle condizioni di vita dei trattenuti. «Io li chiamavo per nome e loro mi hanno detto “hanno un numero”. Allora mi è venuto da dire: “Perché, Auschwitz ha riaperto?”», ricorda Flavia.
In un altro episodio, dopo essere riuscita a salvare un trattenuto che stava per togliersi la vita impiccandosi, racconta di essere stata rimproverata dalle forze dell’ordine perché «non era di sua competenza»: «Hanno cazziato me, quell’intervento non lo dovevo fare. Dovevo chiamare [le autorità]. Ma ora che arrivano questo ormai è andato».
Un’inchiesta di Altreconomia ha evidenziato anche un uso eccessivo degli psicofarmaci nei Cpr, tra cui quello di Milano.
Lo studio parte dal Centro salute immigrati (Isi) di Vercelli, il servizio che in Piemonte prende in carico le persone senza regolare permesso di soggiorno, dove la spesa per gli psicofarmaci ammonta allo 0,6%. Se però si passa al Cpr di Milano la percentuale sale al 64%. Oltre metà della spesa riguarda il Rivotril, un farmaco usato come antiepilettico o sedativo. Nel primo caso avrebbe bisogno di una prescrizione ma le visite psichiatriche effettuate nel centro sono state solo otto in un anno; nel secondo sarebbe la persona a cui viene somministrato a dover dare il suo consenso.
Di fronte a questo dato esiste un’incompatibilità di base, perché il regolamento dei Cpr stabilisce che le persone con «patologie evidenti come disturbi psichiatrici» non sono «idonee alla vita in comunità ristretta» e quindi non dovrebbero essere recluse.
È un dato che trova riscontro anche nelle parole di Federica: «Alla fine quello che diventava ok erano le benzodiazepine. Basta. Per tutto il resto, se volevano un cerotto oppure una pomata diceva che c’erano troppe richieste e non poteva “cacciare tutti questi soldi”». Un risparmio che si rifletteva, secondo Federica, anche sulla carenza di operatori, costretti a svolgere doppi ruoli, come nel suo caso: «I primi tempi sono dovuta andare in ambulanza ad accompagnare i ragazzi a fare le visite mediche, che non è una cosa che mi compete», afferma.
Oppure sul cibo: il 31 maggio scorso un video di No Cpr-Mai più lager ha mostrato un pollo ricoperto di vermi bianchi che riportava la scadenza per il giorno successivo.
Già precedentemente l’associazione aveva denunciato un caso di intossicazione di oltre 30 persone.
Dopo le dimissioni dell’assistente sociale, alcuni operatori hanno confermato che il centro è rimasto senza, anche se la figura è richiesta dal capitolato d’appalto per otto ore a settimana. Per Forlenza invece c’erano «due psicologhe e un assistente sociale».
Martinina continua a gestire il Cpr ancora oggi: «Ci si illude di poter cambiare il sistema pretendendo delle cose da dentro. In realtà poi ti rendi conto che è studiato in un certo modo, non è lasciato al caso e quindi sei lì dentro a fare cosa? La lotta contro i mulini a vento?», dice Federica.
Il Cpr di Palazzo San Gervasio
«L’enorme gabbia per uccelli» – così era stato descritto il Cpr di Palazzo San Gervasio in un’inchiesta de l’Espresso – è stata riaperta con l’arrivo del ministro dell’Interno Marco Minniti nel 2017. Da allora è stato gestito dalla Engel fino a marzo 2023, quando ha perso la nuova gara d’appalto. Come nelle precedenti gestioni, anche in questo centro sono state denunciate gravi violazioni dei diritti fondamentali.
Tra gli altri, il Garante nazionale delle persone private della libertà personale ha segnalato la presenza di blatte, l’assenza di locali comuni, la luce artificiale anche di notte, i letti senza cuscini, i bagni senza porte o solo con tende.
L’avvocata Angela Bitonti ha difeso molte persone trattenute in questa struttura e ha deciso di non occuparsi più di Cpr per gli ostacoli al proprio lavoro: «È molto faticoso svolgere attività di difesa per chi si trova all’interno di un Cpr – racconta – anche tecnicamente, perché le nomine non arrivano in maniera tempestiva all’avvocato».
Bitonti spiega che i tempi sono brevi, il trattenimento deve essere convalidato entro 48 ore dal giudice di pace e per la legale «occorrerebbe poter interloquire con l’assistito, per capire le sue ragioni e se ci sono motivi che possono rendere illegittimo il trattenimento». Spesso, invece, senza la nomina di un legale di fiducia, dice l’avvocata, «è intervenuto in udienza il difensore d’ufficio, che non essendo informato sulla storia del trattenuto, è chiaro che non potrà assumere una difesa efficace».
In base al regolamento spetta al medico del servizio sanitario nazionale certificare l’idoneità al trattenimento.
Ma spesso la visita viene svolta da un medico convenzionato con l’ente gestore, creando così una potenziale situazione di conflitto di interessi: la società infatti viene pagata dalla prefettura in base al numero di persone che vengono trattenute.
Ed è quello che è accaduto a M.D., un ragazzo senegalese, in condizioni di salute precarie: dopo un incidente che gli aveva provocato un ematoma cerebrale e fratture multiple, faceva fatica a camminare. Nonostante si recasse periodicamente all’ospedale Pertini di Roma per essere visitato, è stato comunque considerato idoneo al trattenimento.
I suoi avvocati sono riusciti ad avere accesso alla cartella clinica solo facendo ricorso d’urgenza alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
Su nove esami medici prescritti ne sono stati svolti solamente due e M.D. ha denunciato che gli venivano dati 12 farmaci al giorno, senza sapere il motivo.
Si trattava di tranquillanti e psicofarmaci, somministrati in assenza di diagnosi o valutazione psichiatrica. M.D. ha descritto il Cpr come «un luogo orribile», dove le persone vengono «trattate come animali», «rinchiusi in una gabbia in mezzo al nulla».
Violazioni di questo tipo sono oggetto di un’inchiesta della Procura di Potenza, aperta nel gennaio 2020 e ancora sotto segreto investigativo, per reati tra cui abuso d’ufficio e maltrattamenti che sarebbero stati commessi all’interno della struttura. Alcuni operatori avrebbero somministrato in modo inappropriato tranquillanti, pesanti sedativi e perpetrato «atti di violenza» sui trattenuti.
La storia di Didiop
Didiop è nato e cresciuto in Nigeria, ma è costretto a scappare quando riceve delle minacce di morte dopo essersi rifiutato di entrare in un gruppo religioso locale.
Per un anno rimane a Bamako, in Mali, poi torna in Nigeria, ad Abuja, ma cerca di evitare casa sua per timore che qualcuno lo stia cercando. Un mese dopo decide di seguire alcuni amici attraverso la rotta subsahariana per cercare fortuna altrove e approda in Libia, dove lavora per due mesi in un autolavaggio, ma più di una volta alcuni miliziani armati lo derubano di tutti i risparmi, vanificando così tutti i suoi sforzi.
Arriva in Italia nell’ottobre del 2015, a 24 anni, e da Lampedusa raggiunge la Basilicata, dove alcuni volontari gli danno da mangiare e un posto dove dormire.
Il permesso di soggiorno gli permette di lavorare in vari ristoranti e persino per una società che produce divani. Poi, l’avvento del Coronavirus cambia le carte in tavola: il permesso scade e la sua situazione lavorativa non gli permette di rinnovarlo.
Viene quindi portato in questura dopo un controllo di routine il 20 dicembre del 2020, cinque giorni prima di Natale, e poi direttamente al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Palazzo San Gervasio.
«Un posto molto difficile», afferma con un sorriso amaro sul volto. Dei quattro mesi passati da recluso ricorda che i trattenuti riuscivano a comunicare con il personale del centro solo urlando, da una parte all’altra delle sbarre. Dormiva su un letto di cemento fissato a terra, che gli provocava dolori ovunque: «Appena entrato pensavo di essere finito in un cimitero, sembrava un loculo».
Quando viene portato nel Cpr, la sua fidanzata, cittadina italiana, è incinta di sette mesi. Mentre è rinchiuso non gli viene permesso né di assistere alla nascita del figlio, John, né di parlare con la compagna, se non per poche telefonate concesse dall’ente gestore.
«A volte mi arrabbiavo, perché era difficile anche convincerli a farmi fare una chiamata. Quando sono uscito e ho visto mio figlio ero così felice», racconta.
Fuori dal Cpr gli è stato consegnato un foglio che gli imponeva di lasciare il Paese in sette giorni. Poi però ha incontrato l’avvocata Bitonti, con cui ha portato avanti la pratica e tutto sembra ora andare per il verso giusto. Per quanto riguarda il futuro, però, Didiop non è del tutto positivo: ha paura che quello che vorrebbe dalla sua vita ora, cioè vivere e lavorare in Italia restando insieme alla fidanzata e a suo figlio, possa non avverarsi.
«Non so che fare», ripete incessantemente.
Il suo permesso di soggiorno è ancora un’incognita. Forse potrebbe essere proprio suo figlio John a permettergli definitivamente di restare qui. «Se fosse stato rimpatriato, questo bambino, cittadino italiano, sarebbe cresciuto senza padre, perché sarebbe stato estremamente difficile per Didiop tornare, viste le espulsioni e le condizioni economiche», dice Bitonti.