Crimini del silenzio: in Rojava e non solo
Articoli di Gianni Tognoni e Hazal Koyuncuer. A seguire due link
Dal popolo dei Rohingya e dalla resistenza del Rojava arriva un forte promemoria di civiltà
di Gianni Tognoni (*)
Tra il 22 e il 24 luglio, nel disinteresse generale, questi popoli hanno vissuto fatti che rappresentano chiavi di lettura per qualsiasi «discorso di civiltà» scrive Gianni Tognoni del Tribunale permanente dei popoli. «Tanto più in una stagione politica globale avviata verso la cancellazione degli ‘umani’ dal mondo dei diritti collettivi».
© Markus Spiske – Unsplash
Forse non è strano né inatteso ma certo è molto grave che in questa estate occupata a tempo pieno da siccità che obbligano a ricordarsi della emergenza climatica, dalle cronache di una guerra sempre più “globale” per i suoi attori e retroscena, al di là dei localismi tragici delle vittime, da una crisi di governo senza orizzonti, i popoli dei Rohingya e del Rojava non facciano parte delle cronache, e tanto meno delle politiche mainstream.
E neppure, in fondo, degli interessi dei “democratici”. Sono troppe le cose di cui ci si dovrebbe lasciar coinvolgere. E loro, questi popoli, sono molto piccoli, non coincidono neppure con Stati, sono spersi in scenari regionali complessi, densi di conflitti e regimi più o meno dittatoriali: i Rohingya sono un popolo-etnia oggetto di genocidio da parte di uno dei regimi militari di più lunga durata, il Myanmar, nel cuore dell’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico, coinvolgendo più direttamente Bangladesh e Cina; il Rojava è una comunità-popolo-regione che ci porta più vicino, tra Siria, Iraq, Turchia.
Proporli come promemoria di interesse fondamentale, al di là della marginalità geopolitica, in questa estate non è tuttavia un esercizio generico: tra il 22 ed il 24 luglio gli eventi che hanno avuto questi popoli come protagonisti rappresentano chiavi di lettura, e domande di fondo, per qualsiasi “discorso di civiltà” che si voglia fare. Tanto più in una stagione politica globale così massicciamente avviata (con le evoluzioni della Nato, delle politiche asiatiche e mediorientali degli Usa, degli squilibri energetici) verso la cancellazione pura e semplice degli “umani” dal mondo dei diritti collettivi.
Il giorno 22 luglio la Corte internazionale di giustizia ha respinto, praticamente all’unanimità (su un solo punto formale la maggioranza dei giudici votanti è stata di 15 a 1) le obiezioni sollevate dallo Stato del Myanmar alla sua incriminazione per genocidio del popolo-etnia dei Rohingya da parte dello Stato del Gambia. La Corte può ora procedere contro lo Stato del Myanmar, anche a prescindere da eventuali veti posti da Cina e Russia a livello del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Si applica infatti alla lettera l’articolo 9 della Convenzione delle Nazioni Unite sul genocidio: per opporsi al rischio di impunità per un delitto tanto grave ogni Stato firmatario può farsi carico di chiedere il giudizio dello Stato ritenuto responsabile.
Come mai uno Stato così “irrilevante” come il Gambia, e così lontano, si è fatto avanti, tra tutti gli Stati firmatari (tutti i “nostri” Stati civili e democratici), pur sostenuto da un gruppo internazionale di giuristi, per farsi rappresentante di un gruppo umano senza nessun rapporto, che non fosse quello di essere “umano”?
L’esistenza documentatissima di una situazione di genocidio contro i Rohingya era stata resa pubblica dalla sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli già nei mesi immediatamente successivi all’evento più drammatico del processo genocidiario, la migrazione forzata di più di 700.000 persone in condizioni che restano per il loro orrore tra le documentazioni giornalistiche e fotografiche più classicamente tragiche di questi anni. Da quel settembre 2017 la realtà del genocidio era divenuta una “evidenza” indiscutibile, oggetto di rapporti sui maggiori quotidiani Usa, inglesi, canadesi (con la eccezione di punti di interesse da parte de il manifesto o questa rivista l’Italia è stata rigorosamente assente sia giornalisticamente sia nella politica nazionale ed europea). È chiaro che se uno qualsiasi dei Paesi internazionalmente rappresentativi (che ora dicono di appoggiare dall’esterno la decisione della Corte) avesse preso l’iniziativa, il percorso di accettazione da parte della Corte sarebbe stato più probabile. E sarebbe sicuramente diverso il lungo cammino di giustizia che sta di fronte. Anni.
Eppure il 22 luglio è “celebrato” in tutti i Paesi come una data storica. È come se si fosse rotto un tabù: si afferma che è possibile dare visibilità ed esistenza di diritto a delle vittime, e dare al diritto, concretamente, una priorità sugli squilibri della politica. La “gravità” della decisione della Corte è stata drammaticamente confermata dalla condanna-esecuzione di quattro leader della opposizione-resistenza in Myanmar: prima decisione di questo tipo dopo decenni, in uno Stato che per altro non ha esitato a reprimere nel modo più brutale i movimenti della opposizione. La protesta internazionale contro questa arroganza ulteriore, di sprezzo, del regime militare è stata unanime. Ma le conseguenze? Rimarranno sulla carta: il Myanmar è una nazione che fa riferimento alla Cina, e le promesse di supporto degli Usa e di Inghilterra, o dell’Unione europea, non andranno al di là delle parole. La “storicità” del 22 luglio però rimane : un Paese che non conta ha detto a voce alta che i “fatti” della storia dei popoli non possono essere lasciati alla interpretazione dei poteri statali esistenti, né dei loro calcoli ed equilibri. È fin troppo chiaro che la domanda posta da Gambia-Rohingya è provocatoria: apertura di un capitolo che era da sempre in attesa, ed interessa tutto l’ordine degli Stati rispetto a quello dei popoli. È una storicità che guarda avanti. Che sfida le dottrine e le convenzioni internazionali, e perciò anche, ovunque, giuristi ed accademici a creare strumenti che permettano ai “casi simbolici” di diventare la regola. E di esplicitare senza mezzi termini che se questo non succede, il futuro sarà ancor più probabilmente solo tempo di violenze senza spiragli di giustizia.
Il 24 luglio, nel decimo anniversario della costituzione del loro Paese libero e democratico, sono state assassinate dalle forze turche, di ritorno da una riunione regionale del Forum for the women revolution Jayan Tolhildan, Ron Xabur, Barin Botan tre delle leader del popolo che nel Rojava rappresenta l’unica, incredibile, creativa resistenza alla guerra e alla violenza complessiva degli Stati-dittature della regione (unica forza anche che ha sconfitto l’Isis, per poi essere abbandonata subito dopo dalle “nostre” democrazie, Stati Uniti in primis).
Nessun eco. La Turchia non si tocca. Non importa quello che faccia al proprio interno. Con i migranti. Giocando a fare da mediatore tra non importa chi. Dentro-fuori la Nato. Abdullah Öcalan, il leader dell’opposizione cui anche il Rojava fa riferimento, è stato “consegnato” alla Turchia dall’Italia. La storicità di questa data – per un assassinio così mirato, allo stesso tempo strategico, simbolico, di sfida per dimostrare che non ci sono limiti all’ipocrisia del non riconoscere una ingiustizia che arriva all’orrore – è quella del “crimine del silenzio”. Che non rientra nelle categorie del diritto penale. Non prevede nessuna corte. I suoi mandatari sono perfettamente noti, così come i protagonisti. Fa parte di quel rischio di degrado di civiltà ricordato sopra e denunciato con la sua iniziativa dal Gambia.
È per quello che si è pensato di unire nel promemoria due popoli così infinitamente diversi. Entrambi candidati a un genocidio che combina l’eliminazione fisica e, goccia a goccia, il soffocamento della loro r-esistenza: con la certezza della impunità.
Per augurare ai Rohingya una giustizia che sia da “scuola” per il diritto internazionale, non in tempi-senza-tempo. Perché la giustizia non sia un giudizio su un passato ma una garanzia di futuro. Perché per le donne del Rojava (che più di non importa quale movimento rappresentano, nel modo più radicale, il diritto al femminile) possa esserci una “rivolta” della società civile per vincere il “crimine del silenzio”, in nome del quale tanti anni fa Jean-Paul Sartre e Bertrand Russell “inventarono” i tribunali dalla parte dei popoli, trasformati da Lelio Basso in un compito-priorità di sempre, perché in una realtà globale dominata da poteri, statali o privati, che considerano gli umani una “variabile dipendente”, c’è sempre bisogno di un tribunale permanente, che riconosca ai popoli, come soggetti e non vittime della storia, almeno la “giustizia” della visibilità e della parola.
Gianni Tognoni, ricercatore in alcuni dei settori più critici della sanità, con progressiva concentrazione sugli aspetti di salute pubblica e di epidemiologia della cittadinanza. È segretario generale del Tribunale permanente dei popoli
(*) ripreso da altreconomia.it
Kwestan Akram: «Contro noi curdi, ieri le bombe di Saddam Hussein oggi quelle di Erdoğan»
di Hazal Koyuncuer (**)
Mentre i raid aerei turchi continuano a mietere vittime nel Kurdistan iracheno, la sindaca di Halabja racconta il massacro con armi chimiche del 1988 in cui morirono oltre 5mila curdi. E adesso? «Gli unici amici che abbiamo sono le nostre montagne che ci proteggono»
Nonostante siano passati 34 anni da quel massacro, il ricordo è ancora molto vivo nel popolo curdo. Per noi il Nord dell’Iraq si chiama Basur, ed è Kurdistan in tutto e per tutto, curda è la sua popolazione, come la lingua parlata. Durante la dittatura sanguinaria e tirannica di Saddam Hussein, era già capitato di subire attacchi ma il 16 marzo 1988, durante la guerra Iraq-Iran, intorno a mezzogiorno, la cittadina di Halabja, 70mila abitanti, nella provincia di Sulaymaniyya, a circa 15 km dal confine con l’Iran, venne improvvisamente avvolta in un velo verde. I bombardieri iracheni di fabbricazione francese invasero il cielo con un attacco mediante armi chimiche illegali.
Il giorno prima i partigiani dell’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani avevano liberato la città. Abituata alle alterne offensive e controffensive nel conflitto Iraq-Iran che devastavano la regione dal settembre del 1980, la popolazione credette sulle prime che si trattasse di una classica operazione di rappresaglia. Un odore nauseante di mele imputridite riempì Halabja. Al calar della notte le incursioni aeree cessarono e cominciò a piovere. Poiché le truppe irachene avevano distrutto la centrale elettrica, gli abitanti partirono alla ricerca dei loro morti nel fango, alla luce delle torce. L’indomani si trovarono di fronte a uno spettacolo spaventoso: strade lastricate di cadaveri, persone sorprese dalla morte chimica nei loro gesti quotidiani: bambini tenuti per mano dal padre, neonati ancora attaccati al seno materno, gli anziani che pensavano di passare una giornata serena e i malati che speravano di guarire. In poche ore si contarono 5mila morti di cui 3.200 vennero tumulati in una fossa comune perché nessuno poté reclamarli.
La città di Halabja vive ancora oggi con i terribili ricordi di quella tragedia, nel suo territorio e in quello circostante non cresce più un filo di erba, le donne che erano state colpite dai gas non riescono avere più i figli e se possono averne, nascono deformi. Ora la speranza di migliaia dei parenti delle vittime di quella tragedia in particolare e del popolo curdo tutto è che, quanto accaduto non debba più ripetersi. Incontriamo l’attuale sindaca di Halabja, Kwestan Akram, durante un tour di incontri e visite in Italia. Femminista, esponente del Partito dell’Unione patriottica, è figlia di quella città martire.
Nel 1988 lei aveva 21 anni e conserva un ricordo di quei giorni molto lucido: «Il giorno prima dell’attacco avevo sentito che i partigiani curdi erano entrati in città, ma gli aerei del regime continuavano a circolare sopra di noi. Avevamo in casa un rifugio sotterraneo. Appena si avvertirono i primi bombardamenti, mia madre lasciò il cibo che cucinava, gridò per chiamare noi figli e ci rifugiammo nel sotterraneo. Il giorno dopo ci fu una calma incredibile, l’unico rumore che sentimmo fu quello del trattore del nostro vicino di casa. Mio padre usci, ci caricò sul rimorchio del trattore e ci avviammo verso l’Iran. Durante il viaggio mio padre ci diceva di tenere gli occhi chiusi ma io non ci riuscivo. In quel momento ho visto i morti per le strade e i feriti. Raggiungemmo poi il confine dell’Iran. Dopo l’amnistia dichiarata dal regime, tornammo in Iraq verso le montagne di Qandil. Provammo ad andare a Sulaymaniyya. Al controllo di un checkpoint i soldati iracheni ci trattarono bene, noi pensavamo che tutto fosse finito. Invece ci fecero salire su una macchina e ci portarono nel grande carcere di Sulaymaniyya dove gli uomini e le donne furono separati. Poco tempo dopo fummo trasferiti nel carcere di Kirkuk dove fummo di nuovo divisi e lì ho conosciuto la fame, i bambini morivano per malnutrizione. Dopo mesi venne dichiarata una nuova amnistia e fummo liberati. Uscì anche quello che sarebbe divenuto mio marito e che era stato condannato all’ergastolo».
Qui il racconto di Kwestan Akram si fa doloroso e intenso: «L’anno successivo ci sposammo. Abbiamo avuto una figlia e un figlio, ma purtroppo mio marito morì per una malattia aggravata dalle torture subite. Oggi sono la sindaca di questa città, e sebbene l’uguaglianza possa essere una realtà lontana per molte donne in Iraq, ad Halabja le donne hanno raggiunto i vertici del governo locale. Un cambio radicale che ha segnato quasi una ripartenza nel Kurdistan iracheno, dove gli affari pubblici sono stati a lungo dominati dal potere di una manciata di uomini. Quando si è donna i sacrifici sono molti di più. Quanto alla città, Halabja sta cercando di riprendersi anche dopo la pandemia mondiale che oggi è sotto controllo, ma le difficoltà sono tante, dalla guerra permanente alla mancanza di budget».
La sindaca è estremamente preoccupata di quanto sta accadendo in questi mesi, a partire dall’attacco turco del 18 aprile: «In questi mesi il governo della repubblica turca attacca il Kurdistan dell’Iraq dove la guerriglia curda sta rappresentando una forte resistenza. Abbiamo avuto un incontro e siamo in dialogo con il sindaco di Qandil, città sotto bombardamenti turchi, abbiamo ricevuto notizie relative a nuovi attacchi con armi chimiche. Nessuno vuole che ci sia un Kurdistan, la Turchia, con la scusante del terrorismo, sta occupando e attaccando il Kurdistan iracheno (è di pochi giorni fa l’attacco aereo turco nell’area turistica di Barakh ndr). Ormai sono sempre più convinta che gli unici amici su cui i curdi possono contare sono le nostre montagne che ci proteggono, e che i curdi devono riuscire ad unire le loro forze». Il suo è un appello accorato all’unità mentre si preparano momenti bui, anche se, pensandoci bene, sono stati ben pochi nella storia curda gli sprazzi di luce: «Sappiamo che le grandi potenze del Medio Oriente sono spietate nei confronti delle altre etnie, che saranno massacrate oppure arabizzate o turchizzate, come accaduto per gli antenati dei loro nemici. Dico e scrivo queste parole mentre una brezza fredda mi avvolge le dita e un destino ignoto mi attende. Vivo attraverso i sogni di una terra libera».
L’autrice: Hazal Koyuncuer è attivista, sindacalista Cub e rappresentante della comunità curda milanese. Nella foto Kwestan Akram (frame dell’ intervista a Radio Mir a cura di Fabio Sebastiani e Lucia Vastano).
(**) ripreso da left.it
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by Antonio Mazzeo (26 luglio)
«Un vino per Rojava»: Zerocalcare disegna l’etichetta per beneficenza.
https://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/bari/cronaca/22_luglio_28/vino-rojavazerocalcare-disegna-l-etichetta-beneficenza-9fcf5218-0e60-11ed-8b11-bed6426d0385.shtml