I crimini di guerra … in tempi di pace
articoli di Tommaso Di Francesco, Antonio Mazzeo, Luca Martinelli, Salvatore Palidda
Draghi risponda ai cinquanta premi Nobel
«La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000. Si avvicina a 2 trilioni di dollari Usa all’anno, ed è in aumento in tutte le regioni del mondo – sostengono i Nobel – i singoli governi sono sotto pressione per aumentare le spese militari perché gli altri lo fanno». È la corsa agli armamenti.
Certo non è la messa in pratica della parola d’ordine del movimento operaio all’inizio del secolo breve, ripresa, tutti ricorderanno, dal presidente Sandro Pertini: «Si svuotino gli arsenali di armi, si riempiano i granai», ma la proposta avanzata ieri con un appello sottoscritto da cinquanta premi Nobel e accademici di ogni paese – tra gli altri da Carlo Rubbia e Giorgio Parisi -, è davvero molto importante. Soprattutto perché probabilmente con la moralità di chi sente necessaria una restituzione di verità – quanta scienza è stata abusata dalla ricerca militare per distruggere invece che per costruire? – si rivolge in modo semplice e diretto ai governi del mondo.
Che cosa dichiara e chiede l’appello? Di negoziare una riduzione equilibrata della spesa militare globale che darebbe l’avvio ad un grande «dividendo globale per la pace», liberando enormi risorse da utilizzare per i gravi problemi dell’umanità: pandemie, riscaldamento globale, povertà estrema. E lo fa subito con una denuncia che fotografa l’attuale condizione del pianeta alle prese con ogni specie di conflitto armato: «La spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000. Si avvicina a 2 trilioni di dollari Usa all’anno, ed è in aumento in tutte le regioni del mondo – sostengono i Nobel – i singoli governi sono sotto pressione per aumentare le spese militari perché gli altri lo fanno». È la corsa agli armamenti.
Un colossale spreco di risorse che potrebbero essere utilizzate molto più saggiamente». È il circolo vizioso di più armi più guerra, più guerra più armi – sempre più sofisticate – dal quale non solo non si esce ma sempre più diventa un mare di sabbie mobili. Per una corsa agli armamenti raddoppiata in 20 anni che ha generato solo conflitti mortali devastanti. La proposta? «I governi di tutti gli Stati membri delle Nazioni Unite negozino una riduzione comune delle loro spese militari del 2% ogni anno, per cinque anni. La logica della proposta è semplice: le nazioni avversarie riducono le spese militari, quindi la sicurezza di ogni paese è aumentata, mentre deterrenza e equilibrio sono preservati.
Proponiamo che metà delle risorse liberate da questo accordo siano destinate a un fondo globale, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, per affrontare i gravi problemi comuni dell’umanità… L’altra metà resti a disposizione dei singoli governi». Insomma, insistono i Nobel: «Collaboriamo, invece di farci guerra». Troppo semplicistico? Mica tanto. Facciamo pure noi i nostri conti in tasca. In Italia 26 miliardi di euro son spesi annualmente dal ministero della Difesa, equivalenti a una media di oltre 70 milioni di euro al giorno – a fronte dei peggiori salari del Continente, delle spese sanitarie mancanti e dell’accanimento sul reddito di cittadinanza.
A questi si aggiunge per i prossimi anni un fondo di 30 miliardi di euro stanziati a fini militari dal Ministero dello Sviluppo economico e di altri 25 richiesti dal Recovery Fund. Nei prossimi anni, come richiesto dalla Nato e ribadito dagli Usa, occorre passare ad almeno 36 miliardi di euro annui, equivalenti a una media di circa 100 milioni di euro al giorno. Nel mondo ogni minuto si spendono circa 4 milioni di dollari a scopo militare. Nel 2020 la spesa militare mondiale ha quasi raggiunto i 2.000 miliardi di dollari, il più alto livello dal 1988 al netto dell’inflazione.
La spesa militare mondiale è trainata da quella statunitense, salita a circa 770 miliardi di dollari annui (stime del Sipri, 3 volte la spesa militare della Cina e 12 volte quella della Russia). La cifra rappresenta il budget del Pentagono, comprensivo di operazioni belliche. E con altre voci di carattere militare siamo al totale di oltre 1.000 miliardi annui.
Qualcuno subito dirà dell’ingenuità dell’appello dei premi Nobel: il 2% alla fine comunque legittimerebbe che l’altro 98% venga comunque utilizzato per la guerra. Ma attenzione, questo risparmio che, fatti i conti su 2 trilioni di dollari, vorrebbe dire mille miliardi di lire stornati per la pace e le necessità vitali dell’umanità, non corre alcun il rischio – vorremmo essere smentiti – di essere approvato da nessun governo del mondo impegnato a chiacchiere nella «transizione ecologica» con gli arsenali pieni di armi, anche atomiche.
Giacché tutti sono attivi nella corsa al riarmo, perfino con il ricatto dell’occupazione – che pesa anche sul sindacato , perché un vero discorso sulla riconversione dell’industria bellica non è mai diventato pratica diffusa. Tutti, a partire dal governo Draghi che più volte ha annunciato un «riarmo» mentre avvia i traffici più oscuri di vendita di armamenti a regimi corrotti e dittatoriali, se non addirittura in guerra o che occupano altri Paesi.
Un governo Draghi impegnato con Macron e altri leader europei – pensate agli «ecologici» droni armati che suggellano il patto di governo verdi-socialdemocratici in Germania – non a ridurre la spesa per le armi ma «semplicemente» a raddoppiarla con la cosiddetta Difesa europea. Intesa non come alternativa alle spese gravose per l’Alleanza atlantica, ma come aggiunta doppia, come rinforzo della Nato che resta centrale – anche nell’attivare nuove crisi e guerre dopo quelle disastrose che l’hanno vista protagonista. Porga l’ascolto e risponda dunque Draghi all’appello dei 50 accademici e premi Nobel.
(*) sul quotidiano «il manifesto» del 15 dicembre
2. Peter Agre (Nobel per la chimica)
3. David Baltimore (Nobel per la medicina)
4. Barry C. Barish (Nobel per la fisica)
5. Steven Chu (Nobel per la fisica)
6. Robert F. Curl Jr. (Nobel per la chimica)
7. Johann Deisenhofer (Nobel per la chimica)
8. Jacques Dubochet (Nobel per la chimica)
9. Gerhard Ertl (Nobel per la chimica)
10. Joachim Frank (Nobel per la chimica)
11. Sir Andre K. Geim (Nobel per la fisica)
12. Sheldon L. Glashow (Nobel per la fisica)
13. Carol Greider (Nobel per la medicina)
14. Harald zur Hausen (Nobel per la medicina)
15. Dudley R. Herschbach (Nobel per la chimica)
16. Avram Hershko (Nobel per la chimica)
17. Roald Hoffmann (Nobel per la chimica)
18. Robert Huber (Nobel per la chimica)
19. Louis J. Ignarro (Nobel per la medicina)
20. Brian Josephson (Nobel per la fisica)
21. Takaaki Kajita (Nobel per la fisica)
22. Tawakkol Karman (Nobel per la pace)
23. Brian K. Kobilka (Nobel per la chimica)
24. Roger D. Kornberg (Nobel per la chimica)
25. Yuan T. Lee (Nobel per la chimica)
26. John C. Mather (Nobel per la fisica)
27. Eric S. Maskin (Nobel per l’economia)
28. May-Britt Moser (Nobel per la medicina)
29. Edvard I. Moser (Nobel per la medicina)
30. Erwin Neher (Nobel per la medicina)
31. Sir Paul Nurse (Nobel per la medicina e presidente emerito della Royal Society)
32. Giorgio Parisi (Nobel per la fisica)
33. Jim Peebles (Nobel per la fisica)
34. Sir Roger Penrose (Nobel per la fisica)
35. Edmund S. Phelps (Nobel per l’economia)
36. John C. Polanyi (Nobel per la chimica)
37. H. David Politzer (Nobel per la fisica)
38. Sir Venki Ramakrishnan (Nobel per la chimica e presidente emerito della Royal Society)
39. Sir Peter Ratcliffe (Nobel per la medicina)
40. Sir Richard J. Roberts (Nobel per la medicina)
41. Michael Rosbash (Nobel per la medicina)
42. Carlo Rubbia (Nobel per la fisica)
43. Randy W. Schekman (Nobel per la medicina)
44. Gregg Semenza (Nobel per la medicina)
45. Robert J. Shiller (Nobel per l’economia)
46. Stephen Smale (Medaglia Fields per la matematica)
47. Sir Fraser Stoddart (Nobel per la chimica)
48. Horst L. Stoermer (Nobel per la fisica)
49. Thomas C. Suedhof (Nobel per la medicina)
50. Jack W. Szostak (Nobel per la medicina)
51. Olga Tokarczuk (Nobel per la letteratura)
52. Srinivasa S. R. Varadhan (Premio Abel per la matematica)
53. Sir John E. Walker (Nobel per la chimica)
54. Torsten Wiesel (Nobel per la medicina)
55. Roberto Antonelli (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)
56. Patrick Flandrin (Presidente dell’Academie des Sciences, Francia)
57. Mohamed H.A. Hassan (Presidente della World Academy of Sciences)
58. Annibale Mottana (Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei)
59. Anton Zeilinger (Presidente dell’Academy of Sciences, Austria)
60. Carlo Rovelli and Matteo Smerlak, organizzatori.
“Non vendete armi ai sauditi” … ma Leonardo continua i suoi affari di morte, mentre Renzi e Minniti guidano il drappello degli amici del regno
di Antonio Mazzeo (*)
Governi, ONG e giuristi internazionali invocano l’embargo sui trasferimenti di sistemi d’arma alle forze armate saudite per i crimini di guerra compiuti in Yemen. E allora cosa fa il gruppo italiano leader nella produzione di caccia, elicotteri, missili e cannoni? Invia la propria ultima invenzione a Riyad per rafforzare i legami culturali, tecnologici, scientifici e accademici con l’onnipotente famiglia dei sovrani d’Arabia.
A fine novembre una folta delegazione della Fondazione Med-Or, istituzione creata la scorsa primavera dall’holding Leonardo S.p.A. per “promuovere gli scambi e i rapporti internazionali tra l’Italia e i Paesi dell’area del Mediterraneo allargato fino al Sahel, Corno d’Africa e Mar Rosso (Med) e del Medio ed Estremo Oriente (Or)”, si è recata in visita ufficiale in Arabia Saudita per incontrare ministri e rappresentanti di enti statali.
A guidare la pattuglia della fondazione “volto buono” della maggiore industria bellica italiana, il suo presidente, l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti. Momento clou il vertice con il ministro dell’Educazione del Regno, Hamad bin Mohammed Al Al-Sheikh, laurea e master in Economia alla Stanford University, California.
“Nel corso dell’incontro tra il ministro Al Al-Sheikh e la delegazione italiana, le due parti sono andate oltre la partnership tra le università saudite e il centro (Med-Or) in vista di un rafforzamento dei campi scientifici e di ricerca e delle rispettive opportunità di formazione e trasferimento internazionale di esperienze e sperimentazioni, oltre al rafforzamento delle borse di studio che il centro offre agli studenti di talento dell’Arabia Saudita per poter svolgere i master in Italia”, riporta la nota del Ministero dell’Educazione di Riyad.
Integrazione fra industria e ricerca
“Nel corso del meeting è stata anche discussa la possibilità di stabilire un istituto di studi arabi presso la Fondazione Med-Or, il primo di questo tipo in Italia dove esiste l’interesse a lanciare differenti iniziative di formazione e ricerca culturale e scientifica.
L’istituto potrebbe rappresentare un’entità nuova e unica e un ponte per idee, programmi e progetti che prosperino in cooperazione con le istituzioni accademiche, oltre a diventare una stazione per favorire la completa integrazione tra le industrie e i centri di ricerca”.
Obiettivi ambiziosi e complessi, maturati non certo in ambito politico-diplomatico e istituzionale tra Italia e Arabia Saudita, ma nell’alveo delle consolidate relazioni di affari tra il petroregime e il management di Leonardo e delle società di sistemi e tecnologie militari controllate.
Con tanto di tessitura dell’ex ministro della guerra ai migranti e alle migrazioni e la benedizione – a distanza – di noti accademici italiani.
Promozione sociale o vendita di morte?
Poco più di un mese fa a recarsi a Ryiad era stato l’amministratore delegato di Leonardo, nonché presidente onorario di AIAD, la Federazione delle aziende italiane del settore aerospaziale e militare, Alessandro Profumo. L’uomo che guida l’holding armiera, pure membro del comitato strategico della Fondazione Med-Or, ha partecipato come relatore al forum internazionale Invest in Humanity promosso dal Future Investment Initiative Institute, fondazione no profit di “promozione sociale” voluta dal principe Mohammad bin Salman al Saud, membro della famiglia reale e ministro della Difesa d’Arabia, e nel cui board fa bella mostra di sé l’ex primo ministro Matteo Renzi.
E proprio con Renzi l’on. Marco Minniti ha ricoperto l’incarico di sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega alla Sicurezza della Repubblica.
Occasione imperdibile, quella del forum per investire nell’umanità, per i vertici di Leonardo & C.. Dopo le miliardarie commesse dello scorso decennio (la fornitura all’Aeronautica militare saudita di 72 cacciabombardieri Eurofighter Typhoon prodotti dall’industria italiana e dai gruppi aerospaziali europei Eads e Bae Systems), in tempi più recenti Leonardo ha venduto all’Arabia Saudita sistemi avanzati elettro-ottici e per il controllo del traffico aereo fissi e trasportabili; sistemi di comunicazione e centri di controllo; velivoli a pilotaggio remoto; elicotteri da trasporto. E in dirittura d’arrivo, secondo alcuni analisti internazionali, ci sarebbero adesso i trasferimenti ai sauditi di elicotteri pesanti, sistemi missilistici (attraverso la partecipata MDBA), nuovi droni, convertiplani e caccia-addestratori.
Collaborazioni in campo militare
Con occhi più attenti, quello a cui punta la nuova creatura “culturale-scientifica” di Leonardo è di replicare in Italia un modello consolidato e di successo made in Israele: l’elaborazione e la condivisione di visioni strategiche e industriali-produttive da parte di attori politici, apparati militari e d’intelligence, industrie belliche, centri di ricerca scientifica e università, ovviamente in totale autonomia rispetto alle tradizionali sedi di decisione istituzionale.
“Leonardo Med-Or è nata per unire competenze e capacità dell’industria con il mondo accademico per lo sviluppo del partenariato geo-economico e socio-culturale”, si legge nello statuto della fondazione di Minniti e Profumo. Tra le attività in cantiere, oltre alle collaborazioni con alcuni paesi chiave in campo militare-industriale-accademico (vedi già Arabia Saudita e Marocco), Med-Or punta alla promozione di “programmi e formazione nei settori della safety e della security, dell’aerospazio e della difesa”, grazie soprattutto a “partenariati con le istituzioni accademiche e di ricerca nazionali”.
Un comitato scientifico con grandi nomi
E non è certo un caso che pochi giorni dopo il vertice a Riyad con il ministro dell’Istruzione Hamad bin Mohammed Al Al-Sheikh, il 2 dicembre si è tenuta a Roma la riunione di insediamento del Comitato Scientifico della Fondazione Med-Or, presenti anche i componenti del Consiglio di amministrazione (Marco Minniti; l’ex direttore della Polizia criminale Enrico Savio; i dirigenti di Leonardo S.p.A. Alessandra Genco, Simonetta Iarlori e Filippo Maria Grasso; l’amministratore delegato della società di engineering saudita Arkad, Paolo Bigi; i docenti universitari Francesca Maria Corrao, Egidio Ivetic e Germano Dottori; lo scrittore siciliano Pietrangelo Buttafuoco; l’avvocato Alessandro Ruben, parlamentare del Popolo della Libertà dal 2008 al 2013).
I componenti del Comitato Scientifico della Fondazione di Leonardo sono rettori, docenti e ricercatori delle maggiori università italiane. Un vero peccato che un gruppo di fini intellettuali dalle alte qualità, si cimenti con affari che fomentano le guerre. In ordine alfabetico compaiono i nomi di: Franco Anelli (rettore della Cattolica del Sacro Cuore di Milano); Gabriella Arrigo (direttrice affari internazionali dell’Agenzia Spaziale Italiana); Giorgio Barba Navaretti (ordinario di Economia politica all’Università di Milano); Giovanni Betta (già rettore dell’Università di Cassino e del Lazio Meridionale); Francesco Bonini (rettore della LUMSA di Roma); Stefano Bronzini (rettore a Bari); Raffaele Calabrò (rettore del Campus Bio-Medico di Roma); Lucio Caracciolo (direttore di Limes); Carlogiovanni Cereti (ordinario di Filologia); Francesco Cupertino (rettore del Politecnico di Bari); Melina Decaro (ordinaria di Diritto pubblico alla LUISS di Roma).
E poi ancora: Flavio Deflorian (rettore a Trento); Ersilia Francesca (associata di Storia dei Paesi islamici presso l’Orientale di Napoli); Vincenzo Loia (rettore a Salerno); Matteo Lorito (rettore della Federico II di Napoli); Alberto Lucarelli (ordinario di Diritto costituzionale alla Federico II); Paolo Mancarella (rettore a Pisa); Raffaele Marchetti (prorettore della LUISS); Alessia Melcangi (ricercatrice di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma); Karim Meznan (professore di Studi mediorientali alla John Hopkins University); Antonello Miranda (ordinario di Diritto privato); Leopoldo Nuti (ordinario di Storia delle Relazioni Internazionali a Roma Tre); Maurizio Oliviero (rettore a Perugia); Paolo Passaglia (ordinario di Diritto pubblico a Pisa); Alessandra Petrucci (rettrice a Firenze); Luca Pietromarchi (rettore a Roma Tre); Antonella Polimeni (rettrice della Sapienza); Andrea Principe (rettore della LUISS); Riccardo Redaelli (ordinario di Geopolitica alla Cattolica).
L’interminabile lista si chiude con: Ferruccio Resta (rettore del Politecnico di Milano); Flaminia Saccà (ordinaria di Sociologia dei fenomeni politici dell’Università della Tuscia); Ciro Sbailò (preside di Scienze politiche presso l’Università degli Studi Internazionali di Roma); Giancarlo Scalese (ordinario di Diritto internazionale a Cassino); Roberto Tottoli (rettore dell’Orientale di Napoli); Francesco Ubertini (ordinario di Scienza delle Costruzioni ed ex rettore a Bologna); Arturo Varvelli (direttore dell’Ufficio di Roma dell’European Council on Foreign Relations); Arianna Vedaschi (ordinaria di Diritto pubblico alla Bocconi di Milano); Lorenzo Vidino (direttore del Programma sull’estremismo della George Washington University); Ida Zilio Grandi (associata di Lingua e letteratura araba all’università Ca’ Foscari di Venezia); Santo Marcello Zimbone (rettore della Mediterranea di Reggio Calabria).
Così il cuore dell’accademia italiana potrà essere ancora più armato.
(*) Link all’articolo originale: https://www.africa-express.info/2021/12/05/crimini-di-guerra-non-vendete-armi-ai-sauditi-ma-leonardo-continua-i-suoi-affari-di-morte
Gli affari militari dei dominanti vanno a gonfie vele
di Salvatore Palidda
Dal 2000 ad oggi, la spesa per le armi a livello globale è raddoppiata, arrivando a sfiorare i duemila miliardi di dollari all’anno.
Come dicono centinaia di sienziati, storici ed esperti: «In passato, la corsa agli armamenti ha spesso condotto allo scoppio di guerre devastanti» (vedi Appello dei premi nobel e accademici ai governi: “tutti gli stati membri delle nazioni unite si impegnino ad avviare una riduzione della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni” : https://www.corriere.it/esteri/21_dicembre_14/nobel-appello-premi-97f76972-5c45-11ec-bffd-a5b591fe54d1.shtml)
Le vendite di armi continuano a crescere anche in piena pandemia. Il 2020 è stato il sesto anno consecutivo di aumento delle vendite di armamenti.
Secondo l’ultimo rapporto SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute di Stoccolma) reso noto il 6 dicembre 2021 le vendite di armi e servizi militari delle 100 maggiori aziende del settore ammontano a 531 miliardi di dollari nel 2020, con un incremento dell’1,3% in termini reali rispetto all’anno precedente.
Nel 2020, le vendite di armi delle prime 100 aziende di armi sono superiori del 17% rispetto al 2015, il primo anno in cui il SIPRI ha incluso i dati sulle aziende cinesi. L’industria delle armi resiste alla pandemia di Covid-19 e alla recessione economica (3,1% di calo nel primo anno della pandemia).
«I giganti del settore sono stati ampiamente protetti dalla domanda pubblica sostenuta di beni e servizi militari» (Alexandra Marksteiner, ricercatrice nel programma Spese militari e produzione di armi presso il SIPRI). «In gran parte del mondo, le spese militari sono aumentate e alcuni governi hanno persino accelerato i pagamenti all’industria degli armamenti per limitare l’impatto della crisi del Covid-19».
Le aziende statunitensi continuano a dominare la classifica
Gli Stati Uniti hanno ancora il maggior numero di aziende nella Top 100. Le vendite combinate di armi di 41 aziende americane ammontano a 285 miliardi di dollari nel 2020 – un aumento dell’1,9% rispetto al 2019 – e rappresentano il 54% del totale delle Top 100 delle vendite. A partire dal 2018, le prime cinque maggiori aziende nella classifica hanno tutte sede negli Stati Uniti.
Il SIPRI non precisa che gli USA e tutti i suoi alleati (innanzitutto paesi NATO ma anche Giappone e Israele) coprono più dell’80% del mercato mondiale degli armamenti.
Aziende cinesi, seconda quota nella Top 100 delle vendite di armi
Le vendite combinate di armi delle prime cinque aziende cinesi sono di circa 66,8 miliardi di dollari nel 2020, l’1,5% in più rispetto al 2019. Le aziende cinesi rappresentano il 13% del totale, cioè le vendite di armi che nel 2020 si sono piazzate subito dopo le aziende statunitensi e davanti a quelle del Regno Unito nella TOP 100.
«Negli ultimi anni, le compagnie di armi cinesi hanno beneficiato dei programmi di modernizzazione militare del Paese e si sono concentrate sulla fusione civile-militare» ha affermato il dottor Nan Tian, ricercatore presso il SIPRI. «Sono diventati fra i produttori di tecnologia militare più avanzati al mondo. NORINCO, ad esempio, ha co-sviluppato il sistema di navigazione satellitare militare-civile BeiDou e ha intensificato le sue attività nelle nuove tecnologie».
Risultati contrastanti fra le compagnie di armamenti europee
Le 26 compagnie europee di armamenti nella Top 100 rappresentano il 21% delle vendite totali di armi, ovvero 109 miliardi di dollari. Le sette società britanniche riportano un totale di $ 37,5 miliardi di vendite di armi nel 2020, in crescita del 6,2% rispetto al 2019. Le vendite di armi di BAE Systems – l’unica azienda europea nella Top 10 – sono aumentate del 6,6% a $ 24 miliardi.
«I ricavi delle vendite di armi delle sei società francesi nella Top 100 sono diminuiti del 7,7%».
«Questo calo significativo è in gran parte dovuto a una forte diminuzione anno su anno del numero di consegne di aerei da combattimento Rafale da parte di Dassault. Le vendite di armi di Safran sono aumentate, trainate dall’aumento delle vendite di sistemi di navigazione e puntamento».
Le vendite di armi delle quattro aziende tedesche nella Top 100 hanno raggiunto $ 8,9 miliardi nel 2020, con un aumento dell’1,3% rispetto al 2019. Queste aziende rappresentano l’1,7% delle vendite totali di armi Top 100. Rheinmetall, il più grande produttore di armi della Germania, ha registrato un Aumento delle vendite del 5,2%. Il costruttore navale ThyssenKrupp, invece, ha registrato un calo del 3,7%.
Le vendite di armi russe calano per il terzo anno consecutivo
Le vendite combinate di armi delle nove società russe classificate nella Top 100 sono scese da 28,2 miliardi di dollari nel 2019 a 26,4 miliardi di dollari nel 2020, con un calo del 6,5%. Ciò segna la continuazione della tendenza al ribasso osservata dal 2017, quando i ricavi dalla vendita di armi di queste nove prime 100 società russe hanno raggiunto il picco. Le aziende russe rappresentano il 5% delle vendite totali di armi nella Top 100. Alcuni dei maggiori cali nella Top 100 sono registrati dalle società russe. Ciò coincide con la fine del Piano statale degli armamenti 2011-2020 e i ritardi nei tempi di consegna dovuti alla pandemia. Almaz-Antey e United Shipbuilding Corporation hanno visto diminuire le loro vendite di armi rispettivamente del 31% e dell’11%. Al contrario, United Aircraft Corporation ha aumentato le vendite di armi del 16%. L’altro elemento essenziale dell’industria bellica russa è la diversificazione delle linee di prodotto. Le aziende russe stanno attualmente attuando una politica del governo per aumentare la proporzione delle vendite civili al 30% delle loro vendite totali entro il 2025 e al 50% entro il 2030.
Altri importanti sviluppi nella Top 100
• Le vendite aggregate di armi delle prime 100 società con sede al di fuori di Stati Uniti, Cina, Russia ed Europa ammontano a 43,1 miliardi di dollari nel 2020, con un aumento del 3,4% dal 2019.
• Le vendite di armi delle tre prime 100 società israeliane ammontano a 10,4 miliardi di dollari, ovvero il 2,0% del totale.
• Le vendite aggregate di armi delle cinque società giapponesi in classifica ammontano a 9,9 miliardi di dollari nel 2020, ovvero l’1,9% del totale.
• Nella classifica sono state incluse quattro società sudcoreane. Le loro vendite combinate di armi ammontano a $ 6,5 miliardi nel 2020, con un aumento annuo del 4,6%.
• Le vendite combinate di armi delle tre aziende indiane Top 100 sono aumentate dell’1,7%. Nel 2020, il governo indiano ha annunciato un divieto graduale all’importazione di alcuni tipi di equipaggiamento militare al fine di rafforzare l’autosufficienza nella produzione di armi.
Sarebbe ora di rilanciare una nuova mobilitazione nazionale contro la corsa agli armamenti anche in Italia. Il governo Draghi ha appena firmato un trattato franco-italiano tutto improntato allo spirito neoliberista in tutti i campi e allo spirito militare-poliziesco e neocoloniale (vedi http://effimera.org/san-giorgio-e-il-draghi-adda-veni-san-giorgio-di-gianni-giovannelli/). Il ministro della Difesa (cioé della guerra) Guerini è diventato il più asservito agli USA di tutto il dopoguerra. Con Draghi e Cingolani e tale ministro della Difesa si approda al trionfo della lobby militaro-poliziesca e neocoloniale, ben sostenuta anche dall’ex ministro Minniti ora presidente della Fondazione Med-Or di Leonardo. Tutte le missioni militari italiane sono in realtà destinate a proteggere le imprese private italiane all’estero e in primo luogo l’ENI (vedi https://www.labottegadelbarbieri.org/italia-armata-missioni-e-dividendi/). A questo si aggiunge la decisa scelta dell’energia nucleare da parte di Draghi e Cingolani (è meglio chiamarlo CingolENI) come pare dalla maggioranza del Parlamento a sprezzo dei due referendum con i quali la stragrande maggioranza degli elettori ha vietato una tale scelta.
Ma si sa, mister Draghi governa con il “pilota automatico” del suo inflessibile dispotismo dalle apparenze soft. Intanto la maggioranza dei lavoratori guadagna sempre meno, i nuovi poveri aumentano, i rischi sanitari, economici e ambientali si aggravano. Ma le polizie riempiono le carceri di tossicodipenednti, persone affette da disagio psichico, marginali, poveri e immigrati tutti spesso lasciati morire o istigati al suicidio.
Informazioni sul database dell’industria degli armamenti SIPRI
Il database dell’industria delle armi SIPRI è stato istituito nel 1989. La versione attuale contiene dati dal 2002. Nel comunicato stampa citato le società russe sono trattate separatamente da quelle europee. Cinque società cinesi sono state incluse nel database a partire dal 2015. Altre società cinesi potrebbero avere vendite di armi abbastanza alte da entrare nella Top 100, ma non ci sono dati sufficienti per includerle oggettivamente nella classifica.
Le “vendite di armi” sono definite come entrate derivanti dalla vendita di beni e servizi militari a clienti militari, sia nazionali che esteri. Salvo diversa indicazione, tutte le variazioni dei valori sono espresse in termini reali e tutte le cifre sono fornite in dollari statunitensi costanti (2020). I confronti tra il 2019 e il 2020 si basano sull’elenco delle società classificate nel 2020 (ovvero il confronto annuale è fra lo stesso insieme di società). I confronti a più lungo termine si basano su insiemi di società quotate nel rispettivo anno (cioè il confronto è su diversi elenchi di società).
Il database dell’industria degli armamenti SIPRI, che presenta un set di dati più dettagliato per gli anni dal 2002 al 2020, è disponibile sul sito Web: https://www.sipri.org/databases/armsindustry
Il SIPRI è un istituto di ricerca internazionale indipendente sui conflitti, gli armamenti e il loro controllo e il disarmo. Fondata nel 1966, SIPRI fornisce dati, analisi e raccomandazioni basati su fonti aperte a decisori politici, ricercatori, media ea qualsiasi pubblico interessato. SIPRI è regolarmente classificato fra i think tank più rinomati al mondo. www.sipri.org
Missioni militari? «Servono a difendere l’industria del petrolio»
La denuncia in un rapporto europeo curato da Greenpeace. Il 64 per cento della spesa italiana destinato alla protezione di fonti fossili
di Luca Martinelli (*)
Le missioni militari italiane, e anche quelle di altri Paesi europei, servono a proteggere gli interessi dell’industria del petrolio e del gas. Le risorse della difesa, quindi, finiscono per aggravare la crisi climatica. È la sintesi brutale del rapporto europeo «The sirens of oil and gas in the age of climate crisis», curato da Greenpeace Italia.
Per quanto riguarda il nostro Paese, il 64 per cento della spesa italiana per le missioni militari è destinato a operazioni collegate alla difesa di fonti fossili, per un totale di quasi 800 milioni di euro spesi nel solo 2021 e ben 2,4 miliardi di euro negli ultimi quattro anni. In particolare, sono due le missioni militari – l’operazione Gabinia nel Golfo di Guinea e l’operazione Mare Sicuro al largo della costa libica – che hanno come primo compito la «sorveglianza e protezione delle piattaforme di Eni ubicate nelle acque internazionali». Il virgolettato è tratto dall’ultima relazione sullo stato della spesa, sull’efficacia nell’allocazione delle risorse e sul grado di efficienza dell’azione amministrativa svolta dal ministero della Difesa. È il ministro Lorenzo Guerini, insomma, a collegare molte missioni militari alla tutela di fonti fossili.
Oltre alla Libia ci sono anche quelle in Iraq (il cui crollo «metterebbe a repentaglio la nostra sicurezza energetica», secondo le parole usate dal ministro) e quelle nel Mediterraneo orientale (dove è necessaria «una nostra presenza più regolare» dato che «la possibilità di sfruttamento delle risorse energetiche è fortemente condizionata dal contenzioso marittimo in corso»). Anche le operazioni militari in zone strategiche per le nostre importazioni di petrolio e gas, come il Golfo di Aden e lo Stretto di Hormuz, hanno la finalità di proteggere la «sicurezza energetica» del Paese. Nei prossimi mesi, inoltre, l’Italia dovrebbe aderire anche alla missione Ue nella provincia di Cabo Delgado (Mozambico), dove secondo il ministro gli scontri stanno causando «interruzioni dell’attività estrattiva».
Il rapporto di Greenpeace Italia ha analizzato anche le missioni militari di Nato, Unione europea, Spagna e Germania, stimando che circa due terzi delle operazioni militari dell’Ue servono a tutelare attività di ricerca, estrazione e importazione di gas e petrolio. Negli ultimi quattro anni, i tre Paesi oggetto dell’indagine (Italia, Spagna e Germania) hanno speso più di 4 miliardi di euro per la protezione militare degli interessi petroliferi e gasiferi. Per l’organizzazione ambientalista si tratta di un vero paradosso, considerando che oggi la più grave minaccia per l’umanità è rappresentata dal riscaldamento del Pianeta: anziché sprecare risorse per difendere gli interessi dell’industria del gas e del petrolio, si dovrebbero proteggere le persone dagli impatti della crisi climatica alimentata proprio dallo sfruttamento delle fonti fossili.
Il Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici ha stimato per l’Italia «un aumento della probabilità del rischio meteorologico estremo di circa il 9%» negli ultimi 20 anni (1999-2018). In occasione della COP26 di Glasgow, il governo italiano ha anche firmato la «Dichiarazione sul sostegno pubblico internazionale per la transizione all’energia pulita», che impegnerebbe il Paese a porre fine a nuovi sostegni pubblici diretti al settore energetico internazionale delle fonti fossili non abbattute entro la fine del 2022. Greenpeace Italia chiede perciò al governo Draghi lo stop immediato alla protezione militare delle fonti fossili, il cui impatto devastante sulla crisi climatica è da tempo assodato scientificamente.
«La sicurezza energetica di cittadine e cittadini si tutela investendo in fonti rinnovabili, non facendo gli interessi delle compagnie dei combustibili fossili con missioni militari all’estero», commenta Chiara Campione, portavoce di Greenpeace Italia.
Il rapporto dice in fondo una cosa semplice e cioè che archiviando petrolio e gas e investendo sulle energie rinnovabili, «avremmo un triplice effetto positivo»: a una riduzione del rischio di scontri militari si accompagnerebbe anche un intervento per il miglioramento delle condizioni climatiche e un risparmio di risorse economiche che potrebbero essere destinate a misure urgenti, come una transizione ecologica più giusta, e un miglioramento delle strutture del welfare europeo. «E terremo fede – conclude Greenpeace – alla promessa di un continente, l’Europa, che si propone come elemento di pace, stabilità e cooperazione internazionale».
(*) ripreso dal quotidiano «il manifesto» del 10 dicembre
LE IMMAGINI SONO SCELTE DALLA “BOTTEGA”: LE VIGNETTE SONO DI MAURO BIANI
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