Critica della Ragion Magica
Un articolo di Riccardo Dal Ferro
Due cose mi stupiscono.
Il cielo stellato sopra di me e l’antropomorfismo della fantasia. E di questi due, solo uno è infinito. Perché quindi parlare della filosofia nella saga di Harry Potter? Perché questa storia, divisa nei sette proverbiali volumi scritti dalla multimiliardaria (ma forse non abbastanza) J.K. Rowling, rappresenta l’ultimo baluardo di un’immaginazione umana troppo umana.
Il secolo scorso ha visto lo sviluppo di una letteratura del post-umano il cui obiettivo era quello di far superare all’immaginazione i paletti della ragione umana. Sentirsi parte di un universo più ampio significava per questi autori decostruire il dedalo dell’idea stessa di umanità, con i suoi presupposti mistici e culturali. Questa letteratura, il cui padre è probabilmente Lovecraft, ha sancito, paradossalmente attraverso un’operazione di distacco, la ritrovata unione tra l’uomo e il cosmo, tra il corpo e la mente, tra il Sé e l’Altro. “Solaris” di Stanislaw Lem (e dello stesso autore, ancora di più, “La Voce del Padrone“), “La mostra delle atrocità” di Ballard, “Pasto Nudo” di Burroughs, sono parte integrante di una letteratura che ricompone l’infranto che è lo spettro dell’immaginazione.
Fino a loro, la letteratura poneva una teleologia alla fantasia: raccontare l’uomo, raccontarne la centralità nel cosmo, raccontare la sua irriducibilità. Solo pochi, come Swift con il suo “I viaggi di Gulliver” e Shelley con “Frankenstein“, hanno veramente “pensato” il post-umano, ricomponendo la frattura moderna tra la mente e ciò che essa immagina.
Harry Potter è l’ultimo baluardo che la letteratura erige contro la post-umanizzazione dell’immaginazione. La magia viene ricondotta a una dimensione ragionevole, umana e istituzionale che non ha eguali nella produzione artistica degli ultimi due secoli. Il dualismo tra i Babbani e i maghi, la scolarizzazione della stregoneria, la suddivisione e predestinazione dei diversi fenotipi magici, la valutazione di un genotipo mistico: tutto questo è un tentativo reazionario di riportare all’umanità ciò che non lo è. Voldemort, figura immaginificata di un’eugenetica magica; Silente, con la sua maieutica dell’incantesimo; Harry Potter, gettato nel destino insieme ai suoi amici, vittime di una predestinazione tutta umana, tutta telologica e feticista (legata infatti a oggetti e non a trascendenza); tutto questo è il tentativo di ri-umanizzare l’immaginazione, riportandola a un territorio, anzi a un quartiere, nel quale ogni cosa, anche la più caotica e insensata, porta il marchio di “umanità” come nemmeno la più democristiana tra le manifestazioni sociali.
Insomma, Harry Potter rappresenta in questo senso un vero e proprio capolavoro, se con “capolavoro” intendiamo l’apice di una tendenza artistica e letteraria: è l’anti-Lovecraft per eccellenza, la sottomissione dell’Altro all’io penso kantiano, all’imperativo categorico, al dualismo platonico, al cogito cartesiano. Si tratta di un capolavoro al tempo stesso sconfitto in quanto la sua missione fallisce ogniqualvolta ci accorgiamo della potenza insita nel post-umano. In fin dei conti, Harry Potter è una saga perfetta per vedere come la letteratura può reagire ai cambiamenti di un’epoca.
Harry Potter, buon compleanno. Sei l’ultimo umano tra i maghi, l’ultimo mago tra gli uomini. Ma pur sempre umano, troppo umano.