CRONACA MINIMA DA UN VENTENNIO: 3/ FEBBRAIO 1923-APRILE 1923
Questa rubrica intende proporre una serie di articoli che il Popolo d’Italia ha pubblicato durante il Ventennio. Notizie minori relegate nelle pagine interne, senza commenti perché per tono e per linguaggio sono notizie che si commentano da sé. Un viaggio nella cronaca quotidiana del fascismo.*
a cura di Massimo Lunardelli
7 febbraio 1923 – pagina 4
L’Ufficio stampa del Comando generale della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale comunica: “Ad evitare incresciosi equivoci ed incidenti si fa noto a tutti gli appartenenti alla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale che fra il Comando generale di questa e il Ministero della Guerra saranno stabilite le necessarie norme circa la reciprocità del saluto, perciò, sebbene ai militi tutti, ufficiali e truppa, il Comando generale abbia ritenuto opportuno di ordinare che salutino i superiori in grado del Regio Esercito, della Regia Marina e della Guardia di Finanza, gli appartenenti alla Milizia Nazionale non hanno ancora alcun diritto di esigere lo stesso trattamento e perciò non è loro concesso di fare alcuna osservazione ai militari che non facessero il saluto agli ufficiali della Milizia, anche per la ragione semplicissima che i soldati nella grande maggioranza non conoscono ancora la gerarchia della Milizia Nazionale.
10 febbraio 1923 – pagina 5
È un elegante opuscolo pubblicato dalla casa editrice del Partito Nazionale Fascista “Imperia” di Milano, sotto il titolo “I discorsi della rivoluzione”, con prefazione di Italo Balbo.
Quattro discorsi pronunziati dal Duce a Udine, a Cremona, a Milano e a Napoli, nei giorni precedenti immediatamente la Marcia delle Camicie Nere verso Roma eterna. Quattro discorsi che tracciano, con fermezza e precisione, le grandi linee definitive di un progetto di redenzione, ricollegando e riallacciando fra di loro le stesse linee tormentose, ora segnate con fede, ora qua e là spezzate e sospese con dolore, da una nuova generazione cibata dal sangue degli Eroi.
Quattro discorsi che riassumono in uno stile serrato i conati di un pugno d’uomini che mossero mirando al miracolo. Quattro discorsi che dettano chiaramente – si che è di colpo fatto compito – la rinascita italica, in un programma che suona improvvisamente così semplice da dare l’impressione ch’esso sia stato in ogni cervello d’italiano, anelante alla traduzione verbale.
Infine quattro discorsi che sono l’affermazione di una volontà, suggestiva per amore di Patria, amore degli Uomini e amore di Giustizia: volontà espressa in termini di una tale limpidità che danno l’idea generale o, meglio, la visione esatta del Fascismo, quale negli intendimenti del nostro Capo di Governo di oggi: di Benito Mussolini che oggi questi intendimenti realizza a gloria dell’Italia.
La lettura dei Discorsi della Rivoluzione darà a molti un senso di riposo e di assoluta confidenza nel Duce: un senso di serenità.
18 febbraio 1923 – pagina 6
La centrale del partito comunista tedesco comunica, in un appello ai comunisti italiani, che essa, “come prova della fraterna solidarietà dei comunisti tedeschi coi perseguitati fratelli italiani”, ha versato alla società di soccorso rosso la somma di un milione di marchi per aiutare i profughi italiani. Contemporaneamente la centrale richiama l’attenzione di tutte le classi lavoratrici tedesche sul “regime affamatore dell’ex socialista Mussolini”.
Naturalmente questo gesto di solidarietà internazionale dei comunisti tedeschi va inquadrato nel grande piano antifascista col quale si cerca di rivalorizzare il catastrofismo bolscevico, caduto in questi ultimi anni nell’universale discredito. Al cambio del giorno la generosa offerta del comunismo tedesco non supera però le diecimila lire. Sono pochine. Ma i nostri bolscevichi, quantunque siano abituati alle grosse cifre, terranno conto della buona intenzione.
Ne terremo conto anche noi per non dimenticare che l’ora del disarmare non è ancora giunta. Sulla motivazione dell’elargizione non merita il conto di fermarsi perché, in regime fascista affamatore, i comunisti italiani mangiano più polli e bevono, allegramente, più bottiglie di vin buono dei loro compagni tedeschi e russi. Tanto è vero che prendono spesso l’olio di ricino.
14 marzo 1923 – pagina 4
14 marzo 1923 – pagina 6
Oggi il Procuratore generale ed alcuni funzionari della squadra politica hanno proceduto ad un sopralluogo negli uffici dell’Internazionale comunista ai quali furono apposti i sigilli all’atto dell’arresto, avvenuto nei primi giorni del mese scorso, del noto Bordiga e di Giuseppe Dozza. Tali uffici erano noti a pochi fidatissimi e da lì partivano le fila della cospirazione comunista in Italia sventata a tempo. L’appartamento, situato in via Frattina 35, si componeva di 4 stanze messe al modo degli uffici commerciali. Notato ad una finestra un bracciolo di ferro per sostenere la bandiera nazionale.
I comunisti, per non destare il minimo sospetto, ad ogni festività, ad ogni corteo patriottico, esponevano immancabilmente la bandiera nazionale alla sede del comitato rivoluzionario. Il vessillo è stato sequestrato con tutto il bagaglio trovato nelle stanze.
Bordiga aveva affittato l’appartamento sotto altro nome e non consentiva l’accesso nei locali che a sei o sette persone. Dopo il sopralluogo vennero asportate tutte le carte, i libri, i manifesti e la corrispondenza trovata nelle varie stanze comprese anche due macchine da scrivere.
Come è noto, quando Bordiga venne arrestato gli fu sequestrata una borsa di cuoio contenente importantissimi documenti che furono quelli che svelarono la esistenza di un complotto. Nelle cartelle erano anche indirizzi di vari compagni fuggiti all’estero, e di amici fedelissimi e insospettabili che trasmettevano la corrispondenza. Bordiga aveva portato con se anche il numerario ed un cifrario per cui dopo due o tre giorni in tutta Italia si poté mettere il fermo a centinaia di persone sospette stroncando l’agitazione sul nascere. Si venne pure a conoscenza della fitta rete di affiliati, non solo nella penisola ma anche in Francia ed in America per la divulgazione di manifesti incitanti alla rivolta.
In America anzi il movimento era mascherato dal Comitato pro Sacco e Vanzetti da cui partivano incitamenti e denari. Oltre alla preziosa borsa il Bordiga era ben provvisto di denaro: un portafogli con dodici mila lire ed un libretto di cheques per altre 250 mila lire. Per un comunista non c’è male!
18 marzo 1923 – pagina 5
Si è svolto avanti a questo tribunale penale il processo contro tre fascisti di Alba, imputati di reato di violenza e di minacce, per avere la sera del 15 corrente propinato olio di ricino a certo Armuschio, noto comunista, cui era fatto l’addebito di avere sparlato del governo fascista.
Gli imputati ammisero il fatto, solo sostenendo di non aver usato violenza per costringere l’Armuschio, che anzi bevve il purgante di sua volontà, ed a sua insistenza. La parte lesa, assistita dal comunista on. Roberto Riccardo, invocò l’applicazione della legge per la tutela della libertà di idee, citando la recente sentenza del Tribunale di Milano che condannò, nelle stesse circostanze, a oltre due anni. Ciò ha suscitato una fiera protesta della difesa che ha ricordato altre sentenze… meno gravi contro i comunisti autori di spargimento di sangue fascista… e non di olio!
A tarda sera si è avuta la sentenza con la quale il Tribunale, ritenuta la colpabilità degli imputati, condannò gli stessi, rispettivamente, a giorni 25 e Lire 52 di multa, giorni 20 e L. 62, giorni 12 e L. 52. Liquidando i danni in Lire una e beneficiando tutti gli imputati della condizionale e non iscrizione nel casellario.
5 aprile 1923 – pagina 4
19 aprile 1923 – pagina 4
A Pontelagoscuro ha avuto luogo la commemorazione del sacrificio del fascista Arturo Breveglieri assassinato in un agguato tesogli la sera del 12 aprile 1921 da ignoti bolscevichi del luogo. Il paesello era ornato del tricolore, con un drappo nero. La piazza era affollata di persone giunte dalla città e dai paesi limitrofi, in maggioranza operai delle numerose fabbriche ed opifici. Facevano servizio d’onore alcuni reparti della Milizia Nazionale. Da un balcone prospicente la piazza, dopo aver fatto l’appello del compagno Breveglieri a cui risposero a voce alta i militi della Milizia presentando le armi, e dopo che la musica terminò l’inno Giovinezza, il dott. Enrico Caretti, Console generale, prese la parola per portare il commosso saluto a nome dei fascisti, saluto di amore e di riconoscenza; lo segue l’oratore ufficiale dott. Livio Levi, sindaco di Cento, il quale al suo apparire viene salutato da vivi applausi. Egli esordisce dicendo che la cerimonia deve essere l’apoteosi solenne di chi ha dato il proprio sangue per l’ideale supremo della grandezza della Patria, quindi tracciò con eloquenza e sintesi il periodo rosso del dopoguerra nella nostra provincia, esaltando la figura del camerata scomparso.
Dopo alcune parole che l’oratore rivolse alla vecchia madre del martire, presente, la commemorazione ebbe termine. Il prof. Levi fu applaudito dalla folla e baciato dai congiunti del povero Breveglieri.
Più tardi lungo la strada “Arturo Breveglieri” ove il giovane fascista venne assassinato, le baldi coorti passarono e romanamente salutarono il ritratto del martire deposto dalla pietà e dall’amore dei paesani nel punto dove lasciò la vita.
29 aprile – pagina 6
Ieri sera nel paese di Sorgnano (Carrara) il sovversivo e pregiudicato Cesare Bellegoni, redarguito da alcuni fascisti perché aveva pronunciato frasi oltraggiose verso il Fascismo e la Milizia Nazionale, estraeva la rivoltella e sparava due colpi dei quali uno andò a colpire la donna Maria Barbieri di anni 26, moglie di un capo squadra della Milizia Nazionale. Il Bellegoni dopo il ferimento si dava alla fuga ma veniva ripagato della stessa moneta perché, inseguito a colpi di rivoltella, veniva raggiunto da un proiettile che lo uccideva. La donna, trasportata d’urgenza all’ospedale, veniva giudicata in gravi condizioni.
* Il Popolo d’Italia, il giornale fondato da Mussolini nel novembre 1914, è stato durante il Ventennio la più autorevole voce del Fascismo. Nato agli inizi della Prima guerra mondiale come organo dei socialisti interventisti, ha seguito l’evoluzione politica del suo fondatore.
Un giornale di partito, ma anche di famiglia. Dopo Mussolini, che l’ha diretto fino all’ottobre del 1922, si sono succeduti alla direzione il fratello Arnaldo (novembre 1922-dicembre 1931) e il nipote Vito, figlio di Arnaldo (dicembre 1931-luglio 1943). La sede del Popolo d’Italia è sempre stata a Milano: la prima in un caseggiato fatiscente in via Paolo da Cannobbio, una viuzza dietro piazza Duomo, l’ultima in un lussuoso palazzo in piazza Cavour, edificato negli anni di massimo splendore del regime. Il giornale cessò le pubblicazioni il 26 luglio del ’43, all’indomani dell’arresto di Mussolini deciso dal re. Chiuderlo fu uno dei primi provvedimenti presi dal nuovo capo del governo Pietro Badoglio.