CRONACA MINIMA DA UN VENTENNIO: 7 – MAGGIO 1931 (A PROPOSITO DI MICHELE SCHIRRU)

Questa rubrica intende proporre una serie di articoli che il Popolo d’Italia ha pubblicato durante il Ventennio. Notizie minori relegate nelle pagine interne, senza commenti perché per tono e per linguaggio sono notizie che si commentano da sé. Un viaggio nella cronaca quotidiana del fascismo.*

a cura di Massimo Lunardelli

 

06 febbraio 1931 – pagina 2 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7 febbraio 1931 – pagina 2 

 

 

30 maggio 1931 – prima pagina 

Poco dopo le ore 20 di ieri il terrorista Michele Schirru è stato ricondotto alle carceri di Regina Coeli.

Alle 20.50 firmava la domanda di grazia che non ha avuto corso.

Alle 2.30 di stamane il condannato è stato invitato ad alzarsi. Il cappellano delle carceri lo ha visitato, ma egli ha respinto l’assistenza religiosa.

Alle ore 3 il direttore delle carceri è entrato nella cella di Schirru, il quale ha chiesto e ottenuto di scrivere una lettera alla moglie.

Alle 3.40 il condannato, ammanettato e scortato da 10 carabinieri, è uscito dalle carceri. Salito nell’auto-cellulare, che era seguito da torpedoni con agenti di P.S., ha preso la via del Forte di Casal Braschi, dove è arrivato alle 4.20.

Frattanto era giunto al Forte il battaglione delle Camicie nere della 112a Legione, al comando del seniore Guazzari, che era stato mobilitato durante la notte ed aveva una forza al completo di 22 ufficiali e 462 Camicie nere.

Il battaglione si è schierato subito nel piazzale interno del forte, in formazione di quadrato, aperto da un lato, nel quale era stata collocata la sedia per il condannato.

Alle ore 4.21 lo Schirru è disceso dall’auto-cellulare, sostenuto da due sottoufficiali dei Carabinieri. È stato accompagnato nel centro del quadrato e preso in consegna da quattro Camicie nere. Gli sono state legate le mani dietro la schiena.

Il comandante del battaglione ha dato il comando di “attenti!” e poi quello di “presentat’arm”. Le Camicie nere hanno sguainato i pugnali gridando: “A Noi!”.

Il console Giua, portatosi in mezzo al quadrato, ha letto con voce alta e ferma il testo della sentenza di morte.

Immediatamente dopo Schirru ha preso posto sulla sedia, su cui è stato legato. Ha respinto i conforti del cappellano della Legione, centurione don Mattei, e del cappellano del penitenziario, i quali si sono allontanati recitando preghiere.

Il plotone di esecuzione, composto da 24 uomini, quasi tutti originari della Sardegna e offertisi volontariamente, si è disposto a 15 passi dalla schiena del condannato. Alle 4.27 il comandante del plotone di esecuzione, centurione Tornari, ha abbassato la mano ed una scarica di moschetti fulminava lo Schirru, che cadeva riverso. Il centurione medico Cigale ha constato la morte istantanea.

Durante tutta l’esecuzione il contegno degli ufficiali e delle Camicie nere è stato perfetto.

Dopo aver gridato ancora una volta l’ “A Noi!”, alla presenza del console generale Ragioni, il battaglione delle Camicie nere lasciava il forte per rientrare nella propria caserma.

Il Tribunale speciale, seguendo la logica ferrea della ragione suprema della difesa dello Stato, ha condannato a morte l’anarchico Schirru. Giustizia è fatta. Ieri mattina, nell’interno di Forte Braschi, presso Roma, un plotone di Camicie Nere ha posto in esecuzione la sentenza. Già il processo aveva dimostrato quali propositi criminosi perseguiva l’anarchico Schirru. Solo per la vigilanza della polizia e per contrattempi fortunosi il bieco divisamento non ha potuto realizzarsi. Tuttavia il pericolo è stato grave. La stessa sparatoria a freddo operata negli uffici di polizia all’atto della perquisizione, dimostra quale tipo di delinquente si era aggirato per le vie di Roma e quali conseguenze disastrose avrebbe prodotto lo scoppio delle bombe piene di cheddite. Nel rapido processo compiuto con tutte le garanzie e le forme volute dalla legge, nella pronta esecuzione, è implicito, anche nei segni esteriori, il riconoscimento che lo Stato ha ferma la volontà di difendersi e che nessuna considerazione o attenuante generica può influire sulla giustizia fascista, nel proposito sicuro di difendere il Regime e gli ordinamenti civili che l’Italia si è imposta. La mente malata e frenetica di distruzione dello Schirru ha trovato alimento nelle varie pubblicazioni antifasciste a carattere odioso e provocatorio.

La giustizia, che è scesa così rapida e così piena sul responsabile diretto, non ha perso e non deve perdere di vista coloro che armano sinistramente la mente e la mano di elementi torbidi a carattere antisociale. Questa forma di giustizia esemplare non mancherà di avere la sua salutare ripercussione verso tutti coloro che credono superate le ragioni dello Stato.

Il Regime fascista sa tenere fede ai suoi propositi e lo dimostra in ogni campo, non escluso quello importantissimo della giustizia.

 

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* Il Popolo d’Italia, il giornale fondato da Mussolini nel novembre 1914, è stato durante il Ventennio la più autorevole voce del Fascismo. Nato agli inizi della Prima guerra mondiale come organo dei socialisti interventisti, ha seguito l’evoluzione politica del suo fondatore.

Un giornale di partito, ma anche di famiglia. Dopo Mussolini, che l’ha diretto fino all’ottobre del 1922, si sono succeduti alla direzione il fratello Arnaldo (novembre 1922-dicembre 1931) e il nipote Vito, figlio di Arnaldo (dicembre 1931-luglio 1943). La sede del Popolo d’Italia è sempre stata a Milano: la prima in un caseggiato fatiscente in via Paolo da Cannobbio, una viuzza dietro piazza Duomo, l’ultima in un lussuoso palazzo in piazza Cavour, edificato negli anni di massimo splendore del regime. Il giornale cessò le pubblicazioni il 26 luglio del ’43, all’indomani dell’arresto di Mussolini deciso dal re. Chiuderlo fu uno dei primi provvedimenti presi dal nuovo capo del governo Pietro Badoglio.

Massimo Lunardelli

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