Dal Belice alla Val Susa, le parole dei fatti
di Romano Mazzon
Domenica 6 novembre 2011, mattina, Piazza d’Arti, L’Aquila. Ultimo giorno dello stupendo festival “Luoghi Sicuri”, quattro giorni di confronto su pratiche e metodologie attorno all’arte e alla memoria seguendo registri diversi.
Dentro alla nuova Casa del Teatro si confrontano esperienze, lontane nel tempo e nello spazio, di pratiche partecipative alle scelte di sviluppo sociale ed economico dei territori. Pratiche che attraversano l’Italia intera e fanno intravedere un’altra storia di questi 150 anni di unità nazionale, una storia lontana dalle saghe risorgimentali e repubblicane irradiate dai media mainstream (a larga diffusione). Una storia spesso censurata che non si può incontrare se non perché si incontrano persone in carne ed ossa che possano narrarla. Una trasmissione orale di esperienze di emancipazione e partecipazione diretta da parte della cittadinanza. Una trasmissione in cui l’importante non è l’aspetto tecnicistico ma quello empatico, di reale condivisione tra chi vi partecipa, una partecipazione viva perché le parole sono incise sulla pelle viva. Nell’incontro non si interpretano i fatti lontani, i fatti e le parole che gli opinionisti ci passano, si narrano i fatti vissuti da chi era presente.
Si ascoltano così fatti sconosciuti, a partire dal Belice.
L’occasione è la presentazione della riedizione de “I ministri dal cielo” di Lorenzo Barbera, le storie di una rivolta popolare dopo il terremoto che sconvolse quelle terre nel 1968. Un terremoto censurato che raramente viene ricordato se non per dire che la ricostruzione di Gibellina Nuova fu un fallimento. Leggendo un manuale di psicologia dell’emergenza ho visto che questo terremoto non viene nemmeno citato tra le emergenze in Italia; anche sfogliando un manuale di sociologia dell’organizzazione, giunto alla parte sull’uso dell’esercito italiano nelle emergenze, non ho trovato inserito il Belice. Non viene riportato un intervento di emergenza in quei luoghi! Forse perché la popolazione si ribellò al modello di intervento adottato e riuscì a cacciare l’esercito dai campi.
Una storia che ha radici lontane e Barbera nell’incontro parla proprio di quel prima, di quel movimento che dal 1952 iniziò a formarsi nella Sicilia occidentale su ispirazione di Danilo Dolci. Un movimento che aveva come obiettivo il dimostrare a una popolazione di banditi analfabeti (così considerati dalla nazione) che essi stessi possedevano la capacità di pianificare la propria vita e il proprio sviluppo partendo dalle necessità di ognuno. Un percorso di costruzione della partecipazione attiva che si dovette scontrare con la distruzione di gran parte dell’esistente nel 1968.
Un percorso sì locale ma che seppe non perdere mai di vista il globale. Così era interno a quel movimento anche quello contro la guerra in Vietnam e la partecipazione a quei momenti fu davvero internazionalista. Per rendersene conto è consigliabile andare a Gibellina Nuova a visitare “Belice/epicentro della memoria viva”, il museo creato con la forte partecipazione del CRESM, l’ente che continua ad operare nel solco di quel movimento. Un continuare che è cambiato di molto come ricorda Barbera ma che continua ad occuparsi di sviluppo e beni comuni.
Un racconto di forme partecipative ma anche di conflitto con l’istituzione, un conflitto che vedeva dall’altra parte, in quel periodo, personaggi come Tambroni e Scelba, ultimi rigurgiti fascisti per sopire le lotte popolari. Un conflitto che il movimento siciliano portò sempre con gli strumenti propri della nonviolenza ma che non per questo non vide utilizzare contro di sé cariche, arresti, denunce e processi. Da quel conflitto ne uscì anche l’obiezione di coscienza con il primo rifiuto in massa di prestare il servizio militare per impegnarsi invece in una ricostruzione dal basso in un territorio devastato e abbandonato (bandito nell’accezione di Dolci): lo Stato era considerato fuorilegge e quindi a uno Stato fuorilegge non si pagano le tasse e non si presta servizio!
Una forma di partecipazione attiva che, come afferma Goffredo Fofi nell’introduzione al volume, trova un corrispettivo attuale nel movimento NoTAV in Val Susa. Infatti Francesco, rappresentante della Valsusa, inizia il proprio intervento dicendo che per la prima volta ha sentito descrivere così bene i processi partecipativi messi in atto nella sua zona attraverso i racconti di Barbera. Anche in questo caso un movimento che ha radici, non è nato nel 2005, è nato venti anni fa. Un movimento che coinvolge un’intera vallata che è cosciente del fatto che questa non sia una sua lotta ma una lotta molto più ampia per il rispetto dell’uomo e dell’ambiente. Per questo Francesco afferma di sentirsi in colpa per il disastro di Genova: se il movimento NoTAV fosse già riuscito ad imporre il rispetto dell’uomo e dell’ambiente, quel disastro non ci sarebbe stato perché non sarebbero state possibili le cause che ne stanno alla base: il continuo sfruttamento del territorio a beneficio di piccoli gruppi di interesse che calpestano la dignità e la sicurezza di intere popolazioni.
Anche in questa lotta, come riportato dalle cronache recenti, non manca il conflitto: cariche, denunce, intimidazioni, arresti. Anche in questo caso però, come in Sicilia, la scelta da parte del movimento di adottare tecniche nonviolente. Migliaia di persone hanno imparato a manifestare le proprie idee apprendendo che non solo i tecnici possono decidere quale sarà il futuro ma anche la popolazione se riesce a dotarsi degli strumenti adeguati.
I temi di queste due esperienze non potevano non essere travasati nell’esperienza che stanno avendo i comitati aquilani nati dopo il terremoto del 2009 e la solita mancata ricostruzione. Comitati che con difficoltà cercano di ricostruire un tessuto sociale distrutto dai sei mesi nelle tendopoli e dalla successiva frammentazione imposta dal piano CASE. Una riappropriazione anche di spazi di socialità che al momento si ridurrebbero solamente al centro commerciale. Due esperienze che si muovono all’interno della città e che se sommati all’esperienza del gruppo di artisti che ci ospita, da il segno che dei semi sono germogliati tra quelle macerie. Così interviene un rappresentante del comitato 3&32con l’occupazione delle CaseMatte e un rappresentante dell’asilo Occupato. La sala è partecipe con domande e interventi.
Altra forma di partecipazione alla definizione del termine sviluppo, l’esperienza portata da Sabina Guzzanti e Simona Panzino con l’occupazione dell’ex Cinema Palazzo. Un’occupazione che vuole fermare la trasformazione di questo storico spazio di cultura del quartiere San Lorenzo di Roma in una enorme sala da gioco. Un argine al progressivo smantellamento della cultura e del pensiero critico in Italia.
Esperienze a confronto che trattando di fatti locali assumono un significato globale. Partono da fatti a noi vicini, su cui possiamo agire, e danno respiro a problemi molto più ampi che spesso ci spingono nell’angolino dell’impotenza. Un modo di intendere il territorio come estensione e qualità delle relazioni al suo interno. Relazioni che paiono poggiare su tre pilastri principali: 1) solidarietà; alla base vi è il riconoscimento reciproco come portatori di comuni diritti e interessi; 2) auto-organizzazione; la capacità di promuovere forme partecipative; 3) conflitto; il riconoscimento di un avversario, non lontano e irraggiungibile ma presente e con cui ci si confronta.