Viviamo in un momento decisivo, caratterizzato da un elevato livello di fragilità e incertezza di fronte all’emergenza climatica e ai molteplici rischi globali e possibili risvolti futuri.
La narrativa di stabilità, governabilità nazionale e governance globale creata negli ultimi decenni da attori egemonici si è sbriciolata: prima con la crisi del 2008 e poi con la pandemia da Covid-19. Imprevedibilità e instabilità sono diventate la norma di fronte al susseguirsi di crisi profonde (sociali, politiche, sanitarie, geopolitiche, economiche ed ecologiche) che non possono più essere affrontate come prima, poiché si sovrappongono e si rafforzano vicendevolmente.
Stiamo passando dalle crisi multiple a una policrisi di civiltà, cioè a crisi interconnesse che sono causalmente intrecciate – che producono un danno maggiore che la somma di ciò che produrrebbero in maniera isolata (1) – e mettono in discussione il modello di civiltà basato sulla crescita, il progresso e lo sviluppo illimitati.
A questo scenario si aggiungono il rafforzamento dell’estrema destra e dell’autoritarismo, l’erosione democratica, il controllo digitale e tecnologico della vita e il rafforzamento della cultura della guerra, così come suggerito dal Patto Ecosociale e Interculturale del Sud nella sua recente Dichiarazione di Bogotà (2).
Con lo sviluppo di queste tendenze, negli ultimi anni la transizione socioecologica ha cessato di essere una questione riservata a gruppi di attivisti e scienziati ed è diventata un asse centrale delle agende politiche ed economiche contemporanee.
Qui però sorgono due questioni importanti.
In primo luogo, di fronte all’urgenza della decarbonizzazione, si tende a ridurre la transizione socioecologica – la cui comprensione integrale dovrebbe includere le dimensioni energetica, produttiva, alimentare e urbana – alla transizione energetica (3).
La seconda questione è legata al modo in cui verrà effettuata la transizione energetica e chi ne pagherà i costi.
La transizione energetica, promossa principalmente da grandi imprese, fondazioni e governi del Nord del mondo e dai paesi emergenti verso energie apparentemente “pulite”, esercita una pressione crescente sul Sud del mondo.
Affinché la Cina, gli Stati Uniti e l’Europa possano procedere verso la defossilizzazione, vengono create nuove zone di sacrificio nelle periferie del mondo.
Ci sono diversi esempi di questa dinamica: l’estrazione di cobalto e litio per la produzione di batterie ad alta tecnologia per auto elettriche colpisce brutalmente il cosiddetto “triangolo del litio” in America Latina e Nord Africa.
La crescente domanda di legno di balsa – abbondante nell’Amazzonia ecuadoriana – per la costruzione di turbine eoliche, richieste dalla Cina e dai paesi europei, distrugge comunità, territori e biodiversità, e la nuova spinta per megaprogetti di pannelli solari e infrastrutture per l’idrogeno aumenta ulteriormente l’accaparramento di terre.
In questo articolo sosteniamo che il colonialismo energetico è il fulcro di un nuovo consenso capitalista, che definiremo “Decarbonization Consensus” .
Si tratta di un nuovo accordo capitalista globale che scommette sul cambiamento della matrice energetica basata sui combustibili fossili per passare a una senza (o con ridotte) emissioni di carbonio, basata su energie “rinnovabili”.
Il suo filo conduttore è combattere il riscaldamento globale e la crisi climatica, stimolando una transizione energetica promossa dall’elettrificazione del consumo e dalla digitalizzazione.
Tuttavia, più che proteggere il pianeta, contribuisce alla sua distruzione, approfondendo le disuguaglianze esistenti, esacerbando lo sfruttamento delle risorse naturali e perpetuando il modello di mercificazione della natura.
Questo articolo analizza come è avvenuto il passaggio dai precedenti consensi capitalisti globali – il “Washington Consensus” e il “Commodities Consensus”»– al “Decarbonization Consensus”. Allo stesso modo, ne discute le caratteristiche principali, così come le linee di continuità e di rottura in un mondo multipolare.
Presenta infine una serie di riflessioni e proposte in relazione alla transizione energetica, sia in chiave geopolitica che locale-territoriale.
Dal “Washington Consensus” al “Decarbonization Consensus” (passando per il “Commodities Consensus”)
Il processo di liberalizzazione commerciale ed economica, deregulation, privatizzazione, riduzione dello Stato ed espansione delle forze di mercato nelle economie nazionali, avviato negli anni ’80 e consolidato negli anni ’90, prese il nome di “Washington Consensus”.
Conosciamo bene la tragica ricetta: un pacchetto di riforme che promosse un fondamentalismo del mercato, elevando il neoliberismo a unica alternativa dopo la caduta del muro di Berlino.
Si è trattato di un consenso tra diversi attori che hanno promosso la globalizzazione neoliberista, con un peso particolare da parte delle istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale (BM), il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Nonostante le differenze di sfumatura, si impose ai paesi del Sud una serie di politiche di aggiustamento strutturale che promuovevano il libero mercato.
Queste politiche sono state concepite tenendo come riferimento l’America Latina e hanno finito per essere sostenute da buona parte dei governi della regione. Tuttavia, i gravi effetti ambientali e sociali e le molteplici crisi economiche che hanno generato in vari paesi latinoamericani, sono serviti come base per la loro critica politica e intellettuale. Resistenze, reti e movimenti sociali cominciarono ad articolarsi contro gli accordi di libero commercio, la globalizzazione neoliberista e i suoi principali simboli.
Le proteste contro l’OMC, la BM, l’FMI, le campagne contro l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) e il Forum Sociale Mondiale, furono processi chiave che articolarono la denuncia del “Washington Consensus” con l’obiettivo di generare alternative e convergenze verso “altri mondi possibili”.
Durante il cambio di secolo, a questo ciclo globale e regionale di proteste si sono aggiunte intense mobilitazioni in paesi come Argentina (2001), Venezuela (2002) e Bolivia (2003), che hanno favorito l’emergere del cosiddetto “ciclo progressita latinoamericano”, oltre a un immaginario post-neoliberista.
I progressismi latinoamericani rivendicarono un ruolo più importante per lo Stato, con politiche sociali mirate e – in alcuni casi – di redistribuzione, ma lo fecero in un modo strettamente vincolato al rafforzamento dei capitali privati multinazionali.
Ciò che in diversi paesi è stato venduto come una politica ‘win-win’, attraverso il quale i poveri miglioravano la propria vita mentre i ricchi continuavano ad arricchirsi, fu reso possibile dall’ingresso dell’America Latina in un nuovo ordine economico e politico-ideologico sostenuto dal boom dei prezzi internazionali delle materie prime e dei beni di consumo sempre più richiesti dai paesi centrali e dalle potenze emergenti come la Cina.
Questo nuovo ordine, caratterizzato dall’egemonia dello sviluppo neo-estrattivista, segnò la transizione verso un altro tipo di consenso capitalista, il “Commodities Consensus”4, visto da attori molto diversi ed eterogenei – dai più conservatori ai progressisti – come un’autentica “opportunità economica”.
Le economie latinoamericane furono di nuovo ‘ri-primarizzate’ e la dinamica di depredazione si accentuò in modo molto violento, con la distruzione della biodiversità e l’espulsione e lo spostamento delle popolazioni dai loro territori.
Di fronte a questo scenario, sono aumentati i conflitti sociali e la resistenza delle comunità e dei movimenti sociali all’espansione dell’agrobusiness, ai megaprogetti minerari a cielo aperto, alla costruzione di grandi dighe idroelettriche e all’espansione della frontiera petrolifera e energetica, agli idrocarburi non convenzionali.
Ma le lotte di resistenza contro le politiche di sviluppo neo-estrattivista, con il protagonismo dei movimenti ecoterritoriali, non si limitarono a un repertorio reattivo.
Dal “no” sono emersi molti “sì” e si cominciarono a coltivare alternative allo sviluppo e nuovi orizzonti propositivi, come il ‘Buen Vivir’, i beni comuni, la plurinazionalità, i diritti della natura e il ‘paradigma de los cuidados’, dell’avere cura.
La fine del boom delle commodities, a metà del secondo decennio del secolo attuale, ha coinciso con la chiusura di quel ciclo progressista e il rafforzamento della destra in diversi paesi, in un contesto di profondo deterioramento dei sistemi politici e di messa in discussione degli attori sociali e politici. Si diede una forte polarizzazione tra i progressismi, che si videro sotto attacco e si misero sulla difensiva, e le forze conservatrici o reazionarie che iniziarono a dettare l’agenda.
La pandemia di Covid-19 emerge in questo contesto come un evento critico globale, che ha consentito l’accelerazione e il consolidamento dei cambiamenti geopolitici già in atto, come la militarizzazione globale, il rafforzamento della Cina, la lotta interimperiale e l’aumento dei divari tra il centro e la periferia (5).
Allo stesso tempo, si è aperta una nuova finestra politica di discussione su come sarebbe stato il mondo post-pandemia. Nonostante l’insistenza dei settori dominanti nel mantenere il ‘business as usual’, scommettendo più su un “ritorno alla normalità” che su una “nuova normalità”, ha cominciato a guadagnare terreno anche una logica di adattamento del capitalismo verso un modello apparentemente più “pulito” ed “ecologico”.
Grandi multinazionali, istituzioni sovranazionali e governi, con l’avallo di numerose organizzazioni ed esperti internazionali, hanno iniziato a mettere al centro della loro agenda economica e politica la necessità di una decarbonizzazione della matrice energetica.
L’Accordo di Parigi e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, sono diventati per tutti i principali referenti governativi, con il proposito di generare approcci internazionali condivisi.
Nella dimensione nazionale, diversi paesi hanno creato i propri Patti Verdi o Green New Deals e persino ministeri per la Transizione Ecologica. Anche attori sovranazionali, come la Commissione Europea, hanno promosso un Green Deal Europeo, formulato con l’obiettivo di essere il primo continente “climaticamente neutrale”.
Il discorso “Zero Netto verso il 2050” ha così cominciato ad apparire in molti dei discorsi delle comunità dominanti, comprese alcune che anni fa erano apertamente negazioniste e poi hanno cominciato a offrire “soluzioni climatiche”.
È così che è emerso il più recente consenso capitalista: il “Decarbonization Consensus”.
Il “Decarbonization Consensus”: caratteristiche, contraddizioni e implicazioni
Il “Decarbonization Consensus” si basa su un obiettivo comune ampiamente accettato.
Alla fine, in un mondo fortemente colpito dal collasso, chi potrebbe opporsi alla decarbonizzazione e alla neutralità climatica?
Il problema principale non è cosa, ma come. La decarbonizzazione è benvenuta, ma non in questo modo. Tra gli scopi di questa decarbonizzazione egemonica non ci sono la deconcentrazione del sistema energetico, la cura della natura, tanto meno la giustizia climatica globale, ma altri tipi di motivazioni come l’accaparramento di nuovi incentivi finanziari, la riduzione della dipendenza di alcuni paesi alla ricerca della sicurezza energetica, l’espansione di nicchie di mercato o il miglioramento dell’immagine delle aziende.
In altre parole, se gli attori dominanti adottano questa agenda è perché la intendono come una nuova finestra di opportunità per il riposizionamento geopolitico e per l’accumulazione capitalista, più specificamente, una “accumulazione per defossilizzazione” (6) che approfondisce la contraddizione capitale/natura.
In questo nuovo consenso, la decarbonizzazione non è vista come parte di un processo più ampio di cambiamento del profilo metabolico della società (nei modelli di produzione, consumo, circolazione dei beni e generazione di rifiuti), ma come un fine di per sé. Sebbene sia riconosciuta la gravità dell’emergenza climatica, si costruiscono politiche che non solo sono insufficienti, ma che hanno anche gravissimi impatti, dato che si intensifica lo sfruttamento delle risorse naturali e si mantiene l’ideologia della crescita economica indefinita. Con un’altro giro di vite alla retorica della “sostenibilità”, si apre quindi una nuova fase di depredazione ambientale del Sud del mondo, che colpisce la vita di milioni di esseri umani ed esseri senzienti non umani, oltre a compromettere ulteriormente la biodiversità e distruggere gli ecosistemi strategici.
Il “Decarbonization Consensus” utilizza costantemente il discorso sul potenziale tecnologico e sull’innovazione. Allo stesso tempo, sostiene esplicitamente il “business verde”, il “finanziamento a favore del clima”, le “soluzioni basate sulla natura”, l’”estrazione mineraria climaticamente intelligente”, i “mercati del carbonio” e varie forme di investimenti speculativi.
Quasi senza soluzione di continuità, le politiche di “responsabilità sociale” delle imprese estrattive si sono trasformate negli ultimi decenni in politiche di “responsabilità socio-ambientale”, nel tentativo di costruire un’immagine di responsabilità ecologica in netto contrasto con la realtà. Si propone insomma un tipo di transizione basata su una logica fondamentalmente commerciale e con un’interfaccia iperdigitalizzata, cosa che genera nuove merci e forme sofisticate di controllo sociale e territoriale.
Come ovvia conseguenza, il “Decarbonization Consensus” è caratterizzato dall’imperialismo ecologico e dal colonialismo verde.
Adotta non solo pratiche, ma anche un immaginario ecologico neocoloniale.
Ad esempio, governanti e aziende utilizzano spesso l’idea di “spazio vuoto”, tipica della geopolitica imperiale. Se in passato questa idea, che integra la nozione ratzeliana di “spazio vitale” (Lebensraum), ha generato ecocidi ed etnocidi indigeni – per poi servire a promuovere politiche di “sviluppo” e “colonizzazione” dei territori –, oggi viene utilizzato per giustificare l’espansionismo territoriale per investimenti verso l’energia “verde”.
In questo modo, le grandi estensioni territoriali in aree rurali con poca popolazione, vengono viste come spazi vuoti adatti alla costruzione di parchi eolici o di impianti a idrogeno.
Questi immaginari geopolitici delle transizioni aziendali riproducono le relazioni coloniali, che non solo possono essere viste come un’imposizione dall’esterno verso l’interno, dal Nord al Sud. In molti casi, la posta in gioco è anche una sorta di colonialismo verde interno, che crea le condizioni per rendere possibile l’avanzamento dell’estrattivismo verde basato su alleanze e relazioni coloniali tra le élites nazionali ed élites globali.
Dobbiamo anche riconoscere che, in nome della “transizione verde”, il “Decarbonization Consensus” genera pressioni anche sui territori del Nord globale, sia negli Stati Uniti che in Europa (7), con un impatto principale nelle zone rurali meno popolate. Ma nulla di tutto ciò può essere paragonato agli impatti e alla portata che questi processi hanno sulla periferia globalizzata. Come giustamente sottolinea un recente studio di Alfons Pérez sui cosiddetti “Patti Verdi”:
“La distribuzione geografica dell’attuale estrazione e delle riserve di queste materie prime critiche disegna una mappa certamente diversa da quella dell’estrazione dei combustibili fossili. Se il Medio Oriente è stato l’epicentro geostrategico per l’approvvigionamento di idrocarburi, ora l’attenzione è rivolta ad altre aree del pianeta. Le regioni chiave per lo sfruttamento di questi elementi sono concentrate nel Sud del mondo e in regioni come l’Africa sub-sahariana, il Sud-Est asiatico, il Sud America, l’Oceania e la Cina“.(8)
Nonostante l’incessante ricerca di questi minerali critici, la forma e i tempi di attuazione del “Decarbonization Consensus” innescano contraddizioni anche tra i suoi stessi promotori. L’esacerbazione di condotte e politiche schizofreniche – o di doppio vincolo – per usare i termini di Gregory Bateson (9) – sembra quindi essere un segno della policrisi di civiltà. C’è chi, pur riconoscendone l’importanza, cerca di ritardare la decarbonizzazione ed estrarre fino all’ultima goccia di petrolio, come nel caso di molte aziende fossili e delle loro lobbies negli ambienti governativi.
Un esempio è stato il presidente Joe Biden che, rimangiandosi la sua promessa elettorale, ha approvato nel marzo 2023 il Willow Project, che consente di progredire nell’espansione della frontiera petrolifera nell’Artico dell’Alaska, mettendo così in pericolo un territorio estremamente fragile e già punito dallo scioglimento dei ghiacciai dovuto al riscaldamento globale.
Un altro esempio viene dall’Unione Europea che, mentre cerca di espandere il Green Deal Europeo, ha scelto di tornare al carbone a metà del 2022, utilizzando come giustificazione la crisi energetica accelerata dalla guerra in Ucraina. Così, nel gennaio 2023, il governo tedesco ha ordinato la demolizione di un villaggio per far posto all’espansione di una miniera di carbone di lignite, il tipo di carbone più inquinante tra i combustibili fossili.
Allo stesso tempo l’UE destinerà parte di questi fondi allo sviluppo dell’idrogeno verde (10).
Il tipo di logica post-fossile promossa dal “Decarbonization Consensus” porta quindi a una transizione aziendale, tecnocratica, neocoloniale e insostenibile.
Numerose proiezioni mettono in guardia dal fatto che, così impostata, la transizione energetica è insostenibile dal punto di vista metabolico. La stessa Banca Mondiale avvertiva nel 2020 che l’estrazione di minerali come la grafite, il litio e il cobalto potrebbero vedere un aumento di quasi il 500% da qui al 2050, al fine di soddisfare la crescente domanda di tecnologie di energia pulita. Si stima che saranno necessari più di 3 miliardi di tonnellate di minerali e metalli per l’implementazione dell’energia eolica, solare e geotermica, così come per lo stoccaggio dell’energia, per ottenere in futuro una riduzione che porti la temperatura sotto i 2° C (11).
Rapporti più recenti sono ancora più agghiaccianti riguardo al crescente utilizzo di “minerali di transizione”. Come sostiene il giornalista francese Guillaume Pitron, “centinaia di migliaia di turbine eoliche, alcune più alte della Torre Eiffel, saranno costruite nei prossimi anni e richiederanno enormi quantità di cobalto, zinco, molibdeno, alluminio, zinco, cromo… tra i tanti metalli» (12).
Il “Decarbonization Consensus” restringe l’orizzonte della lotta al cambiamento climatico a ciò che la ricercatrice brasiliana Camila Moreno definisce la “metrica del carbonio”: un modo limitato di quantificare il carbonio solo a partire dalle molecole di CO2, che offre una sorta di valuta per gli scambi internazionali, cosa che genera l’illusione che si stia facendo qualcosa contro il crescente degrado ambientale (13).
In questo modo si nasconde il problema di fondo e non solo si continua inquinando, ma si creano anche nuovi business con l’inquinamento (attraverso, ad esempio, lo scambio di compensazione delle emissioni). I limiti naturali ed ecologici del pianeta continuano a essere ignorati, poiché chiaramente non esiste litio o minerali critici che possano possano bastare, se i modelli di mobilità e i modelli di consumo non vengono modificati.
Il fatto stesso che le batterie al litio, così come i progetti eolici e solari, richiedano anche minerali (come rame, zinco, tra i tanti) dovrebbe allertarci sulla necessità di attuare una riforma radicale del sistema di trasporto e dell’attuale modello di consumo.
Pertanto, la transizione non può ridursi unicamente a un cambiamento della matrice energetica che garantisca la continuità di un modello insostenibile. Al proporre una transizione energetica aziendale a breve termine, il “Decarbonization Consensus” mantiene il modello egemonico di sviluppo e accelera la frattura metabolica, con l’obiettivo di preservare l’attuale stile di vita e di consumo, soprattutto nei paesi del Nord e nei settori più benestanti su scala globale.
(1. Continua)
* Tratto da Revista Nueva Sociedad n° 306/Julio – Agosto 2023 – Originale in spagnolo qui
** Versione italiana tratta da Ecor.Network. Traduzione di Giorgio Tinelli.
– Breno Bringel: è sociologo, attivista e scrittore. È professore presso l’Instituto de Estudios Sociales y Políticos de la Universidad del Estado de Río de Janeiro, ricercatore presso il Consejo Nacional de Desarrollo Científico y Tecnológico (cnpq) del Brasile e ricercatore senior presso l’Universidad Complutense di Madrid. Tra i suoi libri più recenti Social Movements and Politics during Covid-19 (con Geoffrey Pleyers, Bristol up, 2022). È promotore del Patto Ecosociale e Interculturale del Sud e di numerose iniziative di ricerca e azione.
– Maristella Svampa: è sociologa, attivista e scrittrice. Attualmente è ricercatrice senior presso il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet) dell’Argentina. Tra i suoi ultimi libri El colapso ecológico ya llegó. Una brújula para salir del (mal) desarrollo (con Enrique Viale, Ed. Siglo XXI, Buenos Aires, 2020). È promotrice del Patto Ecosociale e Interculturale del Sud.
FOTO
Parco eolico in Oaxaca, Messico.
Manifestazione contro il neoliberismo a Trafalgar Square, Londra, 22 marzo 2014.
Cile, miniera di litio (foto di Tom Hegen).
Ursula von der Leyen espone due nuovi pacchetti normativi del Green Deal Industrial Plan, 16 marzo 2023.
La Tanzania sgombera i Masai dalle loro terre ancestrali per far spazio a progetti di “conservazione della natura”, utili per vendere crediti di carbonio.
La polizia tedesca difende la miniera di lignite di Lutzerath.
NOTE
(1) Michael Lawrence, Scott Janzwood y Thomas Homer-Dixon: «What is a Global Polycrisis? And How Is It Different from a Systemic Risk?», informe para discusión, Cascade Institute, 9/2022.
(2) V. www.pactoecosocialdelsur.com.
(3) M. Svampa y Pablo Bertinat (eds.): La transición energética en la Argentina. Una hoja de ruta para entender los proyectos en pugna y las falsas soluciones, Siglo XXI Editores, Buenos Aires, 2022.
(4) M. Svampa: «‘Consenso de los Commodities’ y lenguajes de valoración en América Latina» en Nueva Sociedad No 244, 3-4/2013, disponible en nuso.org.
(5) Bringel y Geoffrey Pleyers (eds.): Alerta global. Políticas, movimientos sociales y futuros en disputa en tiempos de pandemia, Clacso, Buenos Aires, 2020.
(6) Questo concetto è stato coniato dal Gruppo di Studio Geopolitica e Beni Comuni dell’Università di Buenos Aires. V., tra gli altri, «El litio y la acumulación por desfosilización en Argentina» in M. Svampa y P. Bertinat (eds.): La transición energética en Argentina, cit.
(7) Thea Riofrancos: «Por qué relocalizar la extracción de minerales críticos en el Norte global no es justicia climática» en Viento Sur, 8/3/2022.
(8) A. Pérez: Pactos verdes en tiempos de pandemias. El futuro se disputa ahora, Observatori del Deute en la Globalització / Libros en Acción / Icaria, Barcelona, 2021, p. 62.
(9) G. Bateson: Steps to an Ecology of Mind, Chandler, San Francisco, 1972.
(10) Etienne Beeker: «¿Hacia dónde va la transición energética alemana?» en Agenda Pública, 15/2/2023.
(11) Banco Mundial: Minerals for Climate Action: The Mineral Intensity of the Clean Energy Transition, BM, Washington, DC, 2020.
(12) G. Pitron: «El impacto de los metales raros. Profundizando en la transición energética» en Green European Journal, 5/2/2021.
(13) C. Moreno, Daniel Speich Chassé y Lili Fuhr: A métrica do carbono: abstrações globais e epistemicídio ecológico, Fundação Heinrich Böll, Río de Janeiro, 2016.
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