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La Bottega del Barbieri

Dal “Commodities Consensus” al “Decarbonization Consensus”/2

di Breno Bringel, Maristella Svampa

Continua da qui.

Continuità e rotture tra i tre “consensus” capitalisti

Se durante la Guerra Fredda l’immaginario geopolitico egemonico parlava di un mondo bipolare, diviso in due blocchi ideologicamente polarizzati, a partire dalla caduta del Muro di Berlino ha cominciato a forgiarsi un immaginario geopolitico egemonico basato su consensi capitalisti globali.
Se osserviamo il “Decarbonization Consensus” da una prospettiva di consequenzialità storico-sociale, vedremo che tra i tre consensi egemonici in vigore negli ultimi decenni ci sono continuità e rotture. Tra i punti di continuità si possono evidenziare tre elementi principali. Il primo è il discorso dell’inevitabilità, per cui non esiste alternativa a questi consensi.
Questa restrizione del mondo del possibile si è perfezionata negli ultimi decenni con diversi repertori di legittimazione sociale, che si tratti dell’accesso al consumo da parte dei settori popolari o della retorica di respirare un’aria più sana.
Allo stesso modo, il “Commodities Consensus» è stato costruito sull’idea che esistesse un accordo sul carattere irrevocabile o irresistibile della dinamica estrattivista, derivante dalla crescente domanda globale di materie prime, il cui obiettivo era di chiudere la possibilità ad altre alternative. Allo stesso modo, il “Decarbonization Consensus” pretende far passare oggi l’idea che, data l’urgenza climatica, non esiste altra transizione possibile, e che l’unica esistente e “realistica” sia quella aziendale.

In secondo luogo, tutti questi consensi implicano una maggiore concentrazione di potere in attori non democratici (grandi aziende, attori finanziari e organizzazioni internazionali), che minano ogni possibilità di governance democratica, tanto più in un contesto di “transizione”. Ciò si manifesta in due forme principali.
Da un lato, si osserva nella conquista da parte delle aziende di spazi di governance. Settori come la Conference of Parties (COP) che, in quanto organo supremo della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, dovrebbero essere forum multilaterali per promuovere la lotta contro il cambiamento climatico, e che sono sempre più una fiera commerciale del capitalismo verde che mantiene rapporti di potere energetico tra il Nord e il Sud. Possiamo dire che le COP servono il “Decarbonization Consensus” così come l’OMC ha servito il “Washington Consensus” e il “Commodities Consensus”.

Dall’altro lato, si manifesta nella forte concentrazione del potere tra le grandi imprese, dall’inizio alla fine delle catene globali. Se pensiamo al caso del litio in Argentina e Cile, ad esempio, alla fine della catena del valore globale ci sono i giganti automobilistici (Toyota, BMW , VW , Audi, Nissan, General Motors) e le società elettriche, come Vestas e Tesla.
Il 50% dell’industrializzazione delle batterie per stabilimenti automobilistici è concentrato su aziende cinesi, e anche il controllo dell’estrazione è dominato da poche aziende: la statunitense Albemarle, la cilena SQM, la nordamericana Livent Corp, l’australiana Orocobre e la cinese Ganfeng. (14)
A loro volta, Cile e Argentina esportano carbonato di litio, una commodity senza valore aggiunto, e al di là dei ricorrenti annunci di “industrializzazione”, i paesi del cosiddetto “triangolo del litio” sono molto lontani dal controllare la catena globale del minerale in questione, dai ‘salares’ fino alle batterie.

In numerosi casi, l’estrazione del litio avanza senza licenza sociale, accordo o consultazione con le comunità indigene che abitano questi territori da millenni e che denunciano il consumo eccessivo di acqua e i suoi impatti sul processo di estrazione. Nelle Salinas Grandes di Jujuy, in Argentina, dal 2010, un gruppo di comunità indigene (chiamate “le 33 comunità”) rifiuta l’estrazione del litio nei loro territori, chiedono una consultazione preventiva, libera e informata e difendono una prospettiva olistica e ancestrale, che integra il territorio, autonomia, ‘Buen Vivir’, plurinazionalità, l’acqua e la sostenibilità della vita.
Il ‘salar’ è considerato dagli indigeni come “un essere vivente, donatore di vita”, e il loro motto è “l’acqua e la vita valgono più del litio”, come si può vedere riflesso nell’Aerocene Pacha, un pallone aerostatico senza combustibile che l’artista argentino Tomás Saraceno ha innalzato nel gennaio 2020.(15)

In terzo luogo, la costante ricerca di espansione delle frontiere capitalistiche implica, in tutti questi casi, la promozione di megaprogetti finalizzati al controllo, all’estrazione e all’esportazione dei beni naturali. E per questo c’è un chiaro impegno a garantire “sicurezza giuridica” ai capitali con basi normative e giuridiche che consentano una maggiore redditività imprenditoriale. Non è un caso, ad esempio, che nei nuovi trattati commerciali bilaterali stipulati dall’UE  (tra gli altri con Cile e Messico) si siano incorporati capitoli sull’energia e sulle materie prime per garantire un accesso ai minerali critici per la transizione.
La Commissione Europea ha evidenziato molto chiaramente nella dichiarazione del Green Deal Europeo che “l’accesso alle risorse è una questione di sicurezza strategica per l’attuazione del Green Deal” e che è imprescindibile “garantire l’offerta di materie prime sostenibili, in particolare quelle necessarie alle tecnologie rinnovabili, digitali, spaziali e per la difesa” (16). In questo contesto nel marzo 2023 ha presentato  una proposta per un “Regolamento per le materie prime critiche”, apparentemente volto a garantire un approvvigionamento sicuro e sostenibile di tali materie prime. (17)
Tuttavia, come spiegato in un rapporto del Centro di Ricerca sulle Imprese Multinazionali (SOMO), la strategia proposta dall’UE non porterà a un approvvigionamento sostenibile di minerali critici per l’Europa, visto che aggraverà i rischi per i diritti umani e dell’ambiente, minerà le dinamiche economiche nei paesi partner e continuerà a rafforzare il consumo insostenibile nei paesi ricchi. (18)

Al di là di queste linee di continuità, ci sono anche nuovi sviluppi. Una caratteristica importante del “Decarbonization Consensus” è legata alla complessità delle relazioni neocoloniali in un mondo multipolare, segnato dalla lotta inter-imperiale, dove la geopolitica si trasforma in geoessenziali, che cerca l’accesso diretto ad essi.
La Cina, pur disponendo di questi minerali, è molto ben posizionata nel Sud del mondo, dove da quasi due decenni sta attuando investimenti molto aggressivi in ​​settori estrattivi strategici, mantenendo un tipo di rapporto diverso da quelli impostati da Stati Uniti ed Europa (19).
Una delle peculiarità della nuova dipendenza che si genera tra la Cina e i paesi latinoamericani, dei quali nella quasi totalità dei casi è il primo partner commerciale, è che anche se i loro investimenti sono impegnati a lungo termine e localizzati in settori diversi (agroalimentare , miniere, petrolio, infrastrutture legate alle attività estrattive), in termini di trasferimenti tecnologici – soprattutto in relazione alla transizione verde – si tende a utilizzare la tecnologia cinese d’avanguardia, che talvolta include anche manodopera proveniente da quel paese. (20)
La lotta inter-imperiale si completa con gli Stati Uniti: sebbene questi temi sembrino assenti nelle dichiarazioni del Dipartimento di Stato, in più occasioni il capo del Comando Sud, Laura Richardson, ha espresso manifestamente l’interesse strategico verso il Sud America da parte del suo Paese (per quanto riguarda acqua, petrolio, litio, tra le altre cose). (21)
Aggiungiamo infine che la Russia, in quanto attore tendenzialmente egemonico in un mondo multipolare, è ben lontana dall’avere la portata delle potenze sopra menzionate nel campo della disputa per la transizione energetica.

Un altro elemento distintivo significativo tra questi tre ‘consensus’ è il ruolo dello Stato. Sappiamo che il “Washington Consensus” era improntato ad una logica di Stato minimo e il “Commodities Consensus” sosteneva uno Stato moderatamente regolatore, ma in stretta alleanza con il capitale transnazionale.
Da parte sua, il “Decarbonization Consensus” sembra inaugurare l’emergere di un tipo di neo-statalismo pianificatore – in alcuni casi più vicino a uno Stato eco-corporativo – che cerca di combinare la transizione verde con la promozione di fondi privati ​​e la finanziarizzazione della natura. In questo modo, le transizioni ecologiche promosse dalle istituzioni governative e dallo Stato tendono ad avvicinarsi, agevolare e fondersi con le transizioni aziendali, in una dinamica di sottomissione del settore pubblico agli interessi privati.
Tuttavia, in alcuni casi in cui si verificano cicli intensi di mobilitazione sociale, lo Stato può tentare di recuperare una certa autonomia relativa, promuovendo transizioni ecosociali che che incoraggino il decentramento e la deconcentrazione del potere aziendale.

Allo stesso modo, sebbene sia il “Commodities Consensus ” che il “Decarbonization Consensus” implichino una logica estrattivista, i prodotti e i minerali richiesti sono cresciuti. Nel primo caso si tratta principalmente di prodotti alimentari, idrocarburi e minerali come rame, oro, argento, stagno, bauxite e zinco, mentre nel secondo, oltre ai minerali citati, il focus di interesse cade nei cosiddetti minerali critici per la transizione energetica come litio, cobalto, grafite, indio, tra gli altri, e le cosiddette terre rare.
In entrambi i casi, l’estrazione e l’esportazione di materie prime hanno conseguenze catastrofiche in termini di distruzione ecologica e generazione di dipendenza.
Tuttavia, come sostiene la sociologa tedesca Kristina Dietz (22), un aspetto chiave che differenzia l’estrattivismo verde dal neo-estrattivismo è il discorso utilizzato per legittimare il primo, poiché gli attori che lo promuovono sostengono che sia sostenibile e che sia l’unico modo possibile per affrontare l’emergenza climatica.

Decarbonizzare sì, ma con giustizia geopolitica

Affinché la decarbonizzazione esca da questa logica perversa, è necessario demercificarla e decolonizzarla attraverso una contestazione strutturale.
Qualsiasi ipotesi di transizione ecosociale giusta e globale deve affrontare questa sfida e non può ancorarsi solo al livello locale – come spesso accade – ma deve considerare prioritario anche il livello geopolitico. Ciò implica incorporare l’imperativo della decrescita da parte del Nord del mondo, così come il debito ecologico che questo ha nei confronti dei popoli del Sud, cercando di generare ponti tra gli attori e i diagnostici critici, nel perseguimento della giustizia ecologica globale.

Il Nord del mondo deve urgentemente iniziare a decrescere in diversi ambiti: in termini di consumo, di riduzione della sfera della mercificazione, della dematerializzazione della produzione, del trasporto e della distribuzione dei tempi di lavoro. Sebbene in buona parte delle proposte di decrescita i suddetti fattori appaiano articolati in una logica di redistribuzione sociale, la “dematerializzazione” – cioè la riduzione dell’intensità dell’uso di materie prime ed energia – è inesorabile. Sebbene si tratti di una responsabilità prioritaria del Nord globale, ciò non significa che sia “solo una cosa del Nord”, come spesso si sostiene nel dibattito pubblico, e che il Sud debba rivendicare il suo “diritto allo sviluppo”, poiché sono il cosiddetto sviluppo e la logica della crescita insostenibile ciò che oggi ci spinge verso il collasso.

La decrescita è un’esigenza di giustizia globale, nel quadro di un pianeta già danneggiato. Inoltre, come hanno messo in guardia vari propugnatori della decrescita (tra cui Giorgos Kallis, Federico Dimaria e Jason Hickel, tra i tanti), la progressiva riduzione del metabolismo sociale si tradurrebbe in una minore pressione sulle risorse naturali e sui territori del Sud, cosa che aprirebbe uno “spazio concettuale” (23) nel Sud del mondo indispensabile per procedere verso il post-estrattivismo. Come afferma Hickel, “la decrescita è un’esigenza di decolonizzazione.
I paesi del Sud devono essere liberi di organizzare le proprie risorse e il proprio lavoro attorno alla soddisfazione delle necessità – umane e non – al servizio della crescita del Nord”. (24)

Il complemento della decrescita non può essere altro che il pagamento del debito ecologico ai popoli e i paesi del Sud. In termini contabili, il debito climatico non è altro che una linea nel bilancio di un debito ecologico più ampio. Pertanto, il debito ecologico potrebbe essere inteso come l’obbligazione e la responsabilità che i paesi industrializzati del Nord hanno nei confronti dei paesi del Sud, per il saccheggio e l’usufrutto dei loro beni naturali (petrolio, minerali, foreste, biodiversità, beni marini), a scapito dell’energia umana dei suoi popoli e della distruzione, devastazione e contaminazione del suo patrimonio naturale e delle sue stesse fonti di sussistenza. (25)

Il debito ecologico è, inoltre, strettamente legato al debito estero. Il sovrasfruttamento delle risorse naturali si intensifica quando le relazioni commerciali peggiorano per le economie estrattive, che devono far fronte ai pagamenti del debito estero e finanziare le importazioni necessarie. (26)
La pressione che i centri capitalisti esercitano sulla periferia per estrarre risorse naturali è aggravata nel contesto del debito estero. L’imperativo della crescita dei paesi ricchi ha come contropartita il “mandato esportatore” del Sud 27, che nei paesi capitalisti periferici appare associato alla necessità di pagare il debito estero e i suoi interessi, cosa che rinnova un ciclo interminabile di disuguaglianza.
Ciò accade oggi in Argentina, un paese che si trascina un debito estero (contratto dal governo neoliberista di Mauricio Macri tra il 2015 e il 2019) che gli impedisce di pensare a qualsiasi alternativa di cambiamento se non quella di espandere i confini del neo-estrattivismo, per ottenere i dollari che possano alleggerire il pagamento degli interessi sul debito estero al FMI.

Per decenni ci sono state numerose e ricorrenti iniziative che richiedono una riparazione integrale delle responsabilità storiche e che articolano altrettanto esplicitamente il debito ecologico con il debito estero. Questo è stato il caso della campagna “Chi deve a chi?” che, al culmine del movimento alter-globalizzazione all’inizio del secolo, esigeva la cancellazione del debito estero e il pagamento del debito ecologico. Oltre alla denuncia del carattere illegittimo del debito estero, l’obiettivo era quello di sensibilizzare la popolazione del Nord del mondo sulla responsabilità del debito ecologico. (28)
Più di recente, il 27 febbraio 2023, il movimento “Debito per Clima” ha lanciato un invito a incontrare i rappresentanti dei paesi più colpiti dall’intersezione tra crisi climatica e debito, al fine di discutere la riduzione del debito per il Sud globale e consentire così una transizione giusta. In quel giorno si celebrava il 70mo anniversario dell’Accordo di Londra con il quale la Germania ricevette la cancellazione del 50% del debito che aveva accumulato prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. Alcuni dei paesi che hanno permesso alla Germania di sperimentare il cosiddetto “miracolo economico”, grazie a questo condono, sono oggi pesantemente indebitati. Tuttavia, la Germania ostacola qualsiasi misura progressiva volta ad alleviare a questi paesi il pesante fardello debitorio, paesi che – nel mentre – stanno subendo le devastanti conseguenze della crisi climatica (come ad esempio il Bangladesh).

Secondo l’economista Alberto Acosta, se questo fu possibile per la Germania, in un contesto post-bellico, perché non dovrebbe essere possibile per i Paesi del Sud, in uno scenario post-pandemico e di emergenza climatica?
Inoltre, l’Accordo di Londra ci offre anche una lista di questioni da considerare per affrontare il debito estero: capacità di pagamento, condoni sostanziali del debito, significativa riduzione dei tassi di interesse, trasparenza nei negoziati per determinare i vantaggi delle parti, clausole di contingenza, schemi di gestione delle controversie e la possibilità di un arbitrato equo e trasparente, tra le varie cose.
Per avanzare nella ricerca di soluzioni durature è necessario, anche se non sufficiente, esigere la remissione dei debiti, incontri con la cittadinanza e attenzione alle reiterate denunce di tanta violenza e corruzione vincolate al debito estero. (29)
Insomma, una riconfigurazione del sistema finanziario internazionale che affermi con determinazione che nessun paese si salva da solo, cosa che non si darà di certo in maniera spontanea, ma che richiede una riattivazione delle articolazioni internazionaliste che collegano il Nord e il Sud globale in uno scenario di policrisi di civiltà.

In questo quadro, la decrescita e il post-estrattivismo sono due prospettive complementari, di carattere multidimensionale, che consentono la creazione di ponti internazionalisti e Nord-Sud attorno ad una transizione ecosociale globale. Entrambi formulano una critica ai limiti ecologici del pianeta e sottolineano l’insostenibilità dei modelli di consumo imperiali e l’ulteriore aggravamento delle disuguaglianze sociali. Sono concetti-orizzonte che costituiscono un punto di partenza per costruire strumenti di cambiamento e alternative di civilizzazione, basati su un altro regime socio-ecologico, diverso dall’economicismo e dal pragmatismo di certi ambientalismi di circostanza, capaci di muoversi in chiave di giustizia climatica verso un orizzonte di trasformazione ecosociale.

Costruire transizioni ecosociali giuste, popolari e territorializzate

A differenza di quanto propone il “Decarbonization Consensus”, l’energia deve essere pensata come un diritto e la democrazia/sovranità energetica come un orizzonte per sostenere il tessuto della vita. La giustizia ecosociale deve avviarsi veso l’eliminazione della povertà energetica e la disarticolazione delle relazioni di potere. In un orizzonte di giusta transizione energetica, dobbiamo lasciare i combustibili fossili nel sottosuolo e “invertire la tendenza” per quanto riguarda i processi di sfruttamento degli idrocarburi, come suggeriscono le compagne dell’organizzazione colombiana Censat Agua Viva, il che implica una rottura di significato per dare un nuovo significato alla natura

Sono sempre più numerose le voci che, fortunatamente, cercano di smascherare il “Decarbonization Consensus”, sostenendo che la transizione energetica non può avvenire a scapito dell’acqua, degli ecosistemi e delle persone.(30)
Allo stesso tempo, mostrano che proprio le transizioni ecosociali non sono e non possono essere una proiezione nel futuro, ma piuttosto si stanno verificando nel presente, nell’esperienza quotidiana di molteplici territori urbani e rurali, nel Nord e nel Sud.
Di conseguenza, la sfida non è tanto quella di costruire nuove utopie e narrazioni eco-utopistiche per il mondo in cui vorremmo vivere, ma piuttosto di espandere, riconoscere e potenziare queste pratiche, promosse da comunità, organizzazioni e vari movimenti sociali, che già esistono e prefigurano alternative per la società.

Le transizioni ecosociali popolari e territoriali sono quindi ancorate a esperienze concrete che, sebbene locali, possono essere ampliate, connesse e ispirare altre realtà. Presentano diversi assi strategici che si alimentano a vicenda: l’energia (comunitaria), l’alimentazione (agroecologia e sovranità alimentare), la produzione e il consumo (strategie di derelocalizzazione e pratiche post-estrattiviste di economia sociale e solidale, agricoltura urbana), lavoro e ‘cuidado’ – impegno nella cura – (reti di ‘cuidado’ e sociabilità anticapitaliste), infrastrutture (casa, mobilità, ecc.), cultura e soggettività (cambiamento culturale e di mentalità), disputa politica e normativa (generazione di nuovi immaginari politici relazionali vincolati ai diritti territoriali e della natura, l’ecodipendenza, gli ecofemminismi, le molteplici dimensioni della giustizia e dell’etica interspecie).

Queste proposte comprendono che le transizioni ecosociali non possono essere limitate esclusivamente alle questioni climatiche ed energetiche, come avviene nel tipo di transizione dominante, ma devono avere un carattere olistico e integrale.
Rivendicano una trasformazione strutturale del sistema energetico, ma anche del modello produttivo e urbano, nonché dei vincoli con la natura: deconcentrare, deprivatizzare, demercificare, decentralizzare, depatriarcalizzare, degerarchizzare, riparare e risanare.(31)
Inoltre, viene perseguito un concetto di giustizia globale che trascende la visione limitata delle transizioni aziendali: il sociale non può essere separato dall’ambientale, e la giustizia sociale, ambientale, etnica, razziale e di genere sono anch’esse inseparabili.

Lungi dal romanticizzare semplicemente le esperienze di transizione ecosociale, è essenziale comprenderne le contraddizioni, le difficoltà e gli ostacoli interni ed esterni.
In questo registro, la multiscalarità e le mediazioni politiche sono elementi chiave.
Ad esempio, un’alternativa ecosociale limitata a piccole comunità e luoghi specifici, che non si relazionano con altre esperienze, non è paragonabile a esperienze localizzate, ma non localiste, che cercano di costruire articolazioni e significati oltre il proprio territorio. In un contesto di progressiva deglobalizzazione, la tentazione di una forte disconnessione è forte. Ma per una giusta transizione verso il progresso, abbiamo bisogno della creazione di forti blocchi regionali, oltre che avanzare nella direzione di uno Stato ecosociale.

La crisi ecologica e climatica sta introducendo nuovi rischi, nella maggior parte dei casi con danni irreversibili, che colpiscono la popolazione in modo diseguale. Come sottolinea l’economista Rubén Lo Vuolo, occorre superare la logica di uno Stato che ripara i danni per costruire invece uno Stato capace di prevenirli.
Si deve pensare la distribuzione in maniera indipendente dalla crescita. Uno Stato ecosociale dovrebbe cercare un meccanismo di protezione sociale il più universale possibile. Prima di garantire la pensione (a chi ha versato contributi per anni), bisogna puntare ad un reddito universale o reddito di base, per passare da uno Stato compensativo ad uno Stato preventivo, attento più ai bisogni del popolo che agli interessi delle aziende.(32)

Tutto ciò difficilmente potrà accadere senza una mobilitazione sociale costante, coordinata e di massa. Non si tratta solo di riunire movimenti per il clima o di ripensare l’ambientalismo, ma anche di integrare una molteplicità di lotte non sempre si sono collegate tra loro, ma che negli ultimi anni tendono ad aderire progressivamente al paradigma delle transizioni giuste, contribuendo ad avanzare nelle sue diverse dimensioni: movimenti femministi, antirazzisti, contadini, indigeni, animalisti, sindacali, popolari e di economia popolare e solidale, tra le tante. Lontano dalle soluzioni individualistiche che emergono dal “Decarbonization Consensus”, questo ci permette di comprendere che la soluzione è collettiva: che non è solo tecnica, ma semmai profondamente politica. Questa è la chiave per generare processi di confluenza e di liberazione cognitiva che ci permettano di sentirci soggetti importanti, anche se non unici, nella costruzione urgente e necessaria di una storia interspecie che meriti di essere vissuta. (2. Fine)

*  Da Revista Nueva Sociedad n° 306/Julio – Agosto 2023 – Originale dell’articolo in spagnolo qui.
** Traduzione di Giorgio Tinelli per Ecor.Network

Breno Bringel: è sociologo, attivista e scrittore. È professore presso l’Instituto de Estudios Sociales y Políticos de la Universidad del Estado de Río de Janeiro, ricercatore presso il Consejo Nacional de Desarrollo Científico y Tecnológico (cnpq) del Brasile e ricercatore senior presso l’Universidad Complutense di Madrid. Tra i suoi libri più recenti Social Movements and Politics during Covid-19 (con Geoffrey Pleyers, Bristol up, 2022). È promotore del Patto Ecosociale e Interculturale del Sud e di numerose iniziative di ricerca e azione.

Maristella Svampa: è sociologa, attivista e scrittrice. Attualmente è ricercatrice senior presso il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet) dell’Argentina. Tra i suoi ultimi libri El colapso ecológico ya llegó. Una brújula para salir del (mal) desarrollo (con Enrique Viale, Ed. Siglo XXI, Buenos Aires, 2020). È promotrice del Patto Ecosociale e Interculturale del Sud.


Note: 

14) Melisa Argento, Ariel Slipak y Florencia Puente: «Litio, transición energética, economía política y comunidad en América Latina» in: Ambiente, cambio climático y buen vivir en América Latina y el Caribe, Clacso, Buenos Aires, 2022.

15) Per ulteriore informazione, vedi pacha.aerocene.org.

16) A. Pérez: op.cit., p.58.

17) Disponibile su single-market-economy.ec.europa.eu/publications/european-critical-raw-materials-act_en.

18)«SOMO Position Paper on Draft Critical Raw Materials Regulation», 17/5/2023, disponibile su somo.nl/somo-position-paper-on-critical-raw-materials-regulation/.

19) M. Svampa y A. Slipak: «Amérique Latine, entre vieilles et nouvelles depéndances: le rôle de la Chine dans la dispute (inter)hégémonique» in Hérodote. Revue de Géographie et de Géopolitique vol. 2018/4 N° 171, 2018.

20) M. Argento, A. Slipak y F. Puente: op. cit.

21) Camilo Solís: «Laura Richardson: la jefa del Comando Sur de EEUU que pretende el litio sudamericano y que cierren Russia Today y Sputnik» in Interferencia, 6/6/2023.

22) K. Dietz: «Transición energética y extractivismo verde», Serie Análisis y Debate No 39, Fundación Rosa Luxemburgo, Oficina Región Andina, Quito, 9/2022. Vedi articolo in questo numero, p. 108.

23) F. Demaria: “Decrescita: una proposta per promuovere una trasformazione socio-ecologica profondamente radicale” in Oikonomics n° 16, 11/2021. È opportuno chiarire che mentre in Europa il dibattito sulla decrescita è andato oltre l’ambito militante, abbandonando il suo carattere “astratto”, per permeare i rapporti del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (che mettono in discussione la logica della crescita economica), inserendo sempre più nella discussione politica istituzionale dell’UE, negli Stati Uniti, al contrario, questo continua ad essere un tabù, anche all’interno degli ambienti ecosocialisti, che difficilmente torneranno su di esso nei dibattiti sulla transizione ecosociale.

24) J. Hickel: «The Anti-Colonial Politics of Degrowth» in Resilience, 4/5/2021.

25) «Alerta verde No 78: ¡No más saqueo, nos deben la deuda ecológica!» in Ecología Política No 18, 1999.

26) M. Svampa y E. Viale: «De la ceguera ecológica a la indignación colectiva» in ElDiarioAR, 14/5/2023.

27) Francisco Cantamutto e Martín Schoor: «América Latina y el mandato exportador» in Nueva Sociedad edición digital, 6/2021, disponible en nuso.org.

28) Joan Martínez Alier e Arcadi Oliveres: ¿Quién debe a quién? Deuda ecológica y deuda externa, Icaria, Barcelona, 2010.

29) A. Acosta: «Un aniversario histórico, 70 años del Acuerdo de Londres. ¿Por qué es un imposible para los países del sur?» su Ecuador Today, 23/2/2023.

30) Vedi El Manifiesto de los Pueblos del Sur por una Transición Justa y Popular, 2023, disponibile su pactoecosocialdelsur.com/manifiesto-de-los-pueblos-del-sur-por-una-transicion-energetica-justa-y-popular-2/.

31) Si vedano a questo proposito i lavori di Pablo Bertinat e la Declaración de Bogotá del Pacto Ecosocial e Intercultural del Sur.

32) R. Lo Vuolo: «Crisis climática y políticas sociales. Del Estado de Bienestar al Estado Eco-Social», Serie Documentos de Trabajo CIEPP No 111, 12/2022.
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alexik

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