Dal Ristorante dei morti alle fondamenta dell’utopia
di Natalino Piras
C’era sempre il progetto di Fulgenzio Biraghi da seguire. L’ingegnere aveva dato ordine a un geometra della sua impresa di far scaricare a valle i tubi di latta che mandavano bagliori misteriosi, da pittura fiamminga, come il rame da cucina nel salone da pranzo del Ristorante dei morti: pentole, casseruole, tegami e paioli tirati a lucido, magnifico quadro di esposizione, con i singoli elementi tenuti da anelli di ferro e pioli in legno saldati al muro con calce e cemento.
Certo era ben strano che Biraghi, a capo di quasi 100 operai, uno che su questi esercitava carisma, se la facesse con la gente del Ristorante dei morti, perdere tempo a spiegare la sua utopia a un precario di scuola, a un presunto puttaniere e a un perditempo impegnato a vita nella causa di dover cambiare nome. Disse Fulgenzio Biraghi a Curandero che dopo lo spuntino sarebbero scesi giù alle fondamenta del viadotto, per verificare lo stato dell’arte. Fu allora che Nanni Pompa Idem, grattandosi il naso arrossato, soffiando a sbuffi e intercalando con accidenti alla sua rinite che non lo lasciava in pace, proclamò che prima di scendere a valle, a quel luogo! bisognava toccarsi. Fece un gesto ampio e insieme rapido. «Guarda che la cosa è seria» lo redarguì seccato l’ingegnere. «E chi dice di no. Più seria di così c’è solo la tragedia e quello, il fondo della valle, è una tragedia». Non gorgogliava né abbassava il tono di voce come quando era consapevole di dire coglionerie e di spararle grosse. Si avvicinò anche Enea Silvio Pio Piccolomini e servì di suo, senza che nessuno glielo avesse ordinato, vino e biccerinos di abbardente. L’odore forte dello zurrette impregnava totalmente l’aria quando arrivò pure Ballacaminos, in fuga dagli obblighi scolastici. Come lo vide entrare saettante, in colore cane ughinne, a Curandero sovvenne dell’ombra che qualche ora prima aveva visto saltare di porta in porta allo scolastico. Disse Ballacaminos a camice sbottonato e però in maglione collo alto e pantaloni pesanti, che fuori faceva freddo. Ma dentro si stava bene sia che parlasse l’ingegnere sia che si servisse il sanguinaccio. La lezione avrebbe potuto iniziare se non fosse stato per i gesti apotropaici di Nanni Pompa Idem. E non finiva lì. Lo sciupafemmine parlava adesso a fascino di racconto anche se fiaba non era quella che raccontava. «E cos’è? Vi dimenticate che dove i nuovi schiavi dell’ingegnere innalzano piramidi per sostenere la pazzia del viadotto – ma io sono con lei ingegnere – lì alle fondamenta c’è ancora il ponte degli zappatori, quello che cavalca il fiume là dove ingrossa e tumultua, dove scannarono a ferro freddo il parroco di Astores, cento e passa anni fa. Quel prete tirava le fila, per la sua fazione che qui ad Astores era predominante ed era invece soccombente a Spiritu. Da qui si muoveva guerra civile, per pascoli e terre contese, per il cumonale che secondo la fazione avversa al prete doveva tornare a proprietà privata. Era insomma il tempo delle tanche fatte chiudere a muro e a siepi dai potenti e dai prepotenti che disponevano di veri e propri eserciti oltre che di servi da pagare per niente, per un tozzo di pane, a volte neppure quello. Il prete era terribile e potente, tanto convinto di sé e della sua forza che si dicesse avesse fatto patti con chi sa quale demonio e si mise contro il vescovo di Nuoro che voleva contrastarlo, quel prete che per proteggere e fare fruttare i propri interessi era pure disposto a mascherarsi, a insegnare ai pastori l’arte dell’innesto. Con le mani sapeva aprire il libro, alzare il calice della messa e pure il cane della pistola e dicendo questo io, cari signori, non voglio essere blasfemo anche se sono ateo. Taverniere! Il fulmine che ti scenda! La mano secca hai?»
L’aspro dell’acquavite fungeva da traccia invisibile per l’olfatto nel penetrante odore dato dalla cottura dello zurrette. Ma a quelli sembrava profumo celestiale, anche al forestiero Biraghi che in quanto a bere non scherzava quel giorno e aveva mandato giù con un sorriso neppure tanto forzato la puntura di spillo di Nanni Pompa Idem a proposito di pazzia del viadotto.
Scesero a valle dopo la pantagruelica mangiata, accompagnata da vino rosso cannonau delle vigne di Enea Silvio Pio Piccolomini, propinque al ponte degli zappatori e che non potendo né volendo coltivarle lui personalmente, per la questione che la terra è sempre in basso, le aveva affidate a una coop di Nuoro ma ci sapeva ricavare il proprio per sé e per il Ristorante dei morti.
A Curandero girava un poco la testa. Il paesaggio gli veniva incontro mentre scendevano in macchina le curve della valle maledetta. Disse Biraghi che ci volevano meno di dieci minuti e avrebbero fatto a tempo a vedere l’incanto dell’ultima luce quando è trattenuta dalle pareti delle piramidi. Era vero. Proprio così. Sembrava una scena biblica. Un raggio da ultimo sole forava un cumulo di nuvole gonfie di nero. Il cielo restante faceva orizzonte andando a fondersi con la montagna intorno a Nuoro allungata sino alla punta dove avevano collocato Astores, in chi sa quale notte dei tempi. «Sarà così l’inizio del giudizio universale nella valle di Giosafat, come questa luce». Curandero snebbiava dopo una discesa da brividi. Fulgenzio Biraghi aveva guidato da cani dopo che si era stretto la cintura della tuta intorno alla vita e sembrava il mugnaio Eulindo Dore quando ebbro, con una tuta simile, inveiva contro benpensanti, scienziati, filosofi e laureati di Spiritu, ci metteva in mezzo anche carabinieri e qualche dama di compagnia.
Una volta scesi dalla macchina inzaccherarono scarpe e scarponi. C’era fango all’entrata del cantiere ma lo spettacolo ne valeva la pena, un raggio di sole che batteva nella parete obliqua della piramide, luminoso come un quadro di Paul Klee. Curandero era come se vedesse disegnate in quel cemento illuminato le scalee dei templi degli Inca, in questa Macchu Picchu rovesciata che era la valle selvaggia di Astores. Gli venne come tremore e gli arrivava come da lontano la voce di Fulgenzio Biraghi che invece gli stava a fianco: «Ci riusciremo, sento che ci riusciremo».
Natalino Piras, Barbaricinorum libri 1. Il Condaghe di Santu Andria Rebek
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Immagini: Nico Orunesu