Decreto dignità: tre punti di vista
Le analisi di Antonello Boassa e Franco Astengo con un dialogo (ottimista?) disegnato da Chief Joseph
UN PASSO AVANTI E DUE INDIETRO
di Antonello Boassa
Un segno di controtendenza? Sì, se lo si studia con un’angolazione ristretta. Di riaffermazione dei Jobs act se lo si esamina nei dettagli e nei suoi principi di fondo.
Tra i tanti meriti che gli vengono attribuiti: un sostegno al dopo il licenziamento, nei contratti a tutele crescenti, con un aumento da quattro a sei mensilità come soglia minima e da 24 a 36 come soglia massima. Una cosa buona per sopravvivere un poco di più. Ma nessuna altra garanzia. Rimane invariato il concetto di licenziabilità ingiustificata da risolvere con una elemosina. Rimane fuori dalla porta l’articolo 18 che tutela il lavoratore dai capricci e dai ricatti del padronato. Viene riaffermata l’esclusione dell’articolo 18 che simboleggiava realmente la conquista della dignità e che, in assenza, simboleggia, nei jobs act e così ora nel c.d. Decreto dignità, il potere dittatoriale dell’imprenditore, dell’impresa.
Può essere considerato positivo l’abbassamento del contratto a tempo determinato a 24 mesi e non più a 36 con quattro proroghe e non più cinque. Ma non esistono prescrizioni perché ciò venga rispettato. Il padrone o il padroncino possono licenziare e poi riassumere facendo rimanere il lavoratore sempre al primo gradino. Non solo. Non vi sono delle norme che costringano l’impresa a non praticare il turn-over licenziando ed assumendo nuovi lavoratori a tempo determinato e che prescrivano invece che un determinato numero di lavoratori già assunti precariamente conquistino il tempo indeterminato.
Altra novità rispetto ai tempi bui creati dalla Riforma Fornero è il recupero della “causalità”. il datore di lavoro deve giustificare l’utilizzo del contratto a tempo determinato (assenza di personale o aumento del carico di lavoro, previsioni di aumento del fatturato…). Anche questa una cosa buona, tuttavia facilmente smontabile dal datore di lavoro che può scrivere tutte le menzogne che vuole( chi ha avuto a che fare con i capitani dell’industria conosce la malafede, l’arroganza, l’astuzia, la complicità con il potere politico).
Misure contro le delocalizzazioni. Ottimale sarebbe. Le imprese che delocalizzano con aiuti di stato dovrebbero subire delle sanzioni pesanti( restituire i fondi ricevuti ed essere multate). Le imprese ricevono regalie notevoli in forma di sussidio all’occupazione, tramite varie tipologie di bonus fiscale, da parte dello Stato, nonché altre agevolazioni che provengono da fondi europei… Ma nessuna di tante donazioni può essere configurata come aiuto di stato che è proibito dalle normative dell’Unione Europea. Potrei affermare che nessuna impresa sarà penalizzata per aiuti di stato. Perciò nessun reale ostacolo alla esternalizzazione oltre i nostri confini
Per quanto riguarda il lavoro relativo alle piattaforme digitali. per il lavoro a chiamata, per il lavoro c.d. “non subordinato” e per tutte le altre forme di precariato indecenti e “indegne” nessun intervento. Categorie di lavoratori senza nessuna tutela (ferie, maternità, infortunio, malattia…) lasciati completamente allo sbando dai jobs act, e ancor prima dalla c.d. legge Biagi…
Naturalmente la Confindustria è montata su tutte le furie perché ha scorto qualcosa che non era in linea con la politica anti-operaia di questi ultimi 40 anni e che ha visto nel PD il pilastro neoliberista delle conquiste confindustriali di questi ultimi anni. Il PD, del tutto inconsapevole delle regioni profonde delle sue sconfitte, ha farneticato di prossimo disastro occupazionale, dovuto alla “rigidità del mercato del lavoro” creato dai 5Stelle. Le grida di questi avventurieri della politica accompagnata dalle asinerie del mainstream (capofila come di consueto “Repubblica”) hanno fatto pensare a molti che il Decreto avesse un carattere eversivo. Ci hanno pensato poi i 5Stelle a pompare l’importanza “rivoluzionaria” di un provvedimento legislativo che scalfirà appena il diritto al lavoro fondato attualmente sul precariato e sulla mancanza di dignità del lavoro.
Ma è importante che non venga sottovalutato dai sindacati di base (USB, Cobas…), che sappiano aprire vertenze sulle problematiche sollevate dai 5Stelle (abbassamento dei contratti a tempo determinato, indennità per il licenziamento, delocalizzazione…) e che riescano a introdurre nuovi termini di conflitto (lavoro a chiamata, lavoro “non subordinato”…).
Due passi indietro perché è stata sancita con questo Decreto la legittimità dell’esclusione dell’articolo 18 che è la vera garanzia della dignità del lavoro, il simbolo della conflittualità di classe tutelata per legge. Al di là di questo articolo si è potuto assistere al crollo dei diritti sindacali e del lavoro, della democrazia interna alla fabbrica, dello sbandamento della classe operaia, del suo declassamento politico, della sua decimazione. Perciò un ringraziamento ai 5Stelle per essere andati, pur con tutti i limiti che ho voluto rilevare, in “controtendenza”… e un appello ai militanti perché sappiano andare oltre… per recuperare realmente la “dignità” perduta.
NOTA
Tra gli articoli di rilievo di commento al “Decreto Dignità” cito innanzitutto “Il decreto che conferisce dignità al jobs act” di Giorgio cremaschi in “Micromega 4/7/18, da tempo fuori dalla Cgil e vicino attualmente ai sindacati di base. La vicinanza ideologica con il sottoscritto risulta evidente. Naturalmente più autorevole il testo di Giorgio Cremaschi.
Voglio ricordare anche Federico Martelloni “Lavoro e (decreto) dignità” Micromega 3/7/18 e Norberto Fragiacomo “Decreto dignità: un primo passo (timido) in controtendenza” in l’interferenza 6/7/18.
SUL DECRETO DIGNITA’
di Franco Astengo
E’ necessario chiarire con grande precisione che l’approccio mantenuto da questo governo rispetto al tema del lavoro è assolutamente identico a quello dei precedenti esecutivi, di centro – sinistra, centro – destra, tecnici e di solidarietà nazionale.
Ci si occupa, infatti, delle norme riguardanti l’accesso al lavoro (job act, anti – job act, limiti e non limiti della precarietà, centri per l’impiego, allargamento del REI, ecc, ecc) e non del modificare i termini – assolutamente decisivi e ormai completamente trascurati da troppi anni – nei quali il “pubblico” deve intervenire sulle grandi questioni della presenza industriale di un Paese di 60 milioni di abitanti come l’Italia, in un quadro internazionale mai così complesso come in questo momento nella lotta tra le grandi potenze.
Su questo tema il governo populista – sovranista è assolutamente in linea con quelli degli ultimi 30 anni.
In linea nella subalternità alle esigenze malate dei “padroni del vapore”, alla speculazione finanziaria, a una produzione di basso profilo e all’intensificazione dello sfruttamento in settori tutto sommato marginali .
Ribadisco quanto già scritto in diverse occasioni ma non mi pento della ripetizione: si prosegue nella scia del modello sulla base del quale, a suo tempo – anni ‘80 –‘90 del XX secolo – fu realizzato lo smantellamento dell’IRI, le privatizzazioni, l’uscita dell’Italia dai settori strategici senza contrattazione neppure a livello europeo (Prodi Ministro dell’Industria di Andreotti e commissario della stessa IRI).
In questo senso appaiono come centrali e assolutamente prioritarie le drammatiche vicende legate al progressivo processo di ulteriore de-industrializzazione in atto nel nostro Paese che chiamano a una riflessione attorno alla possibilità di avanzamento di una proposta di politica economica tale da rappresentare un’alternativa, aggregare soggetti, fornire respiro a un’iniziativa “di periodo”.
Il concetto di fondo che è necessario portare avanti e rilanciare è quello della gestione e della programmazione economica, combattendo a fondo l’idea che si tratti di uno strumento superato, buono soltanto – al massimo – a coordinare sfere private fondamentalmente irriducibili.
Serve una gestione e programmazione economica condotta avendo al centro l’idea dell’iniziativa pubblica in economia attorno ad alcuni fondamentali campi d’intervento che richiedono anche un forte impegno di investimento sul piano della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica.
Nel frattempo, infatti, l’abbandono di questa partita ha provocato almeno tre fenomeni dirompenti: la crescita strutturale della disoccupazione (altro che “rider”), la fuga dei cervelli, l’obsolescenza degli impianti e di conseguenza l’esplosione della crisi nel rapporto ambiente/lavoro.
Anche la storia delle delocalizzazioni sta in questo quadro: manca il riferimento forte delle grandi strutture industriali nei settori decisivi, e di conseguenza delle loro necessità di indotto e di infrastrutture che contribuiscono a creare lavoro stabile.
Non ci si può limitare alle scarpe, alla “fashion”, al turismo, alle cooperative di servizio, alla consegna dei pasti a domicilio.
Certo: viviamo nella globalizzazione, ma il significato della globalizzazione non è quello del “nomadismo e dell’insignificanza produttiva”.
Anzi è ancor più necessario poter disporre di impianti industriali all’altezza della competizione internazionale e in diretto rapporto con i colossi mondiali nei campi decisivi dell’energia, della siderurgia, della chimica.
Difficilmente avendo abdicato a proprietà e programmazione pubblica sarà possibile risalire la china, ma quella dovrebbe essere la strada e non altra soprattutto se si intende pensare ad una alternativa.
Rendiamocene conto: sono questi i temi fondamentali, senza farsi sviare da false interpretazioni e dalla propaganda.
DISEGNATO E COMMENTATO DA CHIEF JOSEPH
“Con il Jobs act, nei primi due mesi del 2017 sono stati registrati 5347 licenziamenti disciplinari, con un aumento del 30% circa rispetto allo stesso periodo dello scorso anno e del 65% circa rispetto a quando la normativa era diversa ed era previsto il reintegro in caso di licenziamento illegittimo.” Dati dell’Osservatorio sul precariato dell’INPS.
P.S. Con il Jobs act è disciplinarmente legittimo licenziare un lavoratore che sparla e appella i colleghi in modo strano.
LE PRIME DUE IMMAGINI (scelte, al solito, dalla “bottega”) SONO DI GIULIANO SPAGNUL.