Dèi marziani (e inca) di Watson in edicola
Qualche tempo fa in blog ho ringraziato Ian Watson per averci ricordato, attraverso il romanzo «I giardini della delizia», che Hieronymus Bosch era uno scri(pi)ttore di fantascienza. Adesso il nuovo Urania – numero 1581 – conferma che il “blasone originario”, il primo pregio della science fiction è l’essere «letteratura di idee» (lo stile viene dopo ed è secondario). Elementare Watson ma grazie per ribadirlo spesso e per dimostrarlo magnificamente in questo vecchio romanzo (1977) che finalmente viene tradotto – da Salvatore Proietti – e arriva in edicola con il titolo «Gli dei invisibili di Marte» (240 pagine per 4,50 euri) mentre quello originale suonava «The Martian Inca» e, a mio gusto, era più accattivante. In compenso la copertina ricorda (o la memoria mi tradisce?) una di quelle del caleidoscopico Carolus Adrianus Maria Thole, cioè Karel Thole, che dal 1959 al 1998 ha costruito immagini all’altezza – qualche volta un piano sopra o un quartiere più in là – della migliore fantascienza.
Questo «Gli dei invisibili di Marte» è particolarmente adatto per chi ama le fanta-religioni; per i fans di Eraclito; per chi si incuriosisce suglistati modificati di coscienza, intendendo le ricerche di Georges Lapassade non le sciocchezze da parapsicologi analfa(e)beti; per chi sogna (o teme) il riscatto dei popoli nativi delle Americhe; ma in definitiva per chiunque cerchi un libro ricco di idee e con una trama non banale.
La storia inizia con una sonda sovietica di ritorno da Marte che precipita nell’altopiano boliviano. Mentre inizia la rivolta (o il risveglio?) degli incas, Watson ci porta nel secondo scenario: sulla Frontiersman – «a 50 milioni di chilometri e a 5 mesi distanza dalla Terra» – dove tre astronauti statunitensi si preparano per la discesa e per iniziare (forse) un esperimento di «terraforming» (con terra-formazione si intende l’usare procedimenti o tecnologie per adattare un pianeta a noi umani) in competizione con i russi che invece mirano a “rendere abitabile” Venere.
Il passaggio chiave è forse (non posso o non voglio essere categorico) in due frasi in quechua, la lingua tuttora parlata da molti popoli “eredi” dell’impero inca: «Huanuscam cani! Chayapuscam cani!» e «camo letrao es cambo fregao» che rispettivamente significano «Sono morto e sono tornato» (la scintilla che può incendiare l’altopiano) e «indio istruito significa guai» (sottinteso: per i dominatori).
Nella seconda parte, la più breve, si ipotizzano i «quanti temporali» e ci si chiede se il famoso John Lilly (qui definito sbrigativamente: «l’uomo dei delfini che è scoppiato per le droghe») e il meno noto Frederik Van Eeden (teorico degli «onironauti» cioè dei sognatori consapevoli) alla fine non avessero tutti i torti.
I nodi vengono al pettine nella terza parte. Quel poco che è corretto rivelare riguarda che il pensare è «sexi» (anzi erogeno) e che probabilmente è inutile «andare su Sirio per trovare gli alieni» perché «gli alieni sono dentro» di noi.
Bella trama, ricca di idee appunto. Quanto allo stile, anche se la scrittura non è sempre impeccabile, a Watson “scappano” alcuni ottimi dialoghi (o monologhi) e almeno tre frasette citabili. «La realtà si rimise in piedi dopo essersi temporaneamente afflosciata» la prima. «La logica appariva impeccabile. Il burlone che era in lui si era divertito; lo scienziato era incantato; il visionario inebriato» (un possibile autoritratto?) la seconda. La terza infine, rubata a Eraclito (doverosamente citato) ma collocata proprio nel posto giusto: «Uomini e dèi muoiono gli uni della vita degli altri e vivono l’uno della morte dell’altro». Anche la definizione di Lsd come «oppio degli agnostici» non è malaccio. Infine che la California «non è uno Stato dell’Unione» ma «uno stato mentale: Manicomio City, Usa» è affermazione da meditare seriamente.
Un’implorazione al traduttore (o a chiunque possa colmare la mia ignoranza) : quando (a pag 29) si cita «un mistero strano come quello del Cane Che Non Aveva Abbaiato» si sta parlando del Basenji (di lontane origini egiziane?) o qualcosa mi sfugge, magari perché non sono anglofono?
Chiude questo Urania il racconto (molto Flower Power) di Roberto Guarnieri, «Anni di piombo», a rinverdire il sogno che una canzone abbia il potere “segreto” di cambiare il corso della storia.
Oltre a essere un ex professore di Futurologia a Bimingham, l’inglese Ian Watson è scrittore spumeggiante e a volte geniale, non immune da peccati (il più grave è, a mio avviso, aver contribuito alla sceneggiatura di «A.I. intelligenza artificiale», una schifezza cosmica firmata Steven Spielberg). Ha scritto romanzi – e qualche racconto – con un buon ritmo dagli anni ’70 al 2004, molti dei quali sono ancora da tradurre in italiano. Se andate su Google (pigrizia incombe?) attenti all’omonimo cestista e comunque non trovate una scheda particolarmente precisa e aggiornata. «The Embedding», il suo primo pregevole romanzo, ha avuto in Italia due edizioni: la prima con il titolo «Il grande anello» da Moizzi e la seconda, come «Riflusso» dalla Nord: mi sento di consigliarlo. Fra quelli che ho letto mi è parso assai interessante, se pure non pienamente riuscito nel frullato filosofico-western, «L’ultima domanda» (del 1996, tradotto l’anno dopo da Urania): «Noi interroghiamo l’ignoto» – frasetta sul cancello, citata da Watson di sfuggita – potrebbe quasi essere un suo simpatico biglietto da visita.
L’arcano riferimento canino e’ per sherlockiani: nel racconto “Silver Blaze”, l’indizio chiave e’ appunto che, la notte del rapimento di un prezioso cavallo, il cane non abbia abbaiato all’intruso. E infatti l’intruso era… [vabbe’, non lo diciamo].
Watson lo evoca per mettere il lettore sull’avviso gia’ all’inizio del libro (e dire che in fondo in fondo gli astronauti stessi si aspettavano l’arrivo di qualcosa di tragico): se quelle scritte sulla parete non compaiono, allora significa che certe tensioni/pulsioni restano sotterranee, e forse sono molto piu’ pericolose. E infatti, via via che la storia procede… [non diciamo nemmeno questo, naturalmente!]
Un saluto e grazie!
Un amico e super-esperto di fantascienza (che è sempre troppo impegnato per scrivere in blog) mi segnala – bacchettandomi qb – che Watson non è autore di “qualche racconto” ma di una decina di antologie, una, scritta a quattro mani con l’italiano Roberto Quaglia (The Beloved of My Beloved, 2009) scritta in inglese e, salvo un racconto sulla rivista Robot, mai tradotta.
Sempre lui, Asef (amico e super-esperto di fantascienza) dissente sull’equazione conclusiva del pre-ps nella recensione del liunedì su Dick (“Dick sta a Poul Anderson come Calvino a Baricco”). E’ offensivo – dice lui – perchè vicino a Dick e Calvino certo Anderson e’ di second’ordine ma mettere un buon intrattenitore con qualche lampo di genio (La spada spezzata ma anche racconti e personaggi sparsi qua e là) sullo stesso livello dell’insopportabile birignao di Baricco no.
Opinioni ovviamente ma vedo, con piacere, che da queste parti è diffuso il disgusto per Bar-oco, Bah-ricco o come si chiama quello.