Del famigerato Angelo Lucanica, detto il Balalòcc. – di Mark Adin

La moglie se n’era andata improvvisamente, a causa di un brutto incidente. La macchina si era fracassata sui pietroni della Sesia, che d’estate, spesso, è quasi asciutta. Prima di carambolare, dall’abitacolo era uscito un grido, uguale a quello che si ascolta sugli ottovolanti, seguito dal rumore di lamiere contorte, locuzione consumata dai taccuini di cronaca sino al logoramento. Quanto era bella, da viva, la moglie Regina! proprio come nelle storie di Bollywood, col bistro che incorniciava gli occhi, la gota rosa, il seno rotondo.

Lui si era messo a bere, alla moda delle storie di Hollywood, la sigaretta incollata alle labbra e lo sguardo nel vuoto, come in Casablanca. Prendeva “balle” non più solo da stordimento, ma da  avvelenamento, all’Osteria dei Vini. Nessuno lo avrebbe riconosciuto, oggi, nella fotografia su cartoncino, di piccolo formato, con i bordi ondulati, dalla quale sorrideva raggiante, che stava sul buffet della cucina, a fianco della stufa economica.  La vidi quando la ditta di traslochi presso cui lavoravo venne incaricata di fargli il sanmartino. Nel portaritratto era bello come un attore degli anni Cinquanta, con il ciuffo imbrillantinato che fiammeggiante rifletteva la luce.

Fui chiamato con il Milanese a trasportare la stufa in ghisa, pesantissima, giù dalle scale, ma prima di arrivare al piano sentii che mi stava scivolando di mano. Era pesantissima, mi accorsi che le forze cedevano. Dovetti scostarmi e lasciare che, sussultando e squassando tra il muro che sbriciolava e la ringhiera che percossa vibrava come un diapason bronzeo, finisse la corsa in un fracasso infernale.

Il Balalòcc era lì che guardava. Esplose una bestemmia secca, si precipitò verso la stufa, raccolse i cerchi rotti e verificò che il piano di ghisa non si fosse nell’urto crepato. Poi scricchiolò un sorriso arrotato e rumoroso e mi tenne stretto nel campo visivo dell’occhio funzionante. Alzò il braccio teso, come a traguardare la distanza nel tiro della boccia, non per mettere il punto, ma per schizzare di un colpo quella dell’avversario, e miagolò:

“Deh, Martell! “ – la voce gli usciva “di testa”, dalla bocca piegata sghemba, violacea  di vino – ” I‘t pichi una lurda cun cinq dit…” , e nel tendere il braccio, la manica del giacchino scoperse  la mano a cui mancavano: due dita per intero e una falange al medio, persi sotto la trancia del ferro. Gracchiò il finale di una risata rauca, e se ne andò per i suoi pensieri. Ma non è esatto che ne parli al plurale: di pensieri, sul fondo del bicchiere, ce n’era soltanto uno. I cretini sorrideranno e agiteranno parole da prete, ma quando si viene presi dal dolore, questo mica ti afferra in modo complicato, ma con semplici manovre. Il dolore non ha bisogno di essere subdolo, non chiede a nessuno di essere scoperto tra le pieghe di qualche diversivo, il dolore ti branca e basta, e ti divora, poco alla volta, brano a brano, senza curarsi della vita che ti esala, senza credere a una sola delle tue grida, come una belva che dilania la preda tenendola fra le sue zampe. Nulla di crudele, è natura.

Tra una sessione d’osteria e l’altra  il Balalòcc, così chiamato per precarietà di sguardo, faceva grandi corse con il suo Dingo, motorino dal nome di cane fedele, per le risaie, da un circolino all’altro, prima di entrare, come Marlon Brando ne “il selvaggio”, nel crogiolo più grande, nella città che gli pareva essere l’estrema sfida, il punto d’arrivo nel quale tutto si sarebbe compiuto. Alle persone toccate, depredate di tutto ma non dell’istinto, guidate da chi o che cosa non è dato sapere, tutto questo accade. E fu così che successe anche a lui.

Nel dilapidare i quattrini rimasti, che dovevano originariamente servire a comprar casa quando lei era al mondo, se non era già troppo ubriaco il Balalòcc si infrattava al Meublè per risentire l’odore di donna, per placare un tormento che ricresceva sempre come il fegato di Prometeo. Così, ogni volta che si sfiatava, dopo la ficcata rabbiosa, rotolato su un fianco, tutto era peggio di prima. E allora schiumava di rabbia e vomitava insulti rivolti all’incolpevole logia che muta incassava, unitamente al denaro. Uscito dal Meublè , Angelo quel giovedì pomeriggio provò un po’ di vergogna, ammise tra sé che la storia si stava facendo diversa.

A pensarci, anche la porca non era come le altre: aveva preso a conoscerlo, e non si riparava più il viso con le mani, per paura di qualche pugno sfuggito per dannazione, infilato di traverso al rosario di insulti grassi che al Balalòcc piaceva di snocciolare nel gran finale. Aveva capito che, lasciandolo fare, in fondo non c’era pericolo, bensì solitudine e lentezza, una disperazione da lei conosciuta, mai vera  violenza. Un pomeriggio, nella stanza che sapeva di letti sfatti e di umido, era sbottata, questa volta lei, in una concatenazione di maleparole che vollero essere “colpi d’incontro”, avrebbe detto un pugile, che si appiccicarono ai suoi, formando una sola espulsione di umori.

Entrambi si erano sorpresi del crepitio di parole da considerarsi, per quanto, di lieta corrispondenza.

Il Balalòcc si era poi infilato in uno dei suoi guai, mandando a fanculo un vigile, un fant che lo aveva fermato a un divieto, arpionandolo a un braccio, e rischiando di farlo cadere di sella, pardon, di sellino. Erano volate parole poco amichevoli ed era stata chiamata la Madama, che aveva ricevuto, all’istante, lo stesso genere di complimenti, e l’Angelo era stato tratto in arresto per “oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale”: tre mesi. “Ma cula bruta facia del mè avucatt el me tira fora in quattr e quattr’ott”, aveva detto ghignando mentre lo caricavano in auto a calci e spintoni.

La signora, la puttana, aveva continuato nel suo commercio, offrendosi sempre alla stessa maniera:  addossata a un portone  lanciava, a bassa voce, chiarissime offerte agli uomini soli e, a volte, anche accompagnati, con l’espressività di un culo di padella stampata sul viso. La schiena a conchiglia, arrotondata dall’artrosi, le gambe legnose, lo sguardo reso fisso dall’abitudine, non si può dire ne facessero la migliore occasione su piazza per soddisfare il turpe desiderio, piuttosto un remedium concupiscentiae. Ricorreva alla popolarità della tariffa per mettere insieme quelle due tre marchette, e tirare avanti.

Quando il Balalòcc uscì di galera, cercò la sua bella: vissero nel reciproco sforzo di trovarsi attraenti.

Percorrendo in motorino le strade bianche tra i campi, lei seduta con le gambe buttate dallo stesso lato, come la Hepburn in “Vacanze romane”, abbracciata al suo uomo, alzavano vaporose nuvole di polvere, che non erano affatto diverse da quelle che si vedevano, in cielo, sfilacciarsi nel vento.

Mark Adin

 

 

Redazione
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2 commenti

  • Anche questo per me è stato un bellissimo regalo di compleanno. Ma devo dire che Mark Adin (che ci sia tutti lo dicon, DOVE SIA nessun lo sa) mi ha abituato male, un po come il messer bianco-coniglio (era lui?) di Alice che faceva regali di non-compleanno. Molti di più.

  • Un ritratto magistrale, grazie Mark.

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