Destrutturare sinapsi cerebrali, emozioni e giudizio di sé dei docenti…

… ce lo chiede l’Europeanization dell’istruzione

 

di Rossella Latempa (tratto da www.roars.it) – come distruggere una scuola, passo per passo

 

Gli insegnanti? “Professionisti della scuola di vecchia data”, chiamati ad aderire ad una riforma fondata “sul cambiamento delle stesse sinapsi cerebrali che presiedono i loro comportamenti routinari, le emozioni, il giudizio su di sé, sulla propria capacità di azione e di interazione con l’altro”. Così li definisce un rapporto di valutazione commissionato dal MIUR a Deloitte Consulting. Un rapporto che non esita a evocare scenari orwelliani quando descrive l’intervento sulla scuola come una “potente distruzione creatrice [..] alla Schumpeter o una rivoluzione del paradigma scientifico alla Kuhn”, che per affermarsi dovrebbe “destrutturare in profondità non solo le pratiche ordinarie delle persone e delle organizzazioni, ma, finanche, le mappe cognitive interiorizzate degli attori“. Il punto è che, lungi dal rappresentare un serbatoio neutro di risorse aggiuntive che la Comunità destina agli Stati membri, la programmazione europea per la Scuola rappresenta un potente strumento di policy change, dotato del suo sistema di “parole d’ordine”: competenze, innovazione, qualità, valutazione, apprendimento permanente. Ancor una volta, concetti ad alto tasso ideologico sono presentati come discorsi educativi ineluttabili nella solita narrativa della necessità dell’innovazione per la “salvezza” della nostra scuola.

“L’ europeanization è quel processo che consiste nella costruzione, diffusione e istituzionalizzazione di regole formali e informali, procedure, paradigmi politici, stili, “modi di fare le cose”, di condividere beni e norme, definiti e consolidati nei processi politici europei e poi incorporati nelle logiche dei discorsi domestici (nazionali e subnazionali), nelle politiche strutturali e pubbliche.”

Così C. Radaelli[1] definisce quel processo di progressivo orientamento e “adattamento” delle politiche nazionali da parte delle dinamiche politico-economiche dell’Unione Europea. Oggi si può parlare di un vero e proprio “spazio” europeo dell’educazione, costruito da diversi attori sociali: decisori politici, tecnici, lobbies, accademici, agenzie private, associazioni[2]. Un’area internazionale di elaborazione e di decisione in materia di istruzione e ricerca scientifica, da collocare in una cornice ancora più ampia[3], come recentemente ricordatoci dal rapporto dell’OCSE “Strategia per le competenze”.  L’idea che istituzioni sovranazionali siano legittimate ad orientare le politiche degli Stati in termini di educazione è piuttosto recente: l’istruzione nei paesi europei è sempre stata un affare nazionale, funzionale al consolidamento dell’identità e della cultura di una comunità. Ogni sistema educativo ha avuto una sua storia, legata all’evoluzione della sua politica, della sua geografia e tradizioni, lingua e tessuto sociale. È a partire dagli anni 90 che istruzione e ricerca pubbliche subiscono una vera e propria trasformazione, che ne ridefinisce obiettivi ed organizzazione interna. Pur restando formalmente di competenza nazionale, dal Trattato di Maastricht del 1992 in avanti, si introduce per gradi una nuova “ortodossia” basata sulla comparazione dei sistemi di istruzione. Un “governo senza governo[4] che dalla strategia di Lisbona del 2000 alla Comunicazione Rethinking education del 2012, fino all’attuale strategia ET2020 si muove su una stessa linea argomentativa: l’educazione deve essere ripensata in funzione di competenze che generino occupazione (employability), produttività e competitività.  L’Unione Europea è diventata così l’attore più influente nella definizione di norme e standard educativi degli Stati membri stabilendo pochi obiettivi universali e d’impatto comunicativo, che riescono a indirizzare le politiche locali senza nemmeno il bisogno di riformularle. Tra gli strumenti economici, politici e strategici con cui l’Europa interviene in maniera indiretta, ma stringente, nei sistemi di istruzione e formazione locali c’è quello della Programmazione Operativa Nazionale (PON).

La Programmazione Operativa Nazionale

Con il PON “Per la scuola – competenze e ambienti per l’apprendimento” si inaugura nel 2015 una nuova stagione di finanziamenti europei, che coinvolge per la prima volta tutte le regioni italiane. La programmazione 2014-2020 interessa 8.700 scuole, con una dimensione finanziaria di circa 3 miliardi di euro. È strutturata attorno a 4 assi, ciascuno con propri obiettivi specifici, intimamente connessi al disegno europeo ET2020, sopra menzionato. Dei 4 assi, 2 sono quelli che riguardano da vicino l’attività didattica delle scuole[5]:

  • l’asse 1, “istruzione” investe su: competenze, apprendimento permanente, maggiore apertura della formazione al mercato del lavoro, diffusione di approcci didattici innovativi, assorbendo circa il 65% delle risorse;
  • l’asse 2, “infrastrutture per l’istruzione” interviene in maniera trasversale, incidendo, tra le altre cose, sulla formazione del capitale umano, attraverso la riqualificazione professionale e la formazione e assorbendo il 28% circa delle risorse.

Le principali esigenze nazionali che l’Europa ha individuato[6] per l’Italia nei prossimi anni sono scritte nelle raccomandazioni specifiche del Consiglio (Luglio 2014): potenziamento della valutazione del nostro sistema scolastico, lotta all’abbandono, ampliamento dei sistemi di apprendimento basati sul lavoro e riconoscimento delle qualifiche delle competenze acquisite.

Oltre alla documentazione tecnica ministeriale ed europea (Programma, Accordo di partenariato e Position paper), una lettura più agile è offerta alle scuole dal libretto informativo con cui il MIUR ha diffuso le iniziative. In esso si sintetizzano, con la grafica e i colori a cui i recenti Piani della Buona Scuola ci hanno abituati, obiettivi e finalità del nuovo ciclo di programmazione.

Grazie alle risorse europee – si scrive – le scuole continueranno a combattere la loro battaglia contro la dispersione scolastica, iniziata nei cicli precedenti, potendo ampliare gli orari di apertura e diversificando le attività; formeranno adeguatamente i docenti alle nuove sfide che la società impone; svolgeranno azioni per gli adulti volte a potenziare l’apprendimento permanente, in un’ottica “di invecchiamento attivo[7]. Al centro della strategia i nostri studenti: più “preparati e competitivi[8], sia nelle basic skills (italiano e matematica, lingua straniera e – new entry– digitale) che nelle soft skills (imparare ad imparare, spirito di iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale). Competitività[9] – dunque – obiettivo educativo centrale, da attuare anche attraverso i percorsi di alternanza scuola-lavoro, migliorando la “pertinenza del percorso formativo rispetto al mercato del lavoro[10].

Le azioni proposte

A partire dal 2015 sono stati resi pubblici una serie di avvisi attraverso i quali accedere ai finanziamenti, riferiti a temi specifici. Tra i bandi che riguardano direttamente l’attività didattica, al primo, sugli ambienti digitali multimedialie flessibili per l’apprendimento, ha fatto seguito quello sull’inclusione sociale, da realizzare con attività di tipo laboratoriale in funzione di bisogni specifici, anche con il coinvolgimento delle famiglie, al di fuori dell’attività ordinaria (vacanza, pomeriggio, estate). Nel gennaio scorso, invece, è stato pubblicato un imponente avviso quadro che ha presentato, insieme, i 10 bandi di finanziamento accessibili dalla primavera fino al luglio scorso. Le tematiche sono tante e suonano ormai familiari: competenze di basecittadinanza e creatività digitaleeducazione all’imprenditorialitàalternanza scuola-lavoro ed altri ancora. Tutti gli avvisi hanno un denominatore comune sia organizzativo che metodologico. Si svolgono per moduli extracurricolari – dunque non in attività ordinaria – con un gruppo limitato di partecipanti[11] e richiedono tassativamente approcci innovativi. Una “dimensione esperienziale [e…] ricomposizione tra il linguaggio della scuola e quello della realtà socio-economica[12]. Insegnanti e formatori – si chiarisce nelle varie azioni – devono strutturare “situazioni di apprendimento” basate sulla soluzione di problemi concreti e “metodi di lavoro utili per la vita e per lo sviluppo professionale[13]. Situazioni extracurricolari che auspicabilmente e progressivamente dovranno trasformarsi in prassi scolastiche quotidiane. Il MIUR è fervente sostenitore di un “nuovo modo di fare scuola”, di pratiche che “la ricerca teorica e quella sul campo hanno decretato essere le più efficacimetacognizione, project based-learning, cooperative learning, learning by doing, flipped classroom, apprendimento formale ed informale, digital storytelling, brain-storming, outdoor training, teatro d’impresa, e-learning[14].

Ancora una volta[15], senza nemmeno lo sforzo della costruzione di una bibliografia, si fanno passare delle scelte metodologiche e didattiche, funzionali al modello ed alla logica dominanti, per acquisizionidella comunità scientifica. Concetti ad alto tasso ideologico sono presentati come discorsi educativi ineluttabili nella solita narrativa della necessità dell’innovazione per la “salvezza” della nostra scuola.

Buone pratiche

In attesa della raccolta delle esperienze prodotte dall’attuale programma, documenti interessanti da esaminare sono le raccolte delle “buone pratiche” scolastiche di quello precedente, rivolta alle sole regioni del Sud. Il MIUR rende disponibili una serie di cataloghi di alcune esperienze realizzate. In quello riferito alla promozione e sviluppo di competenze chiave degli studenti, prodotto nel quadro del progetto VaLes dell’INVALSI, sono riportate 135 schede descrittive. Leggerne qualcuna può essere significativo non tanto per dare un giudizio di merito di questo o quel percorso (considerate le condizioni in cui le scuole meridionali spesso operano, l’abnegazione nel promuovere attività aggiuntive è sicuramente encomiabile) quanto per farsi un’idea dell’assoluta omologazione di pratiche e metodi impiegati.

Nella sezione di rendicontazione: “Metodologie didattiche, motivazioni della scelta, elementi di efficacia” oppure “Risultati ottenuti” è quasi possibile sovrapporre da una scheda ad un’altra contenuti, linguaggio, lessico e terminologie, ripetute come un mantra: “didattica laboratoriale, flipped classroom, impiego di nuove tecnologie, apprendimento cooperativo, contesto stimolante, consolidamento significativo delle competenze, etc etc etc”. Decine e decine di esperienze reiterate, termini anglofoni “appiccicati” a pratiche spesso remote, obiettivi perseguiti e artigianalmente quantificati, questionari di gradimento somministrati.

Il quadro che ne esce è quello di una Scuola “catturata” dalla morsa del discorso dominante.

Una sorta di coercizione che si esprime più o meno in questi termini: io, Scuola pubblica, per reperire risorse aggiuntive devo imparare a parlare in un certo modo, esprimere le mie attività in un certo modo, guardare al futuro come mi viene richiesto.

Concorrere alle risorse europee spesso diventa un percorso di sopravvivenza necessario per reperire fondi che sarebbero dovuti e indispensabili; e non per un ristretto gruppo di allievi o per sporadiche attività pomeridiane, ma risorse strutturali e ordinarie per l’intera popolazione scolastica. Eppure, nel rapporto di valutazione indipendente (2007-2013), che il MIUR ha affidato[16] alla società di consulenza privata Deloitte Consulting srl, si scrive, con l’enfasi tipica di chi è fiero di aver contribuito ad una svolta per il Paese, che i progetti PON hanno battuto la strada per quella che “punta ad essere una modifica sostanziale di comportamenti collettivi ritenuti limitativi e dannosi per un moderno sistema di istruzione[17] e “trasformato il sud in un gigantesco laboratorio territoriale” dove “si è fatta innovazione[18]. Nonostante il contributo del programma allo sviluppo del capitale umano della scuola sia ancora in fieri, nel rapporto si sottolinea la “forza di trascinamento verso il cambiamento” e la necessità di sedimentare i risultati, di imprimere una direzione coerente, “osservarla e governarla[19].

Senza imbarazzo, si parla di “distruzione creatrice [..] alla Schumpeter”, di “rivoluzione del paradigma scientificoalla Kuhn[20] (!).  Insomma, una destrutturazione profonda della Scuola in termini di formazione e organizzazione. A chiare lettere si raccomandano “meno enfasi alla formazione disciplinare” e nuova cura alla costruzione delle giuste “mappe cognitive” degli attori coinvolti nel processo di rinnovamento: gli insegnanti. Il documento li definisce “professionisti della scuola di vecchia data” ancora convinti – poverini! – “che non solo il titolo di studio serva, ma sia un valore” e trovatisi ad affrontare “un cambiamento delle stesse sinapsi cerebrali che presiedono i loro comportamenti routinari”, per far fronte alle esigenze formative dei “nativi digitali”.

Una prosa e una retorica così ridondanti e sprezzanti, pagate a peso d’oro[21], da far quasi rimpiangere l’antilingua burocratese delle circolari ministeriali di vecchia memoria e che non necessitano di ulteriori commenti.

Un nuovo paradigma educativo

Sembra evidente, a questo punto, che lungi dal rappresentare un serbatoio neutro di risorse aggiuntive che la Comunità destina agli Stati membri, la programmazione europea per la Scuola rappresenti un potente strumento di policy change, dotato del suo sistema di “parole d’ordine”: competenze, innovazione, qualità, valutazione, apprendimento permanente. Da esse sembrano dipendere la credibilità, la tenuta e l’efficienza della Scuola e del paese dal punto di vista sociale, economico e produttivo.

Un nuovo paradigma educativo, di cui abbiamo già evidenziato l’invadenza e i limiti, è veicolato dal denaro europeo con cui si irrora (anche) il nostro sistema scolastico. Risorse a cui è impensabile rinunciare in regime di austerità e di cui la Buona Scuola fa uso massiccio attraverso strumenti come il Piano di Formazione e il Piano Digitale, che portano avanti le loro azioni anche sulla base dei finanziamenti europei. Lo stesso INVALSI[22] si è servito di fondi comunitari – e continua a farlo – per consolidare il suo ruolo di regia assoluta di qualsiasi processo di valutazione si compia in seno all’ istruzione pubblica[23].

La strategia di comunicazione della programmazione è imponente e orientarsi nella selva di documenti dedicati alla sua disseminazione, implementazione e valutazione è impresa che richiede molta buona volontà. Tuttavia, è importante trovare il filo che lega le varie azioni, svestirle dal carattere “tecnico” di mere opportunità da cogliere.

Esse vanno inquadrate in un percorso di cambiamento più ampio, che la Scuola sta attraversando in stretta connessione con le evoluzioni della politica nazionale ed internazionale.  In questo senso, può essere utile partire dal rileggere la lettera Trichet-Draghi del 2011, inviata all’allora governo Berlusconi. In essa, si chiedevano “una complessiva, radicale strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali.. una riforma della contrattazione salariale collettiva.. una revisione delle norme che regolano il licenziamento dei dipendenti ..un uso sistematico di indicatori di performance nei sistemi sanitario, giudiziario, di istruzione”. Queste parole, lette oggi, anche alla luce del seguente Patto di bilancio  e della legge costituzionale sul pareggio del 2012, acquistano una coerenza lampante, all’indomani di riforme come la legge Fornero, quella della Pubblica Amministrazione, il Jobs Act e la Buona Scuola.

Il binomio educazione – lavoro, a nostro parere, è la chiave di lettura del tracciato politico che stiamo attraversando: una vera e propria ristrutturazione (smantellamento) dell’esistente portata avanti in pochi anni con risolutezza e determinazione inaudite.

Occupazione e istruzione si saldano attraverso una serie di temi ricorrenti che la narrazione europea e ministeriale ripropongono con tenacia.

Primo fra tutti: l’alternanza scuola-lavoro, che oltre a realizzare un “incontro fisico” tra scuola e impresa, ha un fortissimo valore simbolico: l’idea che la frequentazione del mondo lavorativo sia fonte di “educazione morale”, attraverso un insegnamento “formativo” su ciò che conterà davvero nella vita: la gestione di tempi, il rispetto delle consegne, la cura delle relazioni, l’autodisciplina. Ma ancora:

  • l’enfasi sullo spirito di imprenditorialità, come competenza da sviluppare fin dalla prima infanzia, necessaria a “partecipare attivamente alla società, ad entrare” (o rientrare) “nel mercato del lavoro [ ..] o anche avviare un’impresa[24], contribuisce a definire un immaginario in cui l’educazione è condizione primaria ed essenziale di occupazione e sviluppo;
  • referenzialidelle qualifiche EQF e dei livelli ISCED, o il quadro europeo di riferimento linguistico (CEFR) – che di fatto trasforma la lingua in strumento di servizio – sono adottati per facilitare e organizzare le “uscite” dei vari apparati scolastici in funzione degli obiettivi produttivi. Rinforzano una politica dell’identità europea riformulata in termini di qualifica o mancata-qualifica: solo un soggetto opportunamente qualificato e formato può appartenere ad una “società della conoscenza”;
  • la priorità assegnata alle competenze scientifiche e tecnologiche(le cosiddette STEM), da coltivare fin dall’infanzia attraverso il coding e il pensiero computazionale, proseguendo poi nelle Università, non è finalizzata ad un’educazione scientifica il cui fine è in sé, ma sempre in connessione con gli obiettivi di crescita e di produttività che le sfide economiche richiedono. Una visione ben riassunta in un recente articolo di Sarewitz[25], secondo il quale la scienza ha valore se produce progresso e sviluppo tecnologico, se non è “libero gioco dell’intelletto”. Essa deve essere opportunamente indirizzata verso la soluzione di problemi legati all’innovazione, in “diretta, aperta ed intima relazione con la società attuale;
  • l’apprendimento permanente, sia formale che informale (life-long and life-wide learning) è costantemente invocato, non certo in funzione della necessità di educare adulti e lavoratori come si intendeva negli anni 70, ma come una sorta di “politica attiva per l’impiego”: un modo per risolvere, a breve termine, i problemi (e i costi) di formazione delle imprese o per aumentare temporaneamente la percentuale di adulti in occupazione. Il problema occupazionale si trasforma in un problema educativo. Un cittadino disoccupato diventa automaticamente un cittadino non adeguatamente formato. In questo modo la crisi dello stato sociale sposta la responsabilità del fallimento dalla politica alla Scuola – Università, fino ad arrivare al singolo individuo.Da un lato, l’educazione non è sufficientemente “di qualità” e gli insegnanti non sono aggiornati ed efficaci; dall’altro, il cittadino è costantemente chiamato ad aggiornare (e far certificare) le sue competenze, all’inseguimento delle richieste di un mercato in continua evoluzione, pur di poter essere impiegato.

Non sembra eccessiva l’analisi di Marta Fana, quando scrive che si chiede alla Scuola di preparare i giovani “precisi e perfetti per il prossimo annuncio”. La disoccupazione è diventata una variabile dipendente. La Scuola e l’Università sono le principali istituzioni responsabili della sua crescita.

La politica europea (e quella del nostro paese) continua, con atteggiamento “difensivo”, a riproporre ostinatamente una relazione di causa-effetto tra istruzione e lavoro, sulla scia di un percorso iniziato oramai da quasi 20 anni, che si sta rivelando fallimentare. Risultato: l’educazione continua a “rimpicciolirsi” e a “professionalizzarsi”, nonostante si tenti di rivestirla di nuove tecnologie e metodologie didattiche o si “infonda” spirito di imprenditorialità sui suoi attori (dirigenti, insegnanti e oggi anche studenti) e l’occupazione, in particolar modo giovanile, non sembra giovarne in alcun modo.

Europa: vincolo o opportunità per l’educazione?

Una particolare narrativa europea legittimata dalla mondializzazione, dall’urgenza della crisi, dall’esplosione delle nuove tecnologie di comunicazione sembra imporre oggi in maniera “deterministica” l’idea che l’educazione degli individui sia uno strumento macro-economico di crescita e aumento della produttività prima di ogni altra cosa.  Sebbene l’educazione debba indubbiamente confrontarsi con questioni inedite e controverse come l’interculturalità e l’inclusione, la trasformazione degli spazi sociali e delle modalità di accesso e produzione di contenuti, i nuovi modi di comunicare e entrare in relazione, essa non può essere semplicemente chiamata a rispondere e adattarsi a una nuova “organizzazione del mondo”: deve poter contribuire a ridefinire e modificare la realtà esistente.  Non è democratica una società in cui gli scopi educativi sono prestabiliti, monitorati e pacificamente catalogati in set di competenze da certificare. È democratica quella società in cui gli obiettivi dell’educazione sono oggetto di dibattito e di revisione costanti.

   Oggi più che mai l’integrazione europea, che in 20 anni ha riunito ben 27 paesi, sta vivendo un momento storico cruciale. Rinnovati nazionalismi, tensioni e spinte populiste[26]mettono in discussione quotidianamente l’alleanza e la legittimità comunitarie. Aumentano insofferenza e fastidio per i vincoli imposti dagli “eurocrati” e cresce la sensazione che sia necessario “riprendere il controllo” della situazione.  Il richiamo all’ idea di sovranità è la prima, istintiva rivendicazione del diritto di gestire territorialmente e in maniera più o meno indipendente questioni economiche, fiscali, sociali e anche educative.

Eppure, proprio dal riformulare le idee di educazione, ricerca e sviluppo comuni, potrebbe liberarsi quel potenziale culturale ideale ed “eversivo” necessario alla costruzione di un’identità europea nuova e più ambiziosa.

da qui (trovi anche le note)

redaz
una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere 'uno' che fa parte a sé, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un'illusione, peraltro ingenua, di un'unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perché noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone.

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