Di piccole streghe, negri, negretti…
… ma anche zingari, meurrèddus e Pippi Calzelunghe
di Marco Piras Keller
«Die kleine Hexe» (tradotto anche in italiano: «La piccola strega») è un libro per bambini di Otfried Preussler (Thieneman editore) che ha venduto milioni di copie, soprattutto nei paesi germanofoni. È difficile che un bambino di 10 anni non l’abbia ancora letto in quei Paesi. L’ho letto anch’io su raccomandazione di mia figlia dieci anni addietro.
Non ho riscontrato in una breve ricerca internet tracce in Italia del dibattito che tocca il nord Europa, soprattutto i Paesi germanofoni, a seguito dell’impresa censoria calata su alcuni termini presenti nei testi classici per bambini, fra i quali «La piccola strega». Per questo mi sembra degno di nota segnalare questa sorta di crociata dell’ipocrisia linguistica o terminologica. Si vedano le considerazioni di Alessandro Portelli sulla revisione in America di «Huckllberry Finn» di Mark Twain (http://alessandroportelli.blogspot.ch/2011/01/mark-twain-e-le-parole-proibite.html) ben più articolate di quelle che faccio qui.
Oggi «La piccola strega» viene sottoposto a revisione dalla casa editrice, con il consenso dell’autore, ottenuto dopo tanto insistere. Oggetto della revisione è, per esempio, la cancellazione della parola Negerlein (negretto). Dell’opera purgatoria si è profondamente rallegrata, Kristina Schröder, giovane ministro della famiglia (la ministra, conio linguistico sciocco e inutile a mio parere, mascherato di femminismo, a me fa rivoltare lo stomaco come la minestra alla terribile Mafalda di Quino, che dice pane al pane e vino al vino) in Germania. Giovane madre e ministro, la signora Schröder vuole tutelare la sua bambina di un anno e mezzo dal pericolo di leggere (fra qualche anno) o di sentire dalle letture della mamma, la parola «negretto» in un qualche libro più per l’infanzia. A lungo Preussler non aveva accettato la correzione della sua «Piccola strega»; probabilmente lo hanno preso per sfinimento e alla sua età avrà meno forze per resistere alle pressioni. Né all’opera censoria si è sottratto anche Jim Knopf (1960) personaggio creato dall’autore de «La storia infinita», Michael Ende. Jim Knopf, ragazzo di pelle scura (un kleine Negeranche lui) che ha anche l’aggravante di avere la pipa in bocca o comunque sempre con sé. Un’altra proposta dei nuovi crociati è, appunto, eliminare la pipa dalla bocca e dalla cintola di Knopf. Un gran lavoro di frego da farsi sui bei disegni che illustrano il libro.
Anche gli eredi di Astrid Lingren si sono opposti per lungo tempo che nelle avventure della simpatica discolaccia Pippi Calzelunghe venissero cancellate parole come negro e zingaro. Ma alla fine hanno ceduto alla montante campagna e “coscienza antirazzista” o chissà a cos’altro. Credo che Astrid Lingren non lo avrebbe fatto. In questo classico per l’infanzia – e per gli adulti – il Negerkönig (Re dei negri) dell’edizione in tedesco diventa nell’edizione purgata Südseekönig (Re dei Mari del Sud). Per me, pura ipocrisia o incapacità di sereno giudizio o ancora desiderio di innovazione e di novità a tutti i costi. Chi subentra a qualcun altro in un incarico ha bisogno di profilarsi, di dare un’impronta al proprio ministero: a costo di mutare in peggio una cosa che funziona benissimo, bisogna cambiare: gli italiani sanno molto sul tema.
Dunque devo evitare di salutare con il «ciao», derivazione di sciàv (schiavo), proprio nel momento in cui ciao sta conquistando gran parte dell’Europa; né dirò a qualcuno che mi sembra di vedergli un viso «lieto» visto che all’origine di lieto sta il letame «che fa lieti e pingui i campi» e dunque potrebbe rispondermi che «faccia di merda» devo dirlo a qualcun altro e non a lui. Stiamo parlando di cose assurde. Permettete che anch’io mi lasci un po’ andare all’esagerazione.
Oltre a quella che giudico ipocrisia linguistica trovo molto grave – una considerazione culturale in assoluto – l’annullamento o ignoranza della conquista della capacità e dovere che ha la cultura di storicizzare, ammesso che (e quando) ce ne sia bisogno. Il che vuol dire avere la capacità di collocare un evento, un’opera, una parola in un determinato contesto storico, temporale, che conferisce il corretto valore all’evento, alla parola ecc. Ma storicizzazione o no, qual è il progresso di civiltà e di cultura che deriva dall’abuso di autorità (quale poi?) che rappresenta cambiare un testo che appartiene alla storia della letteratura? Sia esso «La piccola strega», «Pippi» o qualunque altro grande libro. E, storicizzare o non storicizzare: quando e perché zingaro e negro hanno cominciato a essere sentiti come insulti?
Mi chiedo: ma questo ministro della Famiglia non avrà cose più serie e sensate a cui pensare per migliorare il benessere delle famiglie tedesche e dei bambini soprattutto? E la casa editrice non avrà programmi culturali o progetti editoriali qualificanti da proporre invece che lanciare certe campagne di purghe? Il ministro si è dichiarata anche insoddisfatta – si noti l’ardire delle concordanze – che in qualche migliaio di anni non si sia mai provveduto a che Gesù Bambino non venisse identificato solo con un maschietto e che l’articolo determinativo riferito a Dio non sia mai stato cambiato dal genere maschile «der» a quello neutro «das». Forse che io, sono un adoratore della Grande Madre, dovrei accettare che la Dea possa venire chiamata «il grande genitore» per non infastidire un desiderio di neutralità da parte di qualcuno? Il prossimo ministro, che magari sarà di sesso maschile, per ritorsione potrà pretendere di mettere dubbi sull’essere donna della Madonna. Per logica interna, un eventuale ministro transessuale potrebbe anche lui dire la sua in merito. Insomma non mi pare sensato affrontare simili questioni così. A questo proposito molto ci sarebbe da dire anche su certe prese di posizione terminologiche a opera di certo femminismo. Ma, a questo punto, meglio fermarsi, per il momento.
Chissà cosa penserebbero i critici che conferirono nel 1958 a «La piccola strega», pubblicato nel 1957, il prestigioso Deutsche Jugendbuchpreis (Premio del libro per la gioventù). Mi si dirà che, in fondo, il premio Nobel per la pace è stato conferito anche a personaggi che contro la guerra poco avevano a che fare, salvo che usavano belle parole nel linguaggio della diplomazia internazionale. È vero, lo ammetto, ma io insisto nella mia convinzione.
Anche qui in Svizzera ci sono rumoreggiamenti minacciosi contro un tipico dolce che si chiama Mohrenkopf (Testa di moro), rotondeggiante con l’interno di crema ricoperto di cioccolata e contro un altro che si chiama Negerkuss (Bacio di negro) per il quale è stato proposto scherzosamente il surrogato di nome che tradotto suona circa «bacio di uno che ha il massimo della pigmentazione».
Ma anche i gestori dell’Hotel Mohren di Hüttwil e del Gasthof zum Mohren di Willisau, bellissime cittadine della Svizzera, cominciano a chiedersi se dovranno sostituire le antiche e pregevoli insegne in ferro battuto dei loro alberghi per non venire fatti oggetto di mormorii, accuse di razzismo, censure, sommovimenti di popolo. E se non mi credete andate a leggervi la «Neue Luzerne Zeitung» del 24 agosto 2010 a pag 21: «Hotel Mohren – ist das rassistisch?».
Mia moglie è cresciuta con bei libri illustrati con vari kleine Neger e Negerlein ma evidentemente la madre o il padre che glieli leggevano non le hanno mai instillato l’idea che negro fosse una parola brutta, né mi sembra oggi soffra di particolari rigurgiti etnocentrici.
Nel su libro «Rom, genti libere» (vedi in questo blog l’ 8 ottobre 2012: «Su “Rom, genti libere” di Spinelli» di Daniele Barbieri) Spinelli, rom abruzzese, figura di rilievo nell’intellighenzia zingara, combatte a spada tratta l’uso di ‘zingaro’. In una trasmissione televisiva (http://www.youtube.com/watch?v=7e9gZME_5t4), il giornalista leggendo dai suoi appunti viene fuori con la parola zingaro e Spinelli lo interrompe in maniera decisa, facendo notare all’arrossito intervistatore che zingaro è un insulto e che sarebbe come se invece di dire italiano si dicesse mafioso. Se in certi contesti scritti o orali si sostituisse mafia a Italia e mafioso a italiano si rischierebbe di prenderci più di una volta ma nella maggioranza dei casi la sostituzione sarebbe assolutamente impropria, ingiusta e ingiuriosa per l’Italia e per gli italiani. Sulla questione penso di ritornare presto, aggiungendo alla presentazione del libro di Spinelli (fatta da Daniele Barbieri) alcune considerazioni. Anticipo che, secondo me, non ha senso stigmatizzare la dicitura zingaro e che, piuttosto, la fastidiosa dicitura nomadi puzza da lontano di ipocrisia bella e buona, al pari di «diversamente abile», di «operatore ecologico», di «pittore edile», di «extracomunitario» quando serve nel linguaggio comune a indicare gli immigrati africani (e non gli svizzeri, per esempio o i canadesi o gli statunitensi) e via eufemizzando.
Quando Sinisa Mihailovic calciatore di etnia zingara (rom per i delicati d’orecchio) giocava ancora in Italia – oggi allena la nazionale serba – fu convocato a giudizio dalla commissione disciplinare sportiva e accusato di avere chiamato Vieira «sporco negro», si difese press’a poco con queste parole: «Lui mi ha chiamato “sporco zingaro”. Io non mi vergogno di essere zingaro, non so se lui si vergogna di essere negro». Non mi è mai stato simpatico Mihailovich ma quella volta apprezzai almeno la sua battuta.
Io vengo da una parte della Sardegna (l’ormai anche televisivamente noto Sulcis di Carbonia, dell’Alcoa, di Portoveseme, dell’Eurallumina ecc.) i cui abitanti sono chiamati meurrèddusu che forse non ha a che fare con i mori. Fatto si è che gli altri sardi ci chiamano maurèddus o maurrèddus cioè mori della Mauritania. Non credo che nessun sulcitano-meurréddu voglia, per questo, cambiare nome. Né alcun sardo vuole, certamente, rinunciare a neppure uno dei quattro mori della bandiera della Sardegna. Né credo sia proponibile ai corsi di privarli dell’unico moro che hanno nella loro bandiera e sostituirlo con qualsiasi altra cosa, fosse pure una bella vikinga o un bel vikingo con capelli biondi lisci.
Due sole considerazioni finali, con l’intenzione ribadita di riprendere il discorso presto, in maniera più articolata. Una banale e demagogica, mi si dirà. Ma io la faccio comunque: ma tutti quelli di orecchio sensibile, che si scandalizzano se uno usa la parola zingaro sono altrettanto sensibili alle condizioni in cui la nostra società relega “i nomadi”? Cioè al disprezzo e ai maltrattamenti cui vengono condannati dall’indifferenza, dall’oppressione e dalle persecuzioni?
Non parlo, qui, naturalmente, di Spinelli la cui presa di posizione è legittima, se non altro in quanto parte in causa e in quanto impegnato nella battaglia per la difesa e per il rispetto del suo popolo.
Altra riflessione: dalle mie parti si dice che chi non ha altro di più importante da fare gratta il culo ai cani. Non sarebbe cosa più utile alla società che prima di affrontare certe crociate – penso a pedagoghi, direttori editoriali, ministri della famiglia o della cultura e chi altro – riflettesse, magari intanto che gratta il culo ai cani?
Mi consola il fatto che la casa editrice Thieneman (che si è fatta promotrice della campagna di revisione delle “brutte parole”) è stata sommersa da una tale valanga di proteste che, immagino, non sapranno più che controbattere.
grazie Marco
il tuo post è interessantissimo e soprattutto va al sodo. Ho alcuni punti di accordo e altri di (notevole) disaccordo. Ne accenno brevemente e poi mi piacerebbe ri-dialogare con te dopo l’intervento più organico che annunci.
Condivido le considerazioni tue (e di Sandro Portelli) sulla contestualizzazione storica e dunque sono contrario a manipolare i testi.
Condivido totalmente l’attacco alle ipocrisie anche perché, con tutta l’importanza che le parole hanno, i fatti contano di più: purtroppo proprio sulle molte e brutte facce del razzismo molto spesso si dicono cose splendide per poi tollerare (o incoraggiare) pratiche disgustose.
Pure condivido ogni critica alla retorica della pace (e dunque ai molti, specie recenti, fasulli “premi Nobel per”).
Se capisco bene il tuo «grattare il culo ai cani» sono d’accordo: ci sono faccende ben più importanti.
Con tutto l’amore per Mafalda dissento invece da te su «ministra» (io lo uso, come forse avrai visto) e in generale sul linguaggio “sessuato”. Ne ho scritto in blog («Le parole fanno male?» nel lontanissimo febbraio 2010) ma vorrei appunto tornarci sopra con calma, magari cercando di rispondere anche alla tua domanda «quando e perché zingaro e negro hanno cominciato a essere sentiti come insulti?» e a quest’altro quesito (che tu non poni): «mica penserete che ribattezzare “clandestini” le persone non in regola con i visti sia avvenuto per caso?».
Grazie per gli spunti. Non ti saluto con «ciao» o con«lieto (di averti letto)» raccogliendo scherzosamente le tue indicazioni…. Ma proprio a proposito di etimologie non è interessante (e spaventoso) sapere perché si dice «finocchio»? O domandarsi come mai in Italia ci sono tanti cognomi tipo «moretti», «morelli», «moro», «morelli» e «morucci»?
Che la Grande Madre (da secoli si cerca di cancellarla nel linguaggio non meno che manipolando i reperti storici) vegli su di te. Ma, sempre raccogliendo una tua battuta, per “par condicio di genere (divino)”, che anche qualche maschietto lassù – Zoroastro? Manitù? – ci aiuti in questo momento così difficile a trovare le parole giuste e SOPRATTUTTO nell’agire.
db
PS: Che dire dell’irriverente e splendida canzone popolare (piemontese mi pare) «Addio morettin ti lascio»? Sarà un larvato razzismo pre-Lega?
Un sollievo per me, che non ho mai creduto nel politically correct (scritto giusto?)
Mi permetto di osservare che il problema non è di politically correct. Che in Italia sia arrivato prima l’attacco al politiocally correct che posizioni che vi si richiamano, era stato chiarito con dati certi da Baroncelli, “Il razzismo è una gaffe”: libro che inviterei a meditare, richiamato mi pae a proposito nella prefazione a Scacchi-Petrovìvich, “Parlare di razza”, Ombre Corte 2012. Non credo che Spinelli preferisca “nomadi” a “zingari”, ci sono buoni motivi per ritenere più stupido e stigmatizzante il primo dei due termini. Il lessico dell’esclusione c’è, è diffuso, e bisogna starci attenti (soprattutto al proprio uso); e di volta in volta si dovrà considerare oltre che il lessico i toni, il contesto etc.
Si rivedono fiabe secolari per stupidità, invece di lavorare su quanto giorno per giorno si produce di stupido, offensivo, discriminante, stigmatizzante, disumanizzante: e si tratta di un fenomeno di proporzioni crescenti. Non sono d’accordo su quanto scrive db su “parole e fattI”. Le pariole spesso sono agiscono e producono effetti, i cosiddetti “fatti” non esistono allo stadio bruto, ma sono il prodotto di una nostra classificazione che passa attraverso le parole. Del resto DB è questo lo sa meglio di me, lo invito solo a evitare un piccolo scivolone. Se spinelli ritiene che dirgli “zingaro” lo discrinìmina, fa bene a ricordarcelo: naturalmente l’efficacia di questo suo richiamo dipenderà in parte anche da come lo dice. Io a volte salto su quando una maestra diche che “alfabetizza” bambini che vengon da fuori, che di alfabeti ne conoscono più di lei e la lingua la imparano dai compagni di scuola; ma solo dopo anni che glielo faccio notare, dopo mi girano i coglioni. E non diciamo che si tratta di un lessico innocente: non si èp mai detto “alfabetizzazione” per indicare un corso di italiano prima che arrivassero stranieri e loro figli, da svalorizzare nascondendosi le competenze pregresse. Le parole fanno parte di strategie sociali, le esprimono e le producono. Piras ha ragione a prendersela con chi corregge le fiabe, lo invito solo a tener ferma la distinzione tra questi soggetti e la necessità di negoziare di volta in volta l’immagine di chi è discriminato e sfruttato anche grazie alle parole.