Diario dal Congo
Un reportage di Marina Piccone (*)
DIARIO DAL CONGO 10-30 AGOSTO 2021
Prima parte
10.8.
Il ritorno
Bukavu è come una mano adagiata sul lago Kivu, con le sue cinque penisole lunghe e strette. A vederla dall’alto di una collina, con il sole che si riflette sull’acqua, sembra un posto di villeggiatura bello e quieto. Vederla da vicino è un’altra cosa: pezzi di strada asfaltata si alternano a mulattiere sterrate piene di sassi, avvallamenti, larghe buche e tombini aperti, che si spalancano minacciosi davanti ai piedi; pulmini, macchine, moto e camion enormi avanzano strombazzando a tutto spiano per far scansare le persone che, incessantemente, camminano in tutte le direzioni, trasportando sulla testa ogni genere di cose: dai materassi ai tubi di ferro, dai sacchi di patate alle reti per letti, a tronchi di legno lunghi dieci metri, a taniche gialle piene di benzina o acqua. Persino bare. Emboutillage (imbottigliamento) è la parola più pronunciata qui. Significa rimanere fermi in un groviglio inestricabile di veicoli e mezzi di trasporto creativi mandando all’aria qualsiasi intenzione di puntualità. Un tempo infinito in cui gli organi interni, sballottolati violentemente dalla strada sconnessa, si riposizionano nei loro alvei naturali, ma durante il quale si inala una quantità smisurata di gas di scarico. Bukavu, capoluogo del Sud Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, non sembra cambiata molto dall’ultima volta che sono stata qui, nel 2014. Neanche dal 2006, la mia prima volta. Stesse strade, stessa miseria, stessa sofferenza. Ma allora si respirava un’altra aria.
La speranza
Era il mese di luglio e facevo parte della missione di osservatori elettorali organizzata dalle associazioni Beati i costruttori di pace e Chiama l’Africa per le prime elezioni democratiche del Paese (**). Nell’ex colonia belga, infatti, non si votava da oltre 40 anni, praticamente dall’indipendenza, ottenuta il 30 giugno del 1960. Eravamo 61 volontari e avevamo il compito di vigilare sulle votazioni in questa parte del Paese, la più martoriata dalla guerra. Un evento importante a cui la popolazione ha partecipato con entusiasmo. La speranza era quella di uscire fuori, finalmente, dalla spirale di una guerra che, per oltre 20 anni, ha devastato la Repubblica Democratica del Congo, provocando distruzione, sofferenze indicibili e innumerevoli morti. Si parla di 7/8 milioni di deceduti, 500 mila donne e bambine stuprate e un numero infinito di profughi e sfollati (almeno sei milioni, di cui cinque all’interno del Paese). Dal 1993, il Kivu non ha mai conosciuto la pace. Le guerre si sono succedute l’una dopo l’altra causando uno sterminio che si è consumato sotto gli occhi indifferenti dei caschi blu dell’Onu, presenti sul territorio dall’agosto del 1999, e della comunità internazionale. Il 30 luglio 2006 era il momento del riscatto, della fine di un incubo, del ritorno alla vita. Le immagini di quelle ore ai seggi elettorali sono indimenticabili: file lunghissime di persone in attesa già dalle 4 della mattina. Donne e bambini vestiti a festa, invalidi trasportati a braccia o su una poltrona e vecchi portati sulle spalle. Nessuno aveva voluto mancare. Il presidente uscente, Joseph Kabila, figlio di Laurent-Désiré, assassinato nel 2001, era il super favorito nella regione e la sua auspicata e prevista vittoria venne poi festeggiata in strada in un tripudio di canti e balli durati tutta la notte.
La disillusione
Grande otto volte l’Italia, il Congo è un Paese ricchissimo: nel sottosuolo c’è ogni genere di pietra preziosa e di minerali, dal ferro all’oro, ai diamanti, all’uranio, al petrolio, al coltan, l’oro nero dell’elettronica. Un tesoro che non poteva non attrarre il mondo occidentale che l’ha sottoposto ad una colonizzazione feroce e ad uno sfruttamento senza scrupoli. Così, a dispetto delle sue enormi ricchezze e, anzi, proprio per questo, la popolazione congolese è tra le più povere del pianeta. La speranza riposta in Joseph Kabila è morta subito. La situazione è rimasta la stessa. Anche nel 2011, quando il presidente uscente è stato rieletto per la seconda volta, dopo una votazione contrassegnata da brogli documentati personalmente. Di brogli si è parlato anche nelle ultime elezioni, tenutesi il 30 dicembre 2018, che hanno visto l’elezione di Félix Tshisekedi, il candidato dell’opposizione. Risultato contestato, oltre che dagli avversari, anche dalla chiesa cattolica congolese, che aveva schierato 40mila osservatori elettorali nei seggi e che ha dichiarato che i dati ufficiali non corrispondevano alle loro rilevazioni. Niente è cambiato in questi anni. Né lo sfruttamento illegale delle immense risorse naturali e minerarie né la condizione di povertà in cui versa gran parte della popolazione, tra i 95 e i 100 milioni di persone, ma non lo sa nessuno perché l’ultimo censimento risale al 1984. Nel 2010, il Rapporto del Progetto Mapping dell’Alto Commissariato per i diritti dell’uomo dell’Onu ha denunciato in modo dettagliato le violenze, gli omicidi, gli stupri e i saccheggi perpetrati in Congo nel decennio 1993-2003 da vari gruppi armati congolesi, fomentati e appoggiati da altri paesi, Ruanda e Uganda soprattutto. A distanza di 11 anni, il progetto non ha ancora trovato attuazione, nonostante la battaglia di voci autorevoli. Come quella di Denis Mukwege, il direttore dell’ospedale Panzi, premio Nobel per la Pace 2018. Incurante delle minacce e degli attentati di cui è oggetto, il medico si batte affinché i carnefici di ieri, che si nascondono ancora oggi all’interno dei gruppi armati, dell’esercito e delle istituzioni della RD Congo e dei paesi limitrofi, vengano puniti, così come raccomandava il documento dell’Onu. E chiede l’istituzione di un tribunale penale internazionale.
11.8
L’ignoranza fa male
La mia casa, durante il soggiorno congolese, è il convento S. Francesco d’Assisi, a Nyantende, un quartiere a sei chilometri da Bukavu. Gervais Biringanine è il Padre Guardiano. Ordinato nel 1986, è stato il primo francescano del Kivu. P. Gervais parla bene l’italiano in quanto, dal 1997 al 2001, ha vissuto a Roma, dove ha conseguito il dottorato in Sacra Liturgia di cui è docente. Il convento è luogo di ritiro spirituale e centro di formazione per chi intende cominciare il percorso vocazionale. Attualmente ci sono quattro postulanti. P. Gervais è anche il presidente di una Mutua, un sistema di autoaiuto molto diffuso nel Paese per accedere alle cure mediche, che in Congo sono tutte a pagamento. “Gli aderenti mettono una quota annuale di sei dollari”, spiega il sacerdote. “Quando qualcuno ha bisogno di assistenza sanitaria o di interventi operatori la mutua interviene pagando l’80% del costo. Il restante 20% è a carico del malato”. Nella diocesi di Bukavu ci sono 23 mutue che hanno dai 2.000 ai 5.000 iscritti. Un’organizzazione belga, la Mutualité Chrétienne de Tournai, sostiene i costi del personale amministrativo mentre lo stato paga i sanitari. Poco e irregolarmente, tanto che, proprio in questi giorni, è in atto uno sciopero di medici e infermieri che reclamano compensi certi e più adeguati. Nel convento francescano, che dispone di 46 posti letto ed è immerso in un vasto giardino, c’è un grande orto, alberi da frutto, capre, galline e conigli, che garantiscono il fabbisogno alimentare degli abitanti e degli ospiti. E ci sono una falegnameria e una biblioteca. L’ambizione è quella di aprire ancora di più al territorio e accogliere persone per sostenerle psicologicamente e culturalmente. “La nostra gente soffre tanto”, dice p. Gervais. “Ha vissuto perennemente in guerra e si trova in condizioni di povertà e di grande disagio. Ci piacerebbe aiutarla a parlare, a tirare fuori ciò che l’angustia. E vorremmo anche favorire lo studio e la lettura, a cominciare dai bambini. Qui si può arrivare al diploma senza aver mai letto un romanzo. Per risollevare il Paese occorre formazione e professionalità. L’ignoranza fa male”.
13.8
Il male e il bene
Seduta su un taxi sgangherato con il parabrezza scheggiato (qui tutti i taxi hanno il parabrezza scheggiato; e finestrini che non si aprono, ammaccature varie su tutta la carrozzeria e assenza totale di ammortizzatori), osservo la vita che scorre fuori. Taxi collettivi, minibus, mototaxi e bajaja (le nostre Api) trasportano gli utenti da una parte all’altra della città, contravvenendo, come gli altri veicoli, a tutte le regole del codice stradale: inversioni a U repentini, sorpassi a destra, circolazione contromano e in retromarcia, uso smodato del clacson. Non ci sono segnali stradali né strisce pedonali per cui le persone attraversano ovunque, per lo più senza guardare, che tanto è inutile, affidando ogni volta la propria anima al cielo. Lungo i bordi della strada si dispiega una fila infinita di venditori di qualsiasi cosa: frutta, verdura, carne e pesce crudi, abiti, scarpe, schede telefoniche, bevande, lavabi, divani, noccioline, olio di palma, ecc., e il movimento di gente che si crea intorno alla merce contribuisce a generare traffico, confusione e un rumore assordante. Un tempo Bukavu era una città giardino, con poche migliaia di abitanti, meta di vacanza per ricchi. La guerra l’ha trasformata in un luogo invivibile, con quasi due milioni di abitanti ammassati nelle periferie dove sono sorte enormi baraccopoli. La disoccupazione è altissima. Le persone vivono di economia informale, piccolo commercio soprattutto, di cui si fanno carico quasi esclusivamente le donne. L’appuntamento di oggi è con Franco Bordignon, missionario saveriano, in Congo dal 1972, uno dei protagonisti locali della missione di osservazione elettorale del 2006. Per andare da Nyantende a Muhumba, il quartiere in cui risiede il sacerdote, occorre attraversare l’Essence, la zona più infernale della città, dove è impossibile salvarsi dall’emboutillage. Rimaniamo fermi per almeno venti minuti. Mi agito. Arriverò in ritardo. Christian, l’autista, rimane imperturbabile. Non un gesto d’insofferenza, non una parola fuori posto. Penso a lui e a tutti quelli costretti, ogni giorno, tutto il giorno, a sopportare questo supplizio. Rassegnata, mi sistemo meglio sul sedile e rimango a guardare la vita che scorre al di là dei finestrini chiusi. E a esercitare l’arte della pazienza.
Basta varcare il cancello d’entrata per trovarsi in un’altra dimensione. La Domus dei padri saveriani è un’oasi di pace e serenità. Immersa in un bellissimo giardino rigoglioso, di fronte al lago Kivu, è luogo di soggiorno spirituale e meta di cooperanti, viaggiatori e giornalisti di ogni provenienza che trovano in p. Franco un interlocutore competente e autorevole. Nel 1985, il missionario ha dato un forte impulso al Comitato Anti Bwaki, la prima Ong locale per la promozione dello sviluppo, e, negli anni Novanta, ha fondato la Società civile, un’organizzazione che si occupa di diritti umani. Per il suo impegno sociale e politico, durante la dittatura di Mobutu Sese Seko (1965-1997), ha rischiato la vita. “Il Congo è un Paese senza Stato, completamente allo sbando. Qui, l’impunità è diventata cultura e la corruzione un sistema. La guerra non ha distrutto solo un Paese ma anche le coscienze”, afferma lapidario il sacerdote. “Ognuno fa quello che ritiene giusto per sé, come e quando vuole, tanto non c’è nessuno che controlla. Tutti rivendicano la propria parte di guadagno. L’accelerazione di una pratica o di una fila, lo snellimento delle procedure di controllo in aeroporto e al porto, la possibilità di circolare tranquillamente sulla strada senza che nessuno chieda i documenti, inesistenti o quasi mai in regola, richiede un obolo. Un sistema difficile da scardinare, di cui si è insieme vittime e carnefici, perché c’è sempre qualcuno su cui rivalersi. La confusione, il degrado dell’ambiente, il deperimento delle infrastrutture, la mancanza di lavoro, la difficoltà a trovare qualcosa da mangiare per i propri figli, sono cose con cui la popolazione fa i conti ogni giorno. Ma è soprattutto l’insicurezza a generare ansia e preoccupazione”. In tutta la parte orientale del Paese, soprattutto nel Nord, più di cento gruppi armati di varia estrazione e obbedienza e anche agenti dello stato, come ha denunciato lo scorso anno un rapporto dell’Onu, perpetrano crimini e razzie che provocano decine di morti ogni settimana. La chiamano guerra a bassa intensità, ma chi ne è vittima non percepisce la differenza con quella che l’ha preceduta. Per ristabilire la pace, il 6 maggio scorso, nelle province del Nord Kivu e dell’Ituri è stato proclamato lo stato d’emergenza. Ma ci sono in atto proteste e anche un’indagine da parte della Commissione Difesa e Sicurezza dell’Assemblea Nazionale per valutare l’operato dei militari. Non si capisce perché, infatti, le violenze continuino nonostante i mezzi dispiegati. Quattro mesi dopo l’istaurazione della legge marziale il bilancio degli attacchi contro la popolazione civile è drammatico: 739 persone uccise, decine di veicoli incendiati e diversi villaggi svuotati dei loro abitanti (fonte Human Rights Watch). Anche a Bukavu, per quanto in misura minore, di notte ci sono incursioni armate per rubare e uccidere e non passa settimana senza che ci sia un morto. “Tutti sono al corrente di quanto avviene qui ma a nessuno interessa intervenire perché si arresterebbe il flusso delle ricchezze del territorio che arricchisce molti Paesi, soprattutto la Cina”. Però, avverte il missionario, non bisogna concentrarsi solo sulle cose negative, occorre parlare anche degli aspetti positivi. “Il male, che è molto visibile, impedisce di vedere il bene nascosto. E’ giusto dire, infatti, che, in questi ultimi anni, c’è stata una maturazione sociale e politica da parte della popolazione. E anche una maturazione di carattere economico e industriale. La chiusura delle frontiere, dovuta all’emergenza sanitaria, ha reso impossibili gli scambi commerciali, così la gente si è organizzata e ha cominciato a produrre da sé i beni necessari: prodotti agricoli, artigianato, oggetti per la casa. La diminuzione di importazioni ha comportato una valorizzazione delle ricchezze del territorio. E’ chiaro che gran parte della popolazione vive nella miseria, anche perché le città diventano sempre più grandi, con sempre più persone, impedendo una maturazione graduale e armonica. Però vedo un fermento nuovo e una maggiore speranza. Gli impedimenti imposti dall’alto possono schiacciare ma danno anche la possibilità di una riflessione e di una presa di coscienza: – Noi abbiamo diritto a questo e quindi lo vogliamo – Paghiamo con la vita ma non ci arrendiamo”.
14.8
Il coupage
Dei crimini contro l’umanità, delle violenze e della corruzione presenti nel Paese parla il giornale Le Souverain Libre, finanziato da organizzazioni estere. Nel 2006, avevo conosciuto la sua editrice e direttrice Solange Lusiku, poi rivista a Riccione, nel 2014, in occasione del Premio Ilaria Alpi, dove la giornalista aveva ricevuto un riconoscimento per aver dedicato la propria vita alla difesa della verità e della libertà d’informazione nella RdC. Un impegno che le aveva procurato molti premi ma anche minacce e attentati. “Quella del giornalista indipendente è una condizione davvero difficile in un Paese in cui gran parte della stampa è in mano alla politica”, aveva dichiarato Solange. “Intanto c’è l’estrema difficoltà ad accedere alle fonti d’informazione. Poi c’è la precarietà. Non avendo finanziamenti, dobbiamo cercare altrove il modo per sostenerci. E poi ci sono i rischi che questo mestiere comporta. Nel mio Paese sono stati uccisi molti giornalisti e per questo alcuni scelgono di non dire le cose come stanno. L’interferenza della politica è sistematica. Lo definiamo coupage, la monetizzazione dell’informazione. Per far parlare di sé, ci si rivolge ai direttori dei giornali e si comprano gli articoli. Chi si rifiuta diventa oggetto di minacce. Da noi una piccola frase può provocare la morte. Abbiamo un’aspettativa di vita di 24 ore rinnovabili”. Madre di sei figli, aveva paura soprattutto per loro quando le minacce si facevano più pressanti ma era proprio nella sua famiglia che trovava la forza di resistere e di continuare un lavoro in cui credeva. “E poi credo molto in Dio e confido nella sua protezione”, aveva detto con il suo sorriso luminoso. Quando, nel 2018, ho saputo della sua morte prematura, dopo una breve malattia, ho provato un grande dispiacere. Una sua foto campeggia nella sede del giornale, situata nel quartiere Nguba, raggiunta con il consueto ritardo. “Siamo un giornale indipendente che si occupa della promozione dei diritti delle donne e della democrazia”, dice Claudine Lumvi, la nuova direttrice di Le Souverain, che non si occupa solo di informazione ma anche di formazione. “Facciamo incontri nei diversi territori della provincia del Sud Kivu per sensibilizzare le comunità, soprattutto sulle violenze di genere. L’intento è anche quello di mettere in comunicazione la popolazione con le autorità locali, cercando di favorire la partecipazione delle donne che, nelle periferie, non hanno diritto di parola”. “Quello del giornalista qui è un mestiere difficile”, ribadisce Georges, uno dei giovani redattori. “La stampa è imbavagliata. Se fai un articolo d’inchiesta puoi essere perseguito dalla persona influente di turno”. Ma “I giornalisti devono avere il coraggio di rivelare a gran voce gli scandali nella gestione quotidiana della città, denunciare le illegalità, promuovere il rispetto dei diritti umani e la difesa dell’ambiente”, afferma Claudine. “Viviamo quotidianamente vicino alla morte, una morte gratuita. Se dovesse succedere per aver fatto il nostro dovere significherebbe almeno morire per qualcosa”, dice sorridendo Dieudonné. “Le cose non sono molto cambiate negli ultimi anni. Si vive nell’abbandono, così ognuno pensa per sé”. La pandemia da Corona virus è servita solo a creare ulteriore confusione. “Le autorità hanno diffuso dati contraddittori così i cittadini non si fidano e non vogliono vaccinarsi. Pensano che si tratti di un problema che riguarda solo i Paesi ricchi e che ci siano ben altri problemi e altre malattie con cui confrontarsi, prima fra tutte la malaria. E’ una triste realtà”.
15.8
L’ascolto è la prima cosa
Il Peder (Programme d’Encadrement des Enfants de la Rue) è un progetto per ragazzi e ragazze di strada della Congregazione Missionaria delle Suore di Santa Gemma, finanziato da organizzazioni estere. E’ stato creato nel 1989 a causa dell’aumento di ragazzi vittime della disgregazione del tessuto sociale e della povertà, 6.000 solo nel centro di Bukavu, almeno 20.000 nella capitale, Kinshasa. Si tratta di un fenomeno soprattutto cittadino. Nelle comunità rurali, dove il valore della solidarietà è ancora vivo, è infatti più facile che una famiglia si prenda cura di bambini abbandonati o in difficoltà. Il Peder opera su tre livelli: l’accoglienza, con programmi di alfabetizzazione e di formazione; la famiglia dei ragazzi, con un sostegno psicologico, sociale e economico, attraverso il microcredito; la comunità, per un loro reinserimento. L’organizzazione, che ha in carico punte di 800 fra ragazzi e ragazze dagli 11 ai 22 anni, dispone di quattro centri dislocati nella città, ognuno con una sua specificità, e opera anche sulla strada, per il recupero e l’orientamento dei minori. “Come prima cosa ascoltiamo i ragazzi”, spiega Thomas D’Aquin, vice coordinatore del Progetto. “Si tratta di giovani traumatizzati che hanno bisogno di recuperare un equilibrio psicofisico, l’autostima e la socialità. Ognuno di loro ha bisogno di un programma personalizzato che tenga conto del loro carattere e delle loro esperienze”. I bambini di strada hanno un vissuto molto pesante. Mangiano resti di pesce trovati sulla riva del lago o avanzi di piccoli ristoranti, passano le notti all’aperto o in qualche macchina abbandonata, compiono piccoli furti. Sono vittime, sia maschi sia femmine, di violenze sessuali, anche da parte di poliziotti e militari, e contraggono facilmente infezioni all’apparato genitale. Le ragazzine, in particolare, si guadagnano da vivere prostituendosi. Le ripetute gravidanze vengono interrotte con un mix micidiale di farmaci, che le espone a malattie croniche, a sterilità e a volte alla morte. Il Peder lavora in collaborazione con la Chiesa, la polizia, i comitati di quartiere e le diverse associazioni del territorio; l’officina meccanica e la falegnameria, dove i ragazzi fanno apprendistato, sono aperte a clienti esterni. “I giovani sono importanti”, continua Thomas, giurista di formazione, da 26 anni al Peder. “Rappresentano la possibilità di sviluppo di un Paese. Per questo, con altre associazioni, stiamo scrivendo una Carta indirizzata al governo in cui si sottolinea la necessità di prendersi cura di loro e di favorirne l’istruzione. Lavorare insieme è necessario per non disperdere energie e soldi. La divisione fra le diverse organizzazioni è quello che impedisce di avere la forza necessaria affinché le cose cambino”.
Trésor ha 16 anni e gli occhi grandi e tristi. Dopo aver passato un lungo tempo sulla strada, dal febbraio 2020 risiede nel Centro del quartiere Muhumba. La solitudine e la sofferenza l’hanno fatto ripiegare su sé stesso, anche fisicamente. Il ragazzo, infatti, dimostra molto meno della sua età. Al Peder ha cominciato ad aprirsi, a giocare e a collaborare. Ha frequentato il corso di alfabetizzazione e sta facendo l’apprendistato nell’officina meccanica. “Se Dio mi aiuta, voglio diventare un costruttore di macchine”, dice con gli occhi buoni.
Roma, 21.9.2021
DIARIO DAL CONGO
10-30 AGOSTO 2021
Seconda parte
16.8
Una chiesa sentinella
“La fase diocesana dell’inchiesta per la beatificazione è cominciata a Bukavu nel 2015 ed è terminata nel 2018. Dopodiché, abbiamo inviato il dossier a Roma, alla Congregazione delle Cause dei Santi che, nel febbraio 2019, ha decretato il Nihil obstat, dando il via alla fase romana. Ci vorrà tempo per la conclusione ma non essendoci impedimenti l’attività del Tribunale d’esame procede liberamente”. E’ soddisfatto Boniface Kanozire, vice postulatore della causa di Servo di Dio di Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo, l’arcivescovo della città congolese assassinato il 29 ottobre 1996. La causa di beatificazione è stata aperta con la motivazione Super martyrium. Non occorrerà dunque verificare che Munzihirwa abbia compiuto miracoli ma solo che è stato un martire. Non sarà difficile. Il prelato gesuita aveva messo la difesa dei diritti umani e della pace tra le priorità della sua azione pastorale, denunciando ogni tentativo di arricchimento a spese dei poveri. Non perdeva occasione per dichiarare le cause reali del conflitto con il Ruanda, che ha mire espansionistiche nella regione orientale del Congo. Lui sapeva di essere sotto tiro ma non aveva paura. In quei giorni, a Roma, era in corso un sinodo. La partecipazione all’evento lo avrebbe salvato, ma “Il pastore è laddove il gregge è in pericolo”, disse in uno dei suoi ultimi messaggi. “Non c’è che un prezzo da pagare per la libertà, il prezzo del sangue”. Christophe Munzihirwa, classe 1926, era amatissimo dal suo popolo. Lo chiamavano Mzee (“anziano” in swahili), una parola che in Africa è il massimo riconoscimento per una persona. L’anziano è il saggio, colui che sa. Lui amava definirsi Zamu, una sentinella. E, come una sentinella, vigilò sulla situazione politica, sociale e morale che si era venuta a creare nel Kivu, dove, nel luglio ’94, subito dopo il genocidio in Ruanda, si riversarono circa due milioni di profughi. Chiedeva ai grandi del mondo di intervenire per impedire una guerra d’invasione che, nel corso degli anni, ha provocato un numero incalcolabile di morti. Era un testimone particolarmente scomodo e, per questo, andava eliminato. A distanza di 25 anni, i mandanti dell’assassinio sono ancora nell’ombra e restano impuniti. In piazza Nyawera, che ora porta il suo nome, campeggiano due gigantografie del prelato e vicino alla cattedrale è stato costruito un santuario in sua memoria. I cittadini continuano a venerarlo. Per loro non serve attendere la fine del processo di beatificazione, Christophe Munzihirwa è già santo.
La Chiesa cattolica ha un ruolo attivo e influente nel Congo, dove l’86% della popolazione è di religione cristiana (di cui il 41% cattolica). “Siamo a fianco della gente e ci battiamo contro la corruzione e le ingiustizie”, dice Mons. Kanozire. Per questo è molto esposta. Negli ultimi anni sono stati assassinati diversi sacerdoti e alcuni sono stati rapiti. I rapporti con il potere non sono facili. Il 20 luglio scorso, in occasione dei funerali del cardinale Laurent Monsengwo Pasinya, alla presenza delle massime autorità civili tra cui il presidente del Congo, Félix Tshisekedi, l’arcivescovo di Kinshasa, Fridolin Ambongo, non ha usato mezzi termini. “L’opera di Dio per la rinascita del Congo è vedere i nostri leader non come proprietari dei Paesi ma come umili servitori della nazione per il bene e la felicità della gente. Non possiamo rendere omaggio alla memoria del cardinale Monsengwo se lasciamo che la popolazione languisca nella miseria mentre i governanti vivono nell’opulenza e nell’impunità”. Qualche giorno dopo, il 1° agosto, la residenza di Ambongo è stata oggetto di atti vandalici. Difficile non mettere in relazione i due fatti, considerato anche che, proprio il giorno precedente, Augustin Kabuya, il segretario generale del partito di governo, lo aveva accusato di “politicizzare” la Chiesa. Il clima, in questo periodo, si è surriscaldato anche in conseguenza della scelta di non indicare, per le elezioni presidenziali del 2023, un proprio rappresentante per la Commissione elettorale nazionale, che la Chiesa vorrebbe indipendente dalla politica ed espressione della società civile. “Siamo sotto mira”, dice Kanozire, “ma continuiamo il nostro lavoro. Sensibilizziamo i cittadini, li accompagniamo a reclamare i loro diritti, a denunciare le malefatte. E’ la nostra missione”.
18.8
Il pilastro dell’umanità
Le vedi trasportare sulla testa pesi enormi, coltivare campi, vendere ogni sorta di mercanzia, pestare la manioca, raccogliere l’acqua, allattare. Difficile vederne una non occupata a fare queste e un altro migliaio di cose. Anche le bambine, che imparano da subito il mestiere di donna. E si rimane colpiti dalla forza e dalla determinazione di queste piccole, grandi donne le cui fragili e insieme solide spalle sembrano reggere tutto il peso del continente. Le donne sono state le prime vittime di questa guerra infinita. Centinaia di migliaia di stupri e ferite insanabili. Le violenze sono state perpetrate con una crudeltà e una disumanità indescrivibili. Nelle vagine venivano introdotti coltelli, baionette, bastoni, sassi, anche peperoncino, perché la sofferenza non avesse fine. I familiari erano costretti ad assistere e venivano obbligati ad atti aberranti: unioni di figli con madri, di suoceri con nuore. Chi si rifiutava veniva ucciso in modo feroce. Storie insopportabili anche solo da ascoltare. Nessuna donna è stata risparmiata, neanche quelle di tenera età. Nel 2006, all’ospedale Panzi di Bukavu, ho visto una bambina di sei anni. Lo stupro le aveva provocato la perdita della funzione fecale e urinaria, oltre che di quella genitale. Non avrebbe più potuto avere figli. Lei come tante altre. Una sciagura per le donne africane che, con la maternità, raggiungono il punto più alto di realizzazione e di riconoscimento sociale. Una devastazione fisica e psichica a cui ha cercato di porre riparo il Centro Olame, un organismo diocesano che si occupa dell’autopromozione della donna nel territorio di Bukavu. “Durante gli anni di conflitto, le donne hanno vissuto una loro guerra personale”, dice Mathilde Muhindo Mwamini, per trenta anni direttrice del centro, nato nel 1959. “E’ stato devastante. Un tempo la donna era considerata sacra, il pilastro dell’umanità. La guerra ha distrutto i valori ancestrali di questo popolo”. Mathilde si forma all’estero e diventa il megafono di quello che succede nel suo Paese. “Abbiamo lavorato sia a livello locale che internazionale, nel quotidiano e in prospettiva, cercando di far capire ai nostri uomini che i comportamenti violenti, i conflitti, provocano solo distruzione. Abbiamo sostenuto psicologicamente e dal punto di vista medico, economico e sociale le donne violate e spinto la parte femminile del Paese a intraprendere la carriera politica. Abbiamo lavorato anche con i gruppi armati, per far capire che il loro compito non era quello di stuprarci ma di difenderci”. Ma la guerra, anche se in altre forme, continua, e coltivare campi e raccogliere i frutti della foresta è ancora un pericolo. Quest’anno, solo nel Nord Kivu e nell’Ituri, l’Unhcr (l’Agenzia Onu per i rifugiati) ha registrato 1.100 stupri.
Sui disordini da stress post-traumatico lavora la Città della Gioia, nata nel 2011 nel quartiere Panzi, vicino all’ospedale. “Le terribili violenze causano traumi e a volte disturbi mentali”, spiega Marie Jeanne M’Bachu, responsabile della struttura. “Organizziamo due sessioni di terapia di gruppo e individuale di sei mesi con 90 donne ognuna. La psicoterapia dà l’opportunità di trasformare la sofferenza in potere”. Il centro è specializzato nella formazione della leadership delle donne. Riacquistare la fiducia e l’autostima è, infatti, fondamentale per ricominciare, anche perché le conseguenze sociali degli stupri sono molto pesanti. “Le vittime vengono stigmatizzate e discriminate e per questo sono costrette a vivere nella povertà. Alcune si prostituiscono, per guadagnare qualche soldo, e si drogano, per placare la sofferenza. Le più piccole abbandonano la scuola”. Finora, la struttura, finanziata da un’organizzazione americana, ha reinserito nella società 1.649 donne, dai 18 ai 30 anni, il 15% delle quali proveniente dall’ospedale Panzi. Ma il lavoro si estende in tutto il Paese, grazie a un partenariato con altre associazioni che registrano quotidianamente nuovi casi. “Fino a che ci saranno le bande armate, fino a che vivremo nella totale insicurezza, gli stupri e le violenze non cesseranno di esistere”.
20.8
La scuola è un lusso
Per andare a Mushenyi, poco più di 30 km a sud-ovest di Bukavu, occorrono almeno due ore e mezza di macchina e schiena a prova di sobbalzi e scossoni. La strada nazionale, infatti, non è asfaltata ed è piena di sassi ma niente in confronto a quella che arriva dopo, una specie di mulattiera che circonda la montagna, l’escarpement, stretta e disseminata di dossi e ponticelli fatti con tronchi d’albero per coprire le enormi buche createsi sul terreno. Uno shakeraggio senza tregua non essendoci emboutillage che possa interromperlo. I veicoli che si inoltrano all’interno del territorio sono pochi e quando se ne incontra uno che procede nella direzione opposta occorrono le abili e numerose manovre di p. Pascal Lushuli per evitare di cadere nel dirupo. Il villaggio, a 1.500 metri di altitudine, ha circa 15.000 abitanti sparsi su un terreno arido, perché roccioso e sabbioso. Il frate francescano Pascal Lushuli, Segretario Generale della Pontificia Università Antoniana a Roma, è nato e cresciuto qui fino ai 12 anni, prima di trasferirsi a Bukavu. “Mio padre era un maestro delle scuole elementari e ha formato tutti gli insegnanti attuali”, dice con una punta d’orgoglio p. Pascal, che qui è una celebrità, per via del padre ma anche perché è impegnato nella scolarizzazione dei bambini. Grazie al contributo dell’associazione Sochrea, nata nel 2015 su iniziativa di un gruppo di amici italiani, ha costruito due scuole primarie, frequentate da circa 700 piccoli studenti, e paga le tasse scolastiche agli alunni più indigenti, sia delle scuole primarie sia delle secondarie. Organizza, inoltre, la mensa per chi è più in difficoltà. Nella RdC il tasso di scolarizzazione è molto basso. La scuola è un lusso. Malgrado la gratuità scolare dichiarata due anni fa dal Presidente, molte famiglie sono costrette a pagare gli insegnanti, poco o per nulla retribuiti dallo Stato, e a provvedere al materiale scolastico. La condizione di povertà diffusa, in questo villaggio come altrove, rende molto difficile garantire l’istruzione ai bambini, così molti genitori sono costretti a rinunciare o a scegliere solo alcuni dei propri figli, generalmente i maschi. Quando arriviamo, i bambini corrono fuori dalle aule, felici della visita, poi, distribuiti sul terreno scosceso della scuola, in righe parallele, cantano una canzone di benvenuto. Alla fine delle lezioni, i piccoli alunni selezionati entrano nelle aule per il pasto. Si siedono tutti in maniera composta e rimangono in paziente attesa. Anche quando le signore che hanno preparato il cibo cominciano a distribuire i piatti colmi di riso e fagioli aspettano in silenzio che tutti vengano serviti. Nessuno tenta di mangiare di straforo, nonostante la fame e nonostante l’invitante profumo che si sprigiona dai piatti. Poi recitano una preghiera e, finalmente, cominciano a mangiare. Lo fanno lentamente, portando il cibo alla bocca con le mani dopo averlo preso dalla scodella, una per tre bambini. Solo un ragazzino, più in carne degli altri, rompe l’equilibrio, mangiando molto velocemente e impedendo ai suoi vicini di assumere la giusta razione. Ma i malcapitati compagni non hanno nessuna reazione. Continuano a mangiare quello che possono, seri e tranquilli. La pazienza è un’arte che si impara da piccoli.
24.8
Davide contro Golia
Questa è la storia di una battaglia difficile: gli abitanti di un piccolo villaggio, per lo più contadini, contro un potentissimo, l’ex presidente del Congo, Joseph Kabila. Come finirà non si sa, ma combattere è l’unico modo per avere la possibilità di vincere e ha un significato che va oltre il fatto in sé.
La storia è questa. A Mbobero, un’ex piantagione di un colono belga a 10 km da Bukavu, vivono tranquille 10.000 persone. Il 30 gennaio 2016 tutto cambia. Nel villaggio irrompe una pattuglia di militari inviati da Kabila, allora ancora presidente, e capeggiati da sua moglie, Olive Lembe. Rivendicando il possesso della concessione ottenuta qualche anno prima, il gruppo invade l’ospedale proprio mentre è in corso un intervento cesareo. Il medico è costretto a continuare l’operazione all’aperto, sul prato. Troppo strapazzo per il piccolo, che muore subito dopo. Nel frattempo, i 29 ricoverati, spaventati, fuggono, mettendo a rischio la propria vita. Dopo aver distrutto il nosocomio, gli incursori demoliscono 45 case e una chiesa. Da quel momento, i pacifici abitanti iniziano una protesta, sostenuta da Jean-Chrysostome Kijana, presidente de La Nouvelle Dynamique de la Société civile. Mobilitazioni, marce, sit-in, lettere alle autorità con la documentazione filmata dei soprusi, ma non succede niente. Nel febbraio 2018, i militari tornano e radono al suolo 247 case. Vorrebbero distruggere anche la scuola, ma i cittadini, tra cui Jean-Chrysostome, fanno cordone per impedirlo. Per proteggere la “sua” proprietà, Kabila costruisce un muro, impedendo alla gente di coltivare i terreni e condannandola così alla povertà. Molti bambini hanno abbandonato la scuola e vivono sulla strada, alcuni giovani vengono arrestati senza ragione, torturati e sottoposti ai lavori forzati. Donne giovani e meno giovani e persino bambini sono vittime di violenza sessuale. Ci sono stati anche quattro omicidi. L’ultimo, commesso nel dicembre scorso, grazie alla ribellione dei cittadini non è rimasto impunito come i precedenti. L’assassino, un militare, è stato condannato all’ergastolo e lo Stato congolese al pagamento dei danni alla parte civile. “Ma il risarcimento alla vedova non è arrivato e non arriverà mai”, commenta Kijana, che, per la sua attività, nel 2018 ha dovuto rifugiarsi in Uganda per 11 mesi. La moglie e gli otto figli sono rimasti a Bukavu. “Ho vissuto nell’insicurezza totale e nella paura che potesse succedere qualcosa alla mia famiglia”, dice l’uomo che, però, non demorde. Il 24 giugno 2020, ha deposto una denuncia per violazione dei diritti dell’uomo e per crimini contro l’umanità nei confronti di Kabila alla Procura generale presso la Corte di Cassazione. “Il procedimento si è bloccato a causa di forti influenze politiche ma noi non ci arrendiamo. Anche l’ambasciatore Luca Attanasio sosteneva la nostra lotta. Il suo assassinio è stato uno shock per tutti noi ma continuiamo a combattere. Il nostro obiettivo è portare Kabila davanti alla Corte Internazionale”. Una battaglia impari. Jean Chrysostome e gli altri ne sono consapevoli ma non intendono rinunciare. “Si tratta di una questione pedagogica, un insegnamento per i nostri giovani a non cedere mai di fronte alla prepotenza e alle ingiustizie”.
L’ambasciatore forte e gentile
Il ricordo dell’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso il 22 febbraio scorso insieme al carabiniere Vittorio Jacovacci e all’autista Mustapha Milambo, è ancora vivo. “Un uomo semplice, molto umano, con cui era facile fraternizzare”. Così lo descrive p. Franco Bordignon che lo aveva ospitato il sabato precedente, il 20, nella casa dei missionari saveriani, dove Attanasio aveva scherzato e ballato insieme agli altri invitati. “Raramente nel Sud Kivu abbiamo visto ambasciatori. Lui era diverso. Ascoltava e si interessava dei problemi della gente”. Le ipotesi sulle ragioni del suo omicidio sono diverse: un complotto del Congo e del Ruanda per impedire che i responsabili delle atrocità commesse in passato e denunciate dall’Onu nel Rapporto del Progetto Mapping vengano puniti, così come lui voleva; una congiura, che vedrebbe il coinvolgimento anche della mafia calabrese, per arrivare allo sfruttamento dei vasti giacimenti di petrolio scoperti nel Parco Nazionale dei Virunga, a cui era contrario. Certo è che quella che si vuole accreditare, un rapimento riuscito male, è la teoria più debole. Il Congo è un banchetto succulento a cui nessuno intende rinunciare, costi quel che costi. Si saprà mai come è stato ucciso Luca Attanasio? “Se è vero che nella questione sono coinvolti il governo congolese, il governo ruandese e la mafia sarà molto difficile. A meno che non ci sia qualcuno che abbia interesse a rivelare qualche segreto di Stato”.
27.8
Vogliamoci bene
Per andare a Kadutu, dove ha sede la Casa famiglia Tupendane, bisogna passare per il grand marché. Un luogo in cui c’è tutto quello che si trova lungo le strade della città moltiplicato per cento. Si calcola che, ogni giorno, il mercato accolga oltre 4.000 venditori e più di 40.000 fra clienti e visitatori. Come si riesca a uscire fuori da quell’incastro di lamiere, corpi umani e animali, bancarelle, sacchi e mucchi di qualsiasi cosa e dimensione, è un mistero. Lo spazio per i veicoli è molto stretto, tuttavia se ne riescono ad allineare anche tre, tra macchine, bajaja, pulmini e persino camion, in direzioni diverse. Le persone si infilano nelle fessure che si creano tra un mezzo e l’altro con i loro carichi pesanti, incuranti della legge fisica dell’impenetrabilità dei corpi e rischiando, ad ogni passo, la morte per stritolamento. E può succedere anche che il taxi su cui stai viaggiando finisca la benzina proprio lì e che il tassista ti lasci sola dentro la macchina per andare a cercare il carburante. Qualcuno schiaccia il naso sui finestrini per guardare la muzungu, come chiamano qui quelli con la pelle bianca, e chiedere l’argent o le bon bon, a seconda dell’età, mentre, tutt’intorno, gli altri veicoli strombazzano, infastiditi dall’ulteriore ostacolo. Momenti che sembrano infiniti. Poi, finalmente, l’autista torna con le bottiglie di benzina e si riparte. Anzi, si continua a stare fermi perché l’ingorgo è inestricabile, e lo sarà ancora per lungo tempo.
Non si fa in tempo a varcare la soglia dell’edificio che si viene immediatamente attorniati da un nugolo di bambini vocianti che si stringono alle gambe e alle braccia della visitatrice salutando festosi. Siamo nella Casa famiglia Tupendane (“Vogliamoci bene”, in swahili), fondata nel 2007 dal missionario saveriano Giovanni Querzani, che ospita, attualmente, 30 bambini vulnerabili, tra cui una piccola di otto mesi. “Arrivano in condizioni penose e di notevole sofferenza, o perché abbandonati o perché in condizioni di malattia e di grave malnutrizione, con situazioni familiari spesso particolarmente critiche”, dice p. Giovanni, da 51 anni in Congo. “Da noi trovano un clima di serenità e di affetto, grazie soprattutto alla dedizione ammirevole di Merida, la responsabile del centro, e delle altre mamme sue collaboratrici. In seguito, valutiamo la possibilità di un reinserimento nelle famiglie di origine, conservando i legami di amicizia e non lasciando mancare un eventuale sostegno”. A partire dalla prima bambina, Mariamu, affetta da retinoblastoma, un tumore maligno dell’occhio, sono tanti i bambini che hanno trovato ospitalità a Tupendane, che si sostiene grazie al contributo di benefattori italiani. Qui, insieme a un letto e a pasti nutrienti, hanno trovato anche le cure necessarie per malattie gravi come tubercolosi, meningite, malaria cerebrale, malformazioni congenite. Le storie parlano di padri ammazzati da miliziani, mamme vedove con numerosi figli, bambini abbandonati, ragazzine vittime di istinti bassi e feroci. Ma “In questo Paese la forza della vita prevale sempre, nonostante i drammi continui”, afferma l’infaticabile sacerdote, infermiere specializzato in malattie tropicali, le cui imprese sono difficili da riassumere in poche righe. Da quando è arrivato in questa dolente parte del mondo ha realizzato numerose strutture: scuole elementari e secondarie, una scuola di apprendistato per muratori e operai, un Centro di promozione e formazione per mamme, un centinaio di casette per famiglie indigenti, solo per citarne alcune. Nel 2019, sono iniziati i lavori per realizzare due strutture di autofinanziamento: un negozietto di prodotti alimentari e un piccolo ristorante. “Non so se sarò ancora in grado di intraprendere altri progetti”, dice p. Giovanni. “Ma una cosa è certa: finché il Signore mi darà l’energia necessaria, continuerò a fare tutto ciò che mi sarà possibile per il bene di questa gente”.
30.8
L’appuntamento
Il battello di ritorno a Goma scivola sul lago Kivu mentre le immagini di questo viaggio scorrono nella mente. Molte sono legate alle celebrazioni religiose: la sposa triste, per aver perso il suo bambino di quatto mesi il giorno prima del matrimonio; la mamma corista che allatta il neonato colto da fame improvvisa; bambine e bambini che ballano seri e flessuosi davanti all’altare; il pollo dato in offerta che cerca di scappare con le zampette legate; bimbi stremati dalla lunghezza delle cerimonie che si addormentano sulle ginocchia o sulle spalle di sorelline o fratellini poco più grandi di loro; le elemosine che fioccano nei cestini di paglia, perché nessuno è tanto povero da non poter aiutare qualcun altro. Le Messe sono un’esplosione di colori e di gioia in cui centinaia di uomini, donne, giovani e anziani affidano il loro canto di preghiera al cielo. Nessuno di loro ha mai conosciuto la quiete, la serenità, la sicurezza in modo stabile. Ognuno di loro rappresenta una storia di resistenza, pazienza, speranza. Penso a una frase scritta da una giovane studentessa, Kilolo Marie Divine, prima classificata in un concorso di poesie sulla pace organizzato da E’Kabana, la casa delle bambine accusate di stregoneria: “Mi piacerebbe fissare un appuntamento. Un’occasione per ritrovarci e per poter parlare, parlare della pace in noi”.
Roma, 23.9.2021
TUTTE LE FOTO SONO DELL’AUTRICE
(*) pubblicato in due puntate sul quotidiano l’Osservatore Romano
(**) qui Una speranza per il Congo? di Gianni Boccardelli – è uno pseudonimo talvolta usato da db – nel 2006