Diaz: alcuni di noi, ognuno di noi
di Marco Trotta
Qualche sera fa la Rai ha mandato in onda «Diaz» (il film di Daniele Vicari) a circa due anni e mezzo dalla sua uscita nelle sale. So che
è stato abbastanza seguito. Io l’avrò visto almeno 5 o 6 volte, tranne ieri perché alle volte l’impegno è passare anche serate lunghe e complicate a discutere di cose da fare.
Ma da due anni e mezzo a questa parte mi domando sempre cosa lascia negli occhi e nei cuori delle persone che lo vanno a vedere. I primi tempi c’era sempre qualcuno che mi diceva: «Ma tu che c’eri, era davvero così?». Credo di aver risposto qualche volta «anche peggio». Poi ho avuto paura di finire negli stereotipi e nei ruoli che rischiamo sempre di cucirci addosso con la tragica conseguenza di contribuire a mettere una distanza fra noi, gli altri e il senso delle cose che facciamo, quelle per le quali ci impegniamo. Una volta Lorenzo Guadagnucci scrisse su «Carta» (che era anche il mio giornale) che quando hanno cominciato a chiamarlo all’estero, per parlare di quello che era successo in quei tre giorni di luglio del 2001 a Genova, si sentiva come gli esuli cileni testimoni in patria di violenze che il tempo non potrà cancellare. Dalla memoria personale, sicuramente. Quella collettiva è sempre stata un problema di questo smemorato Paese. Perché avere una storia che è un intreccio così complicato di sentimenti pubblici e dannatamente privati non ti mette al riparo. Mai. Per esempio dal dover far i conti con quello che rimane nelle “campagne”, nelle lotte, nelle iniziative che hanno oggi le stesse aspettative. Per molto tempo, e credo ancora oggi, Giuliano Giuliani, il papà di Carlo, invitato in giro per il Paese, ha detto che il nostro era un movimento «altruista» perché non chiedevamo diritti per noi, ma per chi era era emarginato, impoverito e senza voce. L’ho citato spesso a chi domandava alla Diaz «è stato davvero così?». Perché ho sempre pensato che altrimenti non si capiva cosa ci facessimo lì, come mai un movimento di 300.000 persone è diventato molto altro dopo nonostante l’11 settembre, la guerra al terrore, le manovre di palazzo per insabbiare tutto e scaricare ogni responsabilità, gli strali paranoici e guerrafondai ai quali una come la Fallaci poi ha dato voce. E se c’è una cosa che porto dentro come una pena e come un dovere è vedere chi ha vent’anni oggi che non può scegliere. Avere schiacciato in quel modo criminale le aspettative di cambiamento, aver continuano in maniera unilaterale come se nulla fosse (e con la faccia tosta di chiamare gli altri «estremisti») ha semplicemente accelerato quei meccanismi che poi ci hanno messo in crisi. Negli anni in cui qualcuno era distratto e ad altri andava bene così. Per questo quando vedo la politica nazionale e locale lanciare strali contro chi manifesta giustamente contro il caro vita, «grandi opere» assurde e dannose, la mancanza di un tetto dove vivere e magari occupa, per permettersi perfino di dare lezioni sull’antifascismo fuori tempo massimo, trovo solo una risposta possibile: il G8 di Genova non è passato anche per voi. Perché vi inchioda alle vostre responsabilità. A quello che non avete saputo o voluto fare. Ai modi ignobili in cui la politica si è definitivamente trasformate in affare di piccole lobby, connivenze con il potere economico, gestione autoritaria del consenso, impunità organizzata dall’alto.
Ma Genova G8 non è passata soprattutto per noi. E contano poco i percorsi che abbiamo fatto, le convinzioni successive se oggi non ci rendiamo conto della radice di violenza che sembra inestirpabile dalla storia di questo Paese per il quale, ogni volta che c’è un bivio, c’è sempre qualche minoranza (o presunta tale) che ne deve fare le spese. Che deve essere spogliata di diritti e cittadinanza quando mette in radicale discussione i meccanismi che ci rendono un Paese un po’ più disumano, più bieco e incivile. Contano molto, invece, se sono diventati il nostro modo per non sottrarci, per condannarci all’impotenza e al quieto vivere, al menefreghismo generalizzato. E al racconto di comodo che basta qualche rappresentante nelle istituzioni e qualche “buona legge” per farci stare meglio, una manifestazione più o meno riuscita o uno slogan più o meno urlato, per sentirci sollevati da ogni impegno. Negli anni successivi a quel 2001 la famiglia Giuliani ci ha fatto scoprire un piccolo momento personale nel quale Carlo diceva «Ognuno di noi deve dare qualcosa in modo che alcuni di noi non siano costretti a dare tutto». E’ una delle cose che mi porto dentro da allora quanto sento il bisogno di non cedere al cinismo che pervade il nostro presente. Quando sento, leggo, penso «Mai più Genova, mai più Diaz». Giuro, ci sto provando.