Dick, cercare l’umano
Per concessione dell’autore riprendo (come già 7 giorni fa) un capitolo di “Visioni dal futuro“, il libro che Fabrizio Chiappetti ha dedicato a Philip Dick. (db)
1. Do androids dream of electric sheep?1 è il romanzo che, seppur indirettamente, ha contribuito più di ogni altro a far conoscere Philip Dick e a consolidarne la fama negli anni. Alla sua uscita, nel 1968, fu subito notato dal regista Bertrand Berman, che ne comprò i diritti di sfruttamento con l’obiettivo di ricavarne un film. Il progetto di Berman non andò in porto; ci volle tutto l’impegno di una grande “major” hollywoodiana e il talento di un regista del calibro di Ridley Scott2 per poter finalmente assistere alla versione cinematografica del libro, universalmente conosciuta e apprezzata con il titolo di Blade Runner.3 In breve, Do androids dream of electric sheep? è il libro che, anche in termini finanziari, ha fruttato di più al suo autore, altrimenti abituato a vedere le proprie opere ristampate, nel migliore dei casi, in qualche collana super-economica. Ma, paradossalmente, è anche il romanzo a cui Dick sembra essere meno legato.
Nei Saggi Dick cita frequentemente personaggi e trame dei romanzi che ritiene suscettibili di nuove interpretazioni. Si tratta di un atteggiamento tipico per lo scrittore di fantascienza che, parafrasando lo stesso Dick, si accorge un bel giorno di aver scritto molto più di ciò che sapeva, a quel tempo, riguardo a sé, al mondo e agli altri. Titoli come The man in the High Castle, Ubik, e ancora Flow my tears, the policeman said 4, circolano carichi di suggestioni e di inquietanti rimandi nelle pagine dei Saggi scritti nella seconda metà degli anni settanta. Particolarmente curioso, oltre che sintomatico delle ansie e delle fissazioni dickiane, è il caso di Flow my tears, the policeman said. Nel discorso tenuto al festival della fantascienza di Metz5, Dick dichiara di essere assolutamente convinto che i fatti narrati in quel libro, scritto nel ’70 e pubblicato nel ’74, prefigurassero la caduta di Richard Nixon in seguito allo scandalo Watergate. Le affinità riscontrate, in particolare, fra una scena del romanzo e un passo degli Atti degli Apostoli 6 che Dick a quel tempo ignorava completamente, stimolano lo scrittore ad avventurarsi in una serrata speculazione teologica dagli esiti a dir poco sorprendenti. Secondo Dick l’episodio descritto nel libro è una delle tante prove (un’altra è rappresentata dalle visioni avute nel febbraio del ’74) a sostegno della tesi che tutti gli uomini vivono, sia pure in modo inconsapevole, in un “presente alternativo” in cui si consuma l’eterna lotta fra cristiani clandestini e il sistema repressivo romano, di cui il “regime” di Nixon è l’attualizzazione in questo presente.
I riferimenti espliciti a Do androids dream of electric sheep?, invece, si contano sul palmo di una mano. In una breve nota autobiografica si legge che “il romanzo ha venduto molto bene ed è stato adocchiato da una casa di produzione cinematografica che, infatti, ha chiesto un’opzione sui diritti. A me piace solo per un motivo: descrive una società in cui gli animali sono adorati e rari, e chi possiede una pecora è sul serio qualcuno”.7
La trama, nei suoi elementi essenziali, è senz’altro nota al grande pubblico soprattutto grazie al film che però, come avviene nella maggior parte delle trasposizioni cinematografiche, non ha sviluppato alcuni temi presenti nel romanzo. I fatti, innanzi tutto, sono ambientati nel 1992. Rick Deckard è un cacciatore a premio a servizio della polizia di S. Francisco. Il suo compito è di “ritirare” gli androidi emigrati clandestinamente dalle colonie marziane. È un lavoro difficile, non tanto perché neanche agli androidi piace essere braccati, quanto per il rischio di “ritirare”, ossia di uccidere, un essere umano anziché un robot. Gli androidi dell’ultima generazione dispongono di unità cerebrali Nexus-6, che imitano alla perfezione il comportamento umano. Alcuni di loro sono dotati di memorie “sintetizzate” in laboratorio da abili programmatori, in modo da poter superare i test di riconoscimento messi a punto dai dipartimenti di polizia terrestri. Esiste, tuttavia, una prova che neppure gli androidi più evoluti hanno fin ora superato: la scala Voigt-Kampff per la misurazione dell’empatia.
Anche a Rick succede, come a tutti gli esseri umani del resto, di chiedersi come mai un androide si trovi ad essere senza difese davanti a un test per la misurazione dell’empatia. Pare, infatti, che l’empatia possa esistere soltanto all’interno della comunità umana, mentre la stessa cosa non accade per altre facoltà. È possibile, ad esempio, individuare l’intelligenza, almeno fino a un certo livello, anche tra gli animali. L’empatia, secondo Rick, deve comunque essere limitata ad animali in prevalenza non predatori, dal momento che una delle caratteristiche dell’empatia è proprio quella di rendere sempre più sfumati i confini tra il cacciatore e la vittima, tra il vincitore e lo sconfitto.
La scala Voigt-Kampff è la dimostrazione scientifica del fatto che gli androidi non provano emozioni proprie: sono macchine programmate per rispondere ad un numero enorme di stimoli esterni, ma senza la spontaneità, la rapidità e soprattutto l’imprevedibilità di reazione che denotano un coinvolgimento emotivo davvero “umano”. Per Rick Deckard gli androidi non sono esseri viventi: perciò, quando deve ritirarli, ha in testa soltanto i mille dollari di premio per ogni androide catturato. E stavolta ci sono ben sei androidi Nexus-6 a piede libero in giro per S.Francisco.
L’immaginazione di Deckard, allettata dall’idea di incassare seimila dollari in un solo giorno di lavoro, è già tutta protesa verso l’acquisto di un animale vero che rimpiazzi la sua pecora elettrica. Dopo la fine della Guerra del Mondo, si è assistito, infatti, ad una drastica riduzione delle specie animali. I primi a fare le spese delle piogge di polvere radioattiva sono stati gli uccelli; ma anche gli uomini subiscono le conseguenze dell’inarrestabile degrado ambientale. Alcuni, ad esempio, nascono con capacità cerebrali inferiori alla media e non riescono a superare i test per la determinazione del quoziente intellettivo: sono gli “speciali”, chiamati anche con disprezzo “teste di gallina”.
La polvere radioattiva è inoltre responsabile del veloce deterioramento a cui vanno incontro gli oggetti che rimangono inutilizzati. Interi quartieri di S.Francisco sono letteralmente inghiottiti da una strana forma di inquinamento, il Kipple. In pratica, è come se i rifiuti, o tutto ciò che è semplicemente dimenticato dagli uomini, magari perché emigrati sulle colonie marziane, fossero dotati di una capacità riproduttiva intrinseca. La massa informe del Kipple cresce, si riproduce, invade strade e appartamenti disabitati. Là dove non c’è più vita, il Kipple reclama anticipatamente i diritti che il gelido processo dell’entropia vanta nei confronti dell’intero universo. J.R. Isidore è una “testa di gallina” che vive da solo in un palazzo contaminato dal Kipple. Per quanto riguarda gli androidi, Isidore non la pensa come Rick. Fa amicizia con tre Nexus-6 per i quali nutre un’istintiva empatia, dal momento che gli androidi, al contrario degli altri uomini, non lo fanno sentire “diverso”. Questa, almeno, è la sensazione di Isidore.
Nel frattempo, la caccia all’androide si rivela più insidiosa del previsto. Durante il “ritiro” del secondo androide Rick s’imbatte in un agente di una sezione parallela della polizia di S. Francisco, di cui non era minimamente a conoscenza. Le domande si moltiplicano e si rincorrono nella testa di Rick, incapace di spiegare a se stesso come sia possibile che esista un posto simile, una sezione di polizia sconosciuta che a sua volta non è al corrente del dipartimento per cui lavora Rick.8
Ma la domanda cruciale è un’altra, ed è quella rivolta a Rick dall’ispettore Garland, circa la possibilità che Rick sia un androide che tenta di farsi passare per cacciatore a premio. Fatti simili, a detta di Garland, erano già avvenuti in passato, ad opera di androidi evasi che cercavano di sottrarsi ai ritiri della polizia. Rick, per niente intimidito dai sospetti dell’ispettore, accetta di sottoporsi al test d’identità basato sulla scala Voigt-Kampff.
Ma l’ispettore, altro particolare inquietante, non conosce questo test, l’unico in grado di riconoscere anche unità androidi di tipo avanzato come i Nexus-6. Deckard, a questo punto, potrebbe essere davvero un androide dotato di una memoria sintetica. Il fatto che sia sposato, ma senza figli, o che nutra una passione morbosa per gli animali, lui che per anni si è dovuto accontentare di tenere in giardino una misera pecora elettrica, potrebbero essere altrettanti elementi che denotano un’evoluzione nella fabbricazione degli androidi. Il punto è che l’androide non sa di essere tale, e quando lo scopre non smette di comportarsi in base alle istruzioni con le quali è stato programmato. Può accadere che si attacchi prometeicamente al simulacro meccanico che chiama vita, ribellandosi alla crudele volontà del suo creatore, come Roy Baty, il capo dei Nexus-6 fuggiti dalle colonie; oppure, che accetti il suo tragico destino simulando angoscia e sofferenza…come l’ispettore Garland. L’androide, per il momento, è un altro, e Rick può riprendere la caccia.
I Nexus-6 sono copie di alcuni modelli-base e perciò vengono anche chiamati replicanti. Uno di questi modelli è Rachel Rosen, “nipote” del proprietario della Rosen Corporation di Seattle, la ditta produttrice dei Nexus-6. Rick conosce la ragazza durante una visita alla fabbrica, e tramite l’applicazione della scala Voigt-Kampff ne smaschera l’identità androide. Eppure, per la prima volta nella sua vita, Rick si sente inspiegabilmente “attratto” da un androide. I due si rivedono, su invito di Rick, a S. Francisco, e decidono di passare insieme la notte in una stanza d’albergo. Superate le diffidenze iniziali, Rachel si lascia andare ed apre a Rick il suo cuore di androide.
– Noi siamo delle macchine – osserva tristemente Rachel, – stampate in serie come tappi di bottiglia. È un’illusione che io…io esista come persona. Sono soltanto la rappresentante di un tipo.9
La coscienza del proprio ruolo di cacciatore prevale, tuttavia, sull’empatia, o meglio sull’attrazione erotica suscitata dalla giovane androide. Rick abbandona Rachel, dopo essere stato con lei; deve andarsene, altrimenti non riuscirà più a ritirare gli androidi, specialmente quelli dello stesso modello di Rachel. La caccia agli ultimi tre androidi si conclude positivamente con l’aiuto di J.R. Isidore, il quale si è reso conto che l’apparente gentilezza degli androidi è solo un riflesso meccanico, equivalente a qualsiasi altro gesto. A convincerlo è la meccanica, impersonale indifferenza mostrata dagli androidi nel mutilare un piccolo ragno sopravvissuto al Kipple, forse “l’ultimo ragno sulla Terra”.
Deckard vince, ma non è certo il migliore per qualità morali fra i personaggi del romanzo. Se, da un lato, gli androidi sono macchine “dal volto umano”, dall’altro Deckard è descritto come un uomo lucido e spietato nel suo lavoro, come potrebbe esserlo una macchina. Nei rapporti umani Rick è assai poco disposto all’empatia. Con la moglie Iran comunica solo litigando; con i colleghi poliziotti e i rivenditori di animali è sempre arrogante e sospettoso. Sembra che tutta la sua capacità d’affetto si concentri su una magnifica capra nera. Possedere un animale vivo è un lusso che pochi, nel 1992, a causa del Kipple e della polvere radioattiva, possono permettersi. Ci si deve accontentare, come nel caso di Deckard, di imitazioni elettriche. Neanche l’amore per gli animali, dunque, è un sentimento genuino, ma rappresenta il desiderio di possedere un oggetto qualificante, uno status symbol sociale.
J.R. Isidore, paragonato agli altri personaggi incluso Deckard, è sicuramente il più empatico di tutti e quindi, in base alla scala Voigt-Kampff, l’essere umano per eccellenza. Alla fine, però, pure Isidore comprende che occorre stare dalla parte di Deckard per sconfiggere la minaccia delle macchine.
2. La rappresentazione degli androidi, e soprattutto il tema dell’evoluzione della tecnologia che rischia di inquinare in modo irreparabile l’umanità, ossia l’identità dell’uomo, continuano, anche dopo Do androids dream of electric sheep?, ad essere al centro della produzione letteraria dickiana.10
Nel saggio dal titolo L’androide e l’umano (1972), si legge che “le macchine stanno diventando più umane, almeno nel senso che, come mostrato da Wiener11, possono essere istituiti significativi paragoni tra il loro comportamento umano e quello degli uomini.”12 “In alcuni dei miei romanzi”, prosegue Dick, “ho parlato di androidi, robot o simulacri. Il nome non ha importanza: ciò a cui mi riferisco sono le costruzioni artificiali dall’aspetto umano e, di solito, animate da qualche sinistro proposito”13. Dick, tuttavia, ritiene che anche questa idea sia ormai superata: gli androidi non sono necessariamente pericolosi, come se nel loro DNA di dati e programmi fosse inscritto, in qualche modo, il gene che ne determina tutt’a un tratto il cortocircuito e la “volontà” di vendetta verso gli esseri umani. I comportamenti degli androidi sono determinati dalle istruzioni e dai programmi, ivi comprese le memorie sintetiche; maggiore è il grado di definizione e di precisione di tali elementi (ad es. il numero e la qualità dei ricordi sintetici), maggiori saranno le analogie e i paragoni possibili tra androidi ed esseri umani.
La stupefacente evoluzione delle macchine, che si avvicinano sempre di più a modelli umani di comportamento, richiede con urgenza di rispondere alla questione che Dick formula nel modo seguente: qual è l’aspetto del nostro comportamento che noi riteniamo specificamente umano, esclusivo della nostra specie?14 Secondo l’opinione di Emmanuel Carrère, Dick “era fatto in modo tale che, per glorificare l’uomo, aveva bisogno di definire e braccare il suo contrario. Ora, il contrario dell’uomo, non è l’animale, né l’oggetto, ma il replicante: il robot.”15 Ed è esattamente questo il primo dei due nuclei narrativi fondamentali di Do androids dream of electric sheep?
La figura dell’androide, inteso come alter ego meccanico che non si sottomette ai voleri del suo creatore, vanta precedenti di tutto rilievo in campo letterario; basti pensare al mostro di Frankestein di Mary Shelley (1818), o al Golem uscito dalla penna di Gustav Meyrink (1914). Molti autori di fantascienza si sono sbizzarriti ad inventare legioni di robot umanoidi animati dai “soliti” propositi di vendetta e di dominio sull’umanità. Gli androidi di Dick, invece, non sono necessariamente ostili o, per lo meno, non più di quanto lo siano gli uomini. Qualcuno mente, qualcun altro perde la testa, ma quanti uomini, sapendo di avere i giorni contati, agirebbero diversamente? Gli androidi sono programmati per simulare gli uomini: fingono nella misura in cui anche fingere è umano.
Il confine che separa le due realtà si è talmente assottigliato da essere percepibile esclusivamente dalle sofisticate attrezzature impiegate per la prova Voigt-Kampff. L’idea del test per identificare gli androidi, secondo Carrère, venne a Dick dalla lettura di un articolo del matematico inglese Alan Turing.16 Turing immagina, in tre stanze separate, un esaminatore umano, un candidato umano e un candidato androide. L’esaminatore comunica con i candidati mediante un computer o con un altro sistema che però disponga della sintesi vocale. La prova consiste nel rispondere ad una serie di domande su qualunque argomento (politica, vita privata, abitudini sessuali, operazioni di calcolo, ecc.). Sulla base delle risposte ricevute l’esaminatore umano pronuncerà il verdetto definitivo. Se l’androide verrà giudicato erroneamente, se cioè verrà scambiato per un essere umano, vorrà dire che occorrerà considerarlo umano senza porre ulteriori discriminazioni: “Non si sostengono a vita”, dice Turing, “gli esami già superati ”.
“Il test di Turing”, scrive Carrère, “diventò uno degli argomenti prediletti di Dick. Lui che si vantava di poter imbrogliare qualsiasi psichiatra avrebbe adorato fare la parte della macchina e subissava i suoi amici di variazioni sul tema, in particolare durante le stravaganti conversazioni telefoniche in cui si doveva provare di essere se stessi e non degli impostori.”17
Il test Voigt-Kampff è in parte simile al test di Turing: vi è infatti un esaminatore umano che pone al candidato delle domande, alcune assolutamente normali, altre atte a suscitare, nell’essere umano, una reazione emotiva fuori dal diretto controllo della volontà. Un pennello registra la rapidità e l’entità dei movimenti della pupilla, mentre un disco speciale applicato su una guancia del candidato trasmette i dati sull’afflusso di sangue nei capillari. L’occhio attento e l’esperienza dell’esaminatore fanno il resto.
Le risposte degli androidi denunciano un sostanziale appiattimento delle emozioni, mentre quelle fornite dagli esseri umani mostrano un andamento discontinuo, segno dell’avvenuto coinvolgimento emotivo. Turing, probabilmente, non avrebbe mai accettato un test sulle emozioni, e meno ancora si sarebbe fidato di una scala che misura l’empatia: il ricorso a questo criterio distintivo lo avrebbe sicuramente divertito. Nulla vieta, in teoria, di inserire nel programma di una macchina dei comportamenti del tutto simili a quelli che si è soliti attribuire all’umana carità, che tra l’altro non è certo una di quelle doti dal riscontro tanto frequente negli stessi esseri umani.
Dick, a differenza di Turing, non intende accogliere gli androidi nel seno della comunità umana. Gli androidi, secondo Dick, sono la testimonianza, per ora solo letteraria, di un vasto processo di trasformazione che interessa le società tecnologicamente avanzate. Le macchine sempre più umane sono un fatto senza precedenti nella storia della civiltà. “Cent’anni fa un simile pensiero sarebbe stato considerato assurdo, prima ancora che antropomorfizzante. Cosa avrebbe potuto apprendere su se stesso”, si chiede Dick, “un uomo della metà del diciottesimo secolo osservando il comportamento di un motore ad energia asinina?.”18 Il mondo formato dalle macchine intelligenti, computer, apparecchi per la generazione della realtà virtuale, sta acquisendo un attributo che, anticamente, era riconosciuto alle forze e agli elementi della natura: l’anima. “È una tipica tendenza della mente primitiva”, spiega Dick in L’androide e l’umano, “quella di attribuire un’anima all’ambiente circostante” 19; ora, dopo aver impiegato secoli per liberarsi da simili credenze e non vedere più la natura “animata”, l’uomo dell’era tecnologica sembra seguire la tendenza opposta, ossia la costruzione di un mondo artificiale “animato”.
Una riflessione per certi versi analoga a quelle di Dick si trova nelle prime pagine della Dialettica dell’illuminismo, in cui gli autori esordiscono affermando che “l’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni.”20 La ragione illuministica, liberatrice dal dominio delle antiche paure, si è però capovolta nel dominio della tecnica che ripropone, in termini forse ancor più drammatici, il problema della salvaguardia della soggettività umana. Dick, da parte sua, teme che si stia andando verso “una graduale fusione della natura generale delle attività e delle funzioni umane con le attività e le funzioni di ciò che noi umani abbiamo costruito e di cui ci siamo circondati.”21 In seguito all’avvento massiccio delle macchine il mondo è stato in gran parte reificato e il rischio, rappresentato dall’estensione del processo di reificazione all’uomo e alle relazioni umane in generale, si fa sempre più concreto. 22
L’idea che l’uomo faccia parte di un tutto manipolabile e riproducibile ad libitum provoca pesanti ripercussioni. L’uomo gode degli indiscutibili vantaggi della tecnica, ma al tempo stesso è anche costretto a riconoscere Lo strapotere che la produzione tecnologica si trova a gestire, ormai non più solamente nell’ambito economico del lavoro ma praticamente in tutti gli ambiti caratteristici dell’esistenza umana, mostra il rovescio della medaglia aprendo la strada al Kipple. Il mondo “kiplizzato” è il mondo saturo dei consumi rapidi e superflui, dei gadget inutili e presto superati, degli oggetti che formano gli status symbol del momento e che l’industria deve continuamente cambiare per far posto ai nuovi prodotti, anch’essi figli dell’inarrestabile marcia dell’innovazione tecnologica. È un mondo claustrofobico per i sentimenti, c’è posto solo per le reazioni legate alla necessità di sopravvivere comunque. Le macchine si stanno animando, ma gli uomini stanno correndo il rischio opposto, con gli androidi probabili “anelli di congiunzione” del nuovo mondo artificiale.
Si tratta di un processo analogo, secondo Dick, a quello che caratterizza la natura e il decorso della schizofrenia. “Nel campo della psicopatologia”, scrive, “la struttura della personalità schizoide è ben definita: vi si riscontra una costante scarsità di sentimenti. E come ha mostrato il grande psicologo svizzero Carl Gustav Jung, questo atteggiamento non può essere mantenuto a lungo: la maggior parte degli aspetti della realtà va affrontata con il sentimento. In ogni caso, è possibile istituire un certo parallelismo tra la personalità che io chiamo “androide” e quella schizoide.”23
Dick, però, non pensa ad un fantascientifico dilagare futuro della schizofrenia, ma volge lo sguardo verso la realistica minaccia dell’androidizzazione, vale a dire della trasformazione indolore dell’uomo in qualcosa di più “povero”, di decaduto rispetto alla sua essenza. Diventare androidi non significa che, da un giorno all’altro, agli uomini spunteranno organi meccanici alla Palmer Eldritch; diventare ciò che Dick intende per androide significa pertanto “acconsentire a trasformarsi in un mezzo, oppure essere oppressi, manipolati e ridotti a un mezzo inconsapevolmente o contro la propria volontà: il risultato non cambia”.24
In Do androids dream of electric sheep? gli androidi fuggitivi devono essere “ritirati”, analogamente a quanto prescritto dalle più antiche consuetudini in materia di schiavitù. Ma dietro l’inflessibile rigore della legge si cela qualcosa di più. Gli androidi sono lo specchio sgradito di un’umanità in crisi, che cerca il calore degli animali vivi e contemporaneamente necessita di uno stimolatore artificiale del cervello per prendere decisioni25; che vive di tecnologia tra le rovine del mondo devastato dal Kipple. Gli androidi, inoltre, suscitano un sentimento di orrore, una paura atavica, che prescinde addirittura dall’immagine del mondo dominato dalla tecnica, di cui sono portatori. Lo stesso tipo di orrore Dick lo trova espresso in un racconto di Ray Bradbury, in cui “un cittadino di Los Angeles attanagliato dalla paura scopre che l’auto della polizia che lo sta seguendo è senza guidatore. (…) Il vero orrore è dato dal fatto che all’interno dell’auto ci sia un vuoto. Un posto non occupato. L’assenza di qualcosa di vivo, la visione apocalittica di un futuro da incubo”.26 Gli androidi sono un’altra versione di quest’assenza di “qualcosa di vivo”: essi rappresentano il ritorno dell’inorganico, della non-vita. Il “posto non occupato” di Bradbury diventa, in Dick, il posto occupato dall’androide.
Rick, sulle tracce di una cantante lirica sospetta androide, assiste alle prove del Flauto Magico di Mozart al vecchio teatro dell’opera. La musica, per un attimo, lo distrae dal suo incarico di cacciatore, spingendolo a pensare se anche Mozart abbia intuito, scrivendo quell’opera, di essere un uomo vicino alla fine. Le prove finiscono, gli artisti abbandonano il palco, e come calerà il sipario sulla più soave delle rappresentazioni calerà l’oblio o l’ombra nera della distruzione sulle musiche, sul nome stesso di Mozart, come su ogni altra forma o significato esistente. La polvere, moneta dei processi entropici universali, è destinata ad estendere la sua signoria, nei termini di disfacimento e di assenza ai danni della forma e dell’ordine cosmico.
3. Si è già accennato al fatto che la caccia agli androidi è uno dei due nuclei narrativi principali che sono sviluppati nel romanzo. Il secondo nucleo è incentrato sulla pratica di un culto religioso chiamato Mercerismo. I fedeli entrano mentalmente in comunione attraverso uno speciale dispositivo, denominato “scatola dell’empatia”. Immersi un una sorta di realtà virtuale, i fedeli vedono di fronte a sé un paesaggio desertico: al centro compare una montagna altissima e un vecchio, provato dalla sofferenza e dagli anni, che tenta la scalata. A un certo istante una pietra, scagliata da non si sa chi, colpisce il volto del vecchio; poi un’altra e un’altra ancora, finché il poveretto non cade rovinosamente ai piedi della montagna. Ma Wilbur Mercer si rialza sempre, e i merceriti con lui. Mercer soffre con tutti, ma neanche tutto il male del mondo potrà impedirgli di salire, per l’eternità. Questa, in sintesi, è la fede di Iran, la moglie di Rick, di J.R. Isidore e di molti altri. Non tutti, però, sono convinti della bontà dei messaggi di condivisione e speranza del mercerismo, e qualcuno avanza pesanti dubbi sulla sua autenticità. Il comico televisivo Buster Friendly, ad esempio, tiene sulle spine milioni di telespettatori promettendo di fare, tra una battuta di spirito e una barzelletta demenziale, un annuncio sensazionale: la scoperta della manifesta falsità del mercerismo. Un giorno qualunque, durante una puntata qualunque, irrompe la “rivelazione” mediatica di Buster. Lo scoop inizia con l’impietoso esame dei fondali in cui è ambientata l’ascesa di Mercer: il cielo, la luna, le montagne che i merceriti percepiscono durante l’esperienza della comunicazione empatica non sono reali, né su questa terra né altrove. Le ricerche condotte dallo staff di Buster hanno appurato che l’insieme di questi elementi scenici altro non sono che una ricostruzione da studio, vale a dire un “banale” set, pronto per essere ripreso e propinato ai creduloni del culto empatico. Neanche le pietre che ostacolano Mercer sono vere; con ogni probabilità il materiale usato è incapace di causare dolore, così come il sangue che fuoriesce dalle ferite è solo dell’innocuo succo di pomodoro.
Ma quella che Buster definisce “l’impressionante scoperta che scuoterà il mondo” culmina con lo svelamento dell’identità di Wilbur Mercer, ponendo fine, attraverso un’inchiesta televisiva, all’ultima esperienza di carattere religioso sopravvissuta sino a quel momento anche nella civiltà del Kipple e delle pecore elettriche. Gli scrupolosi collaboratori di Buster, dopo lunghe ricerche negli archivi fotografici degli studi hollywoodiani, sono riusciti a risalire all’attore che ha prestato le sembianze a Mercer, un certo Al Jarry, protagonista di una serie di brevi film televisivi andati in onda prima della Guerra del Mondo. 27
Wilbur Mercer, insomma, non è né un “archetipo di un’entità che viene dalle stelle” (ipotesi di Rick) 28 e neppure Dio, ma semplicemente un personaggio televisivo, per giunta di basso profilo. Eppure, era un simbolo che riusciva a dare un senso all’esistenza e, in modo particolare, alla sofferenza che i fedeli comunicavano empaticamente. Quel vecchio, che Buster ha smascherato con tanta dovizia di particolari, compiva un’ascesa verso una vetta impossibile: la sua fatica ricorda la punizione di Sisifo, ma il caricarsi del dolore altrui mediante la fusione empatica e l’invincibile risalita dopo tutte le cadute lo avvicinano al servo sofferente, al Cristo che risorge per sempre e resta con i suoi fedeli “fino alla fine del mondo”.29 J.R. Isidore si ribella all’evidenza delle prove addotte da Buster Friendly. Al colmo della disperazione per via dell’annuncio che Wilbur Mercer è una frode, Isidore è protagonista di una visione.
“Cominciò a soffiare un vento bruciante, e intorno a lui cumuli di ossa caddero in polvere. – Mercer – disse (Isidore) ad alta voce, – dove sei adesso? Questa è la tomba del mondo, e io ci sono ancora dentro (…). Il vecchio era di fronte a lui, con un’espressione placida sul viso”. Isidore, ancora sconvolto per via di quello che aveva appena visto e sentito in televisione, chiede a Mercer se è tutto vero, se cioè l’esperienza dell’empatia è soltanto un’illusione, l’ultima e l’unica che pure dava un senso alla sua esistenza emarginata. Mercer conferma la veridicità delle affermazioni di Buster, senza escludere i particolari più scandalosi. Dal punto di vista di chi cerca solo quello che sa già di voler trovare, ossia lo scoop in questo caso, le cose stanno proprio così. Eppure, spiega Mercer, quello che veramente conta, che è essenziale, loro non saranno capaci di vederlo. Sono cercatori di verità evidenti, pronti a bollare col marchio della superstizione ciò che, pur essendo vero resta, forse proprio per questo motivo, invisibile. Ecco perché “Si inquieteranno molto, quando non riusciranno a capire perché niente è cambiato. Perché tu sei qui, e io sono con te.”30
“La fusione con Mercer”, scrive Carrère, “cammino di croce e comunione dei santi, è l’esatto contrario della traslazione sotto il controllo di Palmer Eldritch: non isola ma unisce; e si rinnova sempre”.31 Carrère, inoltre, è convinto che la scena del dialogo tra Isidore e Mercer sia la trasposizione dell’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus. “Con questo atto di fede”, continua Carrère, “Dick prendeva posizione in un dibattito che agitava l’opinione pubblica, o almeno la minoranza che si preoccupava di questioni religiose. La scoperta dei manoscritti del mar Morto, nel 1947, aveva fatto molto rumore e diffuso l’idea che, se una parte apprezzabile dell’insegnamento attribuito a Gesù nei Vangeli sinottici si ritrova in documenti anteriori alla sua nascita, questo insegnamento non era forse così originale come si era creduto.” 32 Alcuni amici di Dick, tra cui il vescovo episcopaliano James A. Pike, erano rimasti turbati dalla prime indiscrezioni trapelate sul contenuto dei manoscritti rinvenuti nelle grotte di Qumran. Dick, da parte sua, restava dell’opinione che il cristianesimo fosse il veicolo della rivelazione meta-storica dell’amore soprannaturale. L’eucaristia, in particolare, è il segno concreto dell’amore divino espresso attraverso il linguaggio della presenza. Le parole stesse che Dick mette in bocca a Mercer suonano quasi come una formula sacramentale:- Tu sei qui – dice Mercer con solenne semplicità, – e io sono con te -.
Ecco l’uomo incontrato da Isidore. L’umanità di Mercer consiste appunto nell’essere con l’altro, soffrire con lui, rialzarsi sempre con lui. Gli elementi che dovrebbero, di norma, identificarlo (ad es. l’aspetto fisico), sono pochi e generici: le apparenze sensibili tanto care a Buster e ai suoi amici non colgono minimamente l’essere comprensivo, che è la vera natura di Mercer.
“Tu sei qui e io sono con te” rimanda ad un senso del comprendere antecedente alla comprensione fenomenologica. Si tratta della comprensione della presenza che non si dà se non congiunta alla presenza dell’altro (tu sei qui e io sono con te). La presenza è compresenza originaria e insieme ultima che sta tutta nell’incontro: prima di qualsiasi esercizio intellettivo di comprensione avviene l’incontro. Avviene, non accade, poiché l’esserci della compresenza non è casuale, ma un’adesione reale, drammatica alla vita dell’altro: un’adesione che diventa condivisione e infine accettazione del significato stesso dell’esistenza, altrimenti vuota e priva di prospettive di senso. È in questo permanere nella compresenza dell’incontro (niente è cambiato. Perché tu sei qui ecc.) che si concentra l’umanità “divina” di Mercer.
“Ti ho sollevato dalla tomba del mondo” assicura Mercer rivolgendosi ad Isidore, “ e continuerò a farlo finché tu non avrai perso ogni interesse e vorrai andartene. Ma sarai tu che dovrai smetterla di cercarmi, perché io non smetterò mai di cercare te.”33
La premura dai toni quasi evangelici dimostrata da Mercer trasforma l’esserci in un’espressione plurale, in cui ciascuno delinea la propria identità (l’essere dell’Io) in intima connessione con l’essere presente dell’altro (l’essere del Tu). La relazione espressa dalle parole di Mercer si caratterizza per il fatto di essere relazione personale di incontro, e non di contrapposizione. La presenza totalmente aperta, in cui consiste l’epifania di Mercer, diventa epifania di ciò che è autenticamente umano.
“È noto”, scrive Jorge Luis Borges, “che l’identità personale risiede nella memoria, e che l’annullamento di questa facoltà comporta l’idiozia”34; la stessa tesi viene ribadita, in modo più approfondito ma sicuramente con meno eleganza stilistica, dai moderni dizionari di psicologia, che definiscono l’identità come la coscienza di sé (presenza a se stessi) continua nel tempo.
Con Wilbur Mercer, invece, Dick lascia intendere che la memoria da sola, oppure l’intelligenza indagatrice dello staff di Buster, non possono esaurire la domanda dell’identità. La memoria ne sarà pure l’immagine, lo “specchio delicato e segreto dell’anima”, come lo chiama Borges, ma non la radice dell’identità, che per Dick sta nella compresenza dell’incontro. Lo specchio della memoria acquista significato alla luce della compresenza: da solo, non ha che da offrire il passato, la tomba del mondo, dove torti e ragioni, oppressioni e sofferenze si equivalgono senza possibilità di distinzione, e soprattutto di redenzione. Dick immagina androidi dotati sia di memoria sia d’intelligenza, e questo perché memoria e intelligenza sono facoltà umane “riproducibili” e riscontrabili sia nell’androide letterario, sia nell’uomo-androide frutto del processo di reificazione; mentre la potenzialità empatica che fa dell’esistenza una presenza gratuita e aperta è irriproducibile. “Un essere umano privo di capacità empatica e di sentimenti”, afferma Dick in Uomo, androide e macchina, “è identico ad un androide costruito, intenzionalmente o per errore, senza di essi. Costui ostenta distacco, confermando con la sua indifferenza il teorema di John Donne, secondo cui “No man is an island” (Nessun uomo è un’isola), ma in una formulazione leggermente diversa. Un’isola morale e mentale non è un uomo.”35
4. Si è detto del possibile rischio di trovare insoddisfacenti le asserzioni dickiane intorno alla quarta domanda di Kant: che cos’è l’uomo? Ma Dick non è l’autore diligente che risponde direttamente a questo come ad altri interrogativi sollevati nelle sue opere; egli, piuttosto, semina schegge della sua personale concezione dell’uomo e dell’universo nella maniera in cui questa, probabilmente, è affiorata alla sua coscienza. Gli androidi di Do androids dream of electric sheep?, i simulacri meccanici prodotti dalla contaminazione operata da Palmer Eldritch, i protagonisti di Ubik, sospesi in una condizione di semi-vita in un mondo stretto tra l’inversione del tempo e l’avanzamento inesorabile della distruzione entropica, sono solo alcuni fra i tanti “esempi” che si possono trarre dai romanzi di uno scrittore così prolifico e complesso. Sono tutti personaggi da leggere in controluce: aumentando il contrasto, si vedrà che queste figure racchiudono i frammenti intensi, brevi ma suggestivi, di un’antropologia “alla rovescia”. Il discorso sull’uomo, infatti, prende il via da ciò che l’uomo non è o non è ancora diventato. L’uomo non è ancora Palmer Eldritch, né è completamente “androidizzato”, perché comunque nel suo essere, come nella sua storia, sono deposti i semi del risveglio. In Le tre stimmate di Palmer Eldritch la via d’uscita offerta dalla peculiarità della religione cristiana, il cui Dio muore anziché chiedere che si muoia per Lui, è ancora stretta e impraticabile, e si riduce ad un’invocazione disperata e succube della potenza del simulacro di Eldritch. Ubik, invece, è incentrato sul “risveglio”, sulla lotta per capire “in che mondo siamo”. Da un punto di vista antropologico, Ubik è l’opera che drammatizza, più delle altre due prese in esame, il problema del “posto” dell’uomo nell’ordine universale segnato dall’esaurimento di ogni forma. Do androids dream of electric sheep?, infine, risale la china dell’abisso del degrado dell’umanità, ormai quasi indistinguibile dagli androidi, per affermare la vera prerogativa dell’essere umano.
Quella che Dick propone è un’antropologia della relazione, per la quale “nessun uomo è un’isola”. Su questo punto insistono i Saggi, magari con argomenti contraddittori e sicuramente senza il rigore e le pretese di un discorso sistematico. Dick non è il solo a pensare che la domanda antropologica vada ripensata a partire dalla categoria della relazione; altri, come Martin Buber, si sono spinti lontano in questa direzione, consapevoli del fatto che la “crisi di senso” attuale, a cui la ricerca filosofica si sforza di far fronte, è essenzialmente una crisi antropologica. Non è un modello cosmologico ad essere messo in discussione, ma è l’uomo che, per dirla con Buber, non ha più una “casa”. L’uomo è uscito dalla sottomissione alla natura; la scienza lo ha spodestato dal centro dell’universo e la nuova “casa”, il mondo tecnologico, non è il mondo che corrisponde alle aspettative del suo essere.
Albert Camus ha sintetizzato la crisi antropologica attuale con poche, micidiali parole: “Vi è un solo problema veramente filosofico, quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.” 36
Dick non è stato un semplice interprete della crisi, ma ne ha portato i segni durante la sua breve e tormentata esistenza terrena. È impossibile, tra l’altro, sapere cosa abbia veramente pensato negli ultimi anni trascorsi in silenzio, o cosa ci sia dietro l’ultima, visionaria trilogia di Valis, che si è imposta all’attenzione dei critici per le sorprendenti analogie con le antiche dottrine gnostiche.37 Forse un po’ più di luce sarà fatta nei prossimi anni, quando si potrà avere un’idea più precisa di quell’opera impossibile che è l’Esegesi.38
Ma in tutto l’esercizio critico e interpretativo che continuerà a svolgersi sui testi dickiani negli anni a seguire sarà bene non perdere di vista la semplicità provocatoria di certi suoi spunti. Dick è il visionario, l’uomo che, come qualcuno ha scritto, ha inventato il prossimo millennio. Si potrebbe aggiungere che, più che averlo inventato, Dick il futuro lo ha visto davvero, indagando senza requie dentro se stesso, immaginando mondi senza uomini e senza salvezza. Ma oltre a questo c’è un altro, impercettibile Dick che spia nel buio e segna il sentiero perché si possa continuare a vederlo anche dopo esserci passato. E tra questi piccoli segnali il più importante, forse, resta la scoperta della reciprocità della presenza come senso pieno dell’esistenza. Ecco la verità che Dick lascia in eredità a chi vorrà proseguire la strada in salita della domanda antropologica, ricordando che
“la misura di un uomo
non è la sua intelligenza, ma questa:
con quanta rapidità sa reagire
ai bisogni di un altro uomo?
E quanto di se stesso sa dare?
Quando diamo,
quando diamo veramente,
niente torna indietro.”
(Philip Kindred Dick)
NOTE
1 Il libro è apparso in Italia per la prima volta nel 1971, col titolo Il cacciatore di androidi (La Tribuna, Piacenza)
2 Ridley Scott è stato il regista di molti film di successo, fra i quali meritano particolare attenzione I Duellanti (1977), Alien (1979), Thelma & Louise (1991).
3 Blade Runner, Usa, 1982. È attualmente in circolazione la versione originale del film (Blade Runner, the director’s cut, Usa, 1992) che si avvale di un diverso montaggio e del primo finale girato dal regista, che però venne respinto dai produttori.
4 Il titolo della traduzione italiana è Episodio temporale, Ed. Nord, Milano, 1977.
5 P.K. Dick, Se vi pare che questo mondo sia brutto, dovreste vederne qualche altro, in Mutazioni, op. cit., pp. 273-298.
6 Cfr. Atti degli Apostoli, cap. 8, vv.27-39. Cfr. anche P.K. Dick, Come costruire un universo che non cada a pezzi dopo due giorni, in Mutazioni, op. cit., pp.307e ss.
7 P.K. Dick, Autoritratto, in Mutazioni, op. cit. , pp.49-50.
8 Ibid., p.107-108.
9 Ibid., pp.179-180.
10 Rappresentare l’uomo attraverso la sua replicazione meccanica è un leit-motiv dickiano sviluppato in diverse opere che in questa sede non sono state esaminate, come The Simulacra (1964) e We can build you (1972), oltre che in numerosi racconti.
11 Norbert Wiener (1894-1964), matematico e filosofo americano. È considerato il fondatore della “cibernetica”. La sua opera più importante s’intitola La cibernetica, ovvero il controllo e la comunicazione nell’animale e nella macchina (1948).
12 P.K. Dick, L’androide e l’umano, in Mutazioni, op. cit. , p.224.
13 Ibid., p.225.
14 Ibid., p.227.
15 E. Carrère, op. cit. , p.144.
16 Alan Turing (1912-1954) è stato un pioniere dell’attuale ricerca sull’intelligenza artificiale. Cfr. G. Rigamonti, Alan Turing, il genio e lo scandalo, Flaccovio, Palermo, 1991.
17 E. Carrère, op. cit. , p.146.
18 P.K. Dick, L’androide e l’umano, in Mutazioni, op. cit., pp.224-225.
19 Cfr. Ibid., p.223.
20 M. Horkheimer- T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, op. cit. , p.11.
21 P.K. Dick, L’androide e l’umano, in Mutazioni, op. cit., p.224.
22 Ibid., p.223.
23 Ibid., p.241.
24 Ibid., pp.231-232.
25 Dick immagina uno strumento collegabile alla corteccia cerebrale, chiamato “organo Penfield”, in grado di programmare l’umore desiderato per il tempo che si vuole; basta digitare il codice corrispondente a ciascun tipo di stato d’animo per essere “depresso”, “apatico” o “professionale nel lavoro”.
26 Ibid., p.230.
27 P.K. Dick, Cacciatore di androidi, op. cit., pp196-198.
28 Ibid., p.67 e ss.
29 Cfr. Vangelo secondo Matteo cap.28, v.20. Per l’immagine del servo sofferente si veda Isaia, cap.50, vv.4-9, cap.52, vv.13-15, cap.53, vv.1-12. Nello spazio biblico la montagna è uno dei luoghi ricorrenti della Teofania. Si veda, ad esempio, Esodo, cap. 19, vv.16-19 (Mosè sul Sinai) e il Primo Libro dei Re, cap. 19, vv.9-13 (Elia sul monte Oreb). Si veda infine il Vangelo di Luca, cap. 9, vv.28-36 (la trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor).
30 P.K. Dick, Cacciatore di androidi, op. cit. , pp.202-204.
31 E. Carrère, op. cit. , p.156.
32 Ibid., pp.157-158.
33 P.K. Dick, Cacciatore di androidi, op. cit. , p.204.
34 J.L. Borges, Storia dell’eternità, Adelphi, Milano, 1997, p.32.
35 P.K. Dick, Uomo, androide e macchina, in Mutazioni, op. cit., p.252.
36A. Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano, 1994, p.11.
37La trilogia di Valis si articola in: Valis (1981), The Divine Invasion (1981), The transmigration of Timothy Archer (1982). In italiano la trilogia è stata pubblicata in un unico volume, dal titolo La trilogia di Valis, Mondadori, Milano, 1993.
38 Le uniche pagine pubblicate in italiano si trovano nella VI parte di P.K. Dick, Mutazioni, op. cit., pp.359-391.