Dick e «La svastica sul sole»
«The Man in the High Castle»: il romanzo e la serie tv
di Ignazio Sanna
- Introduzione
Sono passati quarant’anni dalla morte di Philip Kindred Dick, avvenuta il 2 marzo 1982. E altrettanti dall’uscita del film Blade Runner, ormai divenuto un classico del cinema, tratto dal suo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968). In occasione della ricorrenza analizziamo qui di seguito alcuni degli aspetti principali del romanzo e della serie TV che ne è stata tratta.
The Man in the High Castle (1962) può ormai essere considerato un classico moderno (o più correttamente post-moderno), non soltanto della letteratura fantascientifica distopica ma della letteratura tout court. Non a caso Jason P. Vest rileva dei punti di contatto tra l’opera di Dick e quelle di autori del calibro di Franz Kafka, Jorge Luis Borges e Italo Calvino1. In Italia il romanzo è stato pubblicato per la prima volta (1965) dalla casa editrice La Tribuna, all’epoca specializzata in fantascienza, con il titolo La svastica sul sole, nella traduzione di Romolo Minelli. In seguito ci sono state altre edizioni, compresa quella pubblicata da Fanucci (2001, traduzione di Maurizio Nati) in cui il titolo veniva tradotto letteralmente. In termini generali, vale la pena notare come, nonostante la produzione narrativa da molti considerata eccessiva in termini quantitativi, come spesso accadeva anche ad altri autori di genere per ragioni squisitamente economiche, la formazione culturale di Dick non fosse affatto di qualità scadente. “[…] al liceo Phil aveva studiato tedesco, leggendo in originale Goethe, Schiller e Heine (proseguirà lo studio all’università), e amava la musica di Beethoven, Schubert e Wagner. Tutti riferimenti che puntualmente troviamo nei suoi romanzi. Di Goethe, in particolare, è citata la poesia “Erlkönig” proprio in L’uomo nell’alto castello, mentre del Faust si parla in almeno tre altri romanzi, comprese le lunghe citazioni in tedesco dal primo monologo di Faust nel capitolo 11 di Un oscuro scrutare [A Scanner Darkly, 1977]. Parole e frasi in tedesco compaiono in numerosi altri romanzi. Amore e rispetto per la cultura tedesca, dunque, e condanna per il nazismo”2.
Da questo romanzo è stata tratta una serie TV USA omonima (quattro stagioni da dieci puntate ciascuna), ideata da Frank Spotnitz (già nel team responsabile di X-Files), con la prestigiosa produzione di Ridley Scott, il regista britannico che diresse l’altro grande classico del cinema dickiano, Blade Runner (1982), tratto da Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968). Realizzata da Amazon Prime Video tra il 2015 e il 2019, la serie è stata resa disponibile per la prima volta in Italia su Amazon Prime il 14 dicembre 2016.
- Ucronie nazi
Il romanzo, al quale è stato assegnato il Premio Hugo nel 1963, è tecnicamente un’ucronia. L’autore infatti rovescia l’esito storico della Seconda Guerra Mondiale, descrivendo un mondo governato da quelle che venivano chiamate le forze dell’Asse, alleanza fondata nel 1940 da Germania, Giappone e Italia, ma derivante dall’Asse Roma-Berlino costituito nel 1936. Curiosamente, sia nel libro che nella serie che ne è stata tratta, gli italiani non risultano essere presenti come potenza militare, liquidati così nel primo: “Two-bit empire. Clown for a leader”3. Qualcuno osservò che la storia si presenta come tragedia la prima volta e come pagliacciata la seconda. Evidentemente all’Italia piace soprattutto la seconda, quindi, avendo un debole per i pagliacci, dopo Mussolini abbiamo avuto Berlusconi.
Ci sono alcune opere che hanno qualcosa in comune con The Man in the High Castle. Vediamone brevemente qualcuna. Tra gli antecedenti possiamo citare It Can’t Happen Here (1935) di Sinclair Lewis, in cui un politico populista viene eletto Presidente degli Stati Uniti trasformando ben presto la democrazia USA in un regime totalitario. Il suo nome non è Donald Trump, come verrebbe facile pensare, ma Buzz Windrip. Il riferimento è naturalmente all’ascesa dei regimi nazifascisti tedesco e italiano, già consolidati all’epoca della pubblicazione del romanzo. C’è poi una narrazione che è quasi una preveggenza: Swastika Night (1937) di Katharine Burdekin. “La notte della svastica fu scritto, incredibilmente, nel 1937, cioè prima della Seconda guerra mondiale e prima dell’alleanza bellica tra il Giappone e la Germania. Immagina e prevede l’una e l’altra”4. Tra quelli successivi possiamo citare SS-GB (1978) di Len Deighton, autore britannico noto soprattutto per i suoi romanzi di spionaggio. Da alcuni di questi furono tratti dei film, in particolare Ipcress (1965), con Michael Caine come protagonista. Da SS-GB la BBC ha tratto una miniserie TV omonima (2014) in cinque episodi. Fatherland (1992) di Robert Harris, ambientato nel 1964, descrive uno scenario in cui la guerra è stata vinta dalla Germania nazista. Nel 1994 ne è stato tratto un film con Rutger Hauer (che in questa sede ci interessa ricordare soprattutto come l’interprete del replicante Roy Batty in Blade Runner) e Miranda Richardson.
Un caso a sé è costituito da The Iron Dream (1972) di Norman Spinrad, pubblicato in italiano con il titolo Il signore della svastica, nella traduzione dell’attrice Lella Costa, all’epoca ventiquattrenne. Nell’ironica nota finale di commento al testo5 l’autore ne attribuisce la paternità a un certo Adolf Hitler, emigrato negli USA dalla Germania, e defunto ormai da cinque anni,6 e al tempo stesso sbeffeggia la fantascienza “pulp” degli anni Cinquanta e il culto della personalità alla base del nazismo. Da un lato il romanzo è una parodia del sottogenere fantasy ‘sword and sorcery’, come nota Ursula K. Le Guin, la quale, prima di liquidare lo stile di Spinrad come non molto superiore a quello dell’Hitler alternativo, aggiunge che “the book is not merely satirizing the machismo of certain minor literary genres, but the whole authoritarian bag. It is, like all Spinrad’s serious works, a moral statement”7. Dall’altro il commento di Whipple/Spinrad introduce un’”interpretazione metaforica” incentrata sul “simbolismo fallico”, tra gli estremi di una asessualità di fondo (nessuna donna compare nella narrazione) e una violenza pervasiva tendente alla psicosi, di molti degli elementi che caratterizzano il testo: “Senza dubbio gran parte del fascino che Il signore della svastica esercita sulla gente semplice deriva dalla vistosa simbologia fallica che domina tutto il libro”8. Ma ce n’è anche per il nazismo e il comunismo sovietico: “Durante il periodo che va dalla fine della guerra al trasferimento in America, [Hitler] partecipò alle attività di un piccolo gruppo estremista noto come Partito Nazional-Socialista […] che scomparve intorno al 1923, almeno sette anni prima che il golpe comunista ne facesse un soggetto di interesse puramente accademico. […] L’Impero di Zind presenta delle evidenti analogie con l’attuale Unione Sovietica. Zind rappresenta il logico prodotto finale dell’ideologia comunista: un formicaio di schiavi privi di cervello comandati da un’oligarchia spietata”9.
- Tra nazismo e taoismo
Come tipico del Giappone (quello storico, più che quello immaginato da Dick) dal dopoguerra in avanti, modernità hyper-tech e saggezza millenaria convivono con vantaggi reciproci. È quindi normale, da questo punto di vista, che l’autore possa scegliere di inserire nella narrazione l’I Ching, un oracolo che si esprime attraverso una tecnica divinatoria simbolica. Non è un dettaglio secondario il fatto che lo stesso Dick lo abbia utilizzato nel corso della stesura del romanzo, come afferma egli stesso in un’intervista pubblicata su Vortex nel 197410. Anzi, alla luce del pensiero spesso misticheggiante dello scrittore americano (si pensi a un’opera come Valis e ai suoi legami con lo gnosticismo: “Because so many of Dick’s novels revolve around the philosophical question of “What is real?”, framing a particular novel’s development and resolution of this issue in Platonic or Gnostic categories often becomes tempting”11) è un elemento caratterizzante dello sviluppo del testo, fino al suo esito finale, come vedremo. Da notare che Dick provava grande interesse per l’opera di Carl Gustav Jung, che si era dedicato anche allo studio dell’I Ching. Chiamato anche il Libro dei Mutamenti (Yijing), l’I Ching è uno dei cinque classici (Wu Jing) del Confucianesimo, risalente probabilmente alla Cina del X secolo a.C. (ma secondo alcuni studiosi avrebbe circa cinquemila anni, tesi sposata da Dick nel testo del romanzo). Composto da 64 esagrammi si basa sul principio filosofico della suddivisione dell’esistente nelle due componenti fondamentali, e complementari, denominate yin e yang. La prima volta che lo interroga nel romanzo Frank Frink utilizza il metodo degli steli di millefoglie, alternativo a quello delle monete, che userà la volta successiva.
Anche Nobosuke Tagomi, rappresentante della Trade Mission sulla Costa del Pacifico, si rivolge all’I Ching per meglio comprendere e interpretare ciò che accade nella sua vita. Questo elemento comune, che nella serie TV riguarda il solo Tagomi, suggerisce un parallelo tra le due personalità, molto diverse come ci si può aspettare, ma soprattutto tra le rispettive culture di appartenenza. Se per un giapponese può essere normale, data la profonda influenza della cultura cinese su quella nipponica, da un occidentale di origine ebrea forse ci si sarebbe aspettato piuttosto il ricorso alla kabbalah. Ma i giapponesi governano quella parte di America, perciò anche l’uso dell’I Ching vi è più diffuso di quanto non accadrebbe se così non fosse. “The I Ching (Book of Changes) has been a book of particular significance and interest in East Asian history. The text, one of the most influential and popular Chinese classics, is both a book of wisdom and a book of magic. It is no exaggeration to say that the philosophy and divination of the I Ching became an integral part of Chinese civilization. The two traditions of Chinese learning, Confucianism and yin-yang thought were tremendously influenced by it; they all claimed the text as their own. Traditional Japan was within the orbit of the Chinese cultural sphere, and thus was indebted to the I Ching for the development of aspects of its history. It penetrated into different areas of Japanese life, including politics, the economy, religion, science, the military, arts, and folklore”12.
Dello stesso sfondo culturale fanno parte i richiami, qua e là nel testo, alla Legge del Tao. Verso la fine del libro, nelle riflessioni del capitano Wegener, sembra quasi di percepire un’eco della visione di infiniti mondi che fu propria di quello sfortunatissimo precursore condannato a una fine orribile da un’organizzazione potentissima che in certe epoche storiche non disdegnava di usare metodi non troppo dissimili da quelli dei nazisti. Riflessioni ispirate dal fatto che nel romanzo, ma non nella serie TV, mentre lavorano, per quanto è nelle loro possibilità, a progettare la distruzione di intere popolazioni sul pianeta Terra13, i nazisti stanno iniziando a esplorare i pianeti vicini. E qui è difficile non ricordare il Corrado Guzzanti di Fascisti su Marte (2006) (https://www.youtube.com/watch?v=u3MfamlYhxc).
- Intrighi fanta-politici, tra spionaggio e razzismo
L’Italia compare nel romanzo nelle vesti di un camionista di origine italiana, Joe Cinnadella, proveniente dal Missouri, che Juliana Frink incontra in un hamburger bar. Anche lui possiede una copia di The Grasshopper Lies Heavy, il romanzo sovversivo di Hawthorne Abendsen (v. par. 5), e in quanto veterano della guerra si sente particolarmente offeso dalla trama del libro, secondo il quale gli alleati vincono perché l’Italia tradisce le potenze dell’Asse, passando al nemico. Pur non apprezzando i nazisti, si sente pienamente fascista, e nel discutere del libro con Juliana espone quelli che secondo lui sono i limiti e i difetti di inglesi e americani, esponenti di forme di imperialismo il cui unico obiettivo è l’ulteriore arricchimento delle forze economiche che li sostengono. Ma più avanti nel romanzo le cose si presenteranno sotto una luce diversa. Il suo ruolo, con caratteristiche diverse, nella serie sarà svolto da un altro personaggio, Joe Blake, interpretato da Luke Kleintank.
I personaggi si presentano nel romanzo con dei monologhi interiori che ci danno degli indizi sulla loro personalità, sul loro modo di essere e di pensare. E in questo modo ci descrivono anche il mondo nazista e quello dell’impero giapponese, in competizione tra loro dopo la fine della guerra. Altri dettagli sui principali gerarchi nazisti vengono forniti nel corso di una riunione ufficiale di notabili giapponesi, tra cui Tagomi, che ha luogo all’ambasciata giapponese presso gli Stati Americani del Pacifico in seguito alla notizia della morte di Martin Bormann, in quel momento (1962) Cancelliere del Reich. Proprio Tagomi si trova coinvolto in una operazione segreta, condotta da un nazista dissidente, il capitano Wegener, che si presenta come un uomo d’affari svedese di nome Baynes. In deroga ai suoi principi lo difenderà dal controspionaggio nazista con le armi, allo scopo di evitare un attacco nucleare da parte dei nazisti che avrebbe portato morte e distruzione su larga scala in Giappone.
Sia Juliana che Frank Frink sono personaggi irrequieti, che si interrogano con ansia sul proprio destino e su quello dell’umanità, o per lo meno sul ruolo delle forze inquietanti che gestiscono la porzione di mondo che loro abitano, l’America del Nord. E l’I Ching, nella sua funzione oracolare, dà diversi spunti di riflessione a Frank Frink su questi temi. D’altro canto, come nota Franklin Perkins proprio a proposito dell’utilizzo dell’I Ching da parte di Frink, gli esseri umani cercano di avere il controllo sulla propria vita, ma sembrano essere governati da forze che restano al di là delle loro possibilità di controllo: “We constantly shape and are shaped by circumstances beyond our comprehension. […] Human beings occupy an absurd position, compelled to act without knowing why things happen or where our own choices will lead14”.
Il pregiudizio razziale è una costante nel testo, non solo come prevedibile da parte dei nazisti e degli occupanti giapponesi, ma anche nella maggior parte delle persone. Robert Childan ne è un esempio eclatante. Invitato a pranzo dai coniugi Betty e Paul Kasoura, coppia nippo-americana dalla collocazione sociale superiore alla sua, la conversazione con loro gli ispira considerazioni inequivocabili sui suoi ospiti. Messo a disagio dalla loro evidente apertura mentale, in contrasto con la sua adesione acritica alla visione della politica e della cultura diffusa dalla propaganda ufficiale, Childan non trova di meglio che pensare di loro che si trovino a un livello inferiore rispetto agli uomini occidentali, agli uomini come lui, fino a definirli nella sua mente nient’altro che scimmie che li imitano, sia pure alla perfezione. Per il lettore di oggi, ancor più che per i contemporanei del romanzo di Dick, l’ignoranza di Childan rispetto al jazz e al romanzo di Nathanael West Miss Lonelyhearts (1933), sul quale Paul gli chiede un’opinione, sostenendo di trovare difficile comprendere del tutto il pensiero dell’autore (ebreo, come fanno notare a Childan), fa risaltare la pochezza umana e culturale di questo commerciante bianco. Come accade di frequente ancora oggi, meno si sa e meno si capisce delle culture diverse dalla nostra, più ci si espone al rischio di alimentare e fare propri l’indifferenza e perfino l’odio verso le persone che a quelle culture appartengono, finendo magari con l’essere sfruttati da partiti politici che su tale ignoranza e incomprensione prosperano elettoralmente. Per sottolineare l’atmosfera razzista in quei luoghi e in quell’epoca, Dick fa usare anche al narratore termini dal sapore razzista quali chink, riferito ai cinesi, o pinoc, riferito al governo fantoccio degli Stati Americani del Pacifico, bianchi collaborazionisti, sotto l’occupazione giapponese. E ce n’è anche per gli italiani, chiamati wop, termine inteso come l’opposto di WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant). L’informazione ci viene direttamente da Cinnadella, che applica il termine a sè stesso.
- Vero, falso, verosimile
Tra i temi fondamentali in tutta l’opera di Dick il principale è l’incapacità dell’uomo di distinguere ciò che è reale da ciò che è reale soltanto in apparenza, ciò che costituisce una realtà ontologica genuina da ciò che, per quanto sofisticata, non è che una realtà simulata. “He dedicated some 40 novels and hundreds of short stories to the proposition that we cannot trust what we see, know who we are, or even know if our everyday world truly exists. This point of view seemed border-line lunacy when Phil published his first work over 60 years ago, plumb in the middle of Cold War, McCarthy-Era America. But in the 21st Century, it seems like pretty deep wisdom. Which is why post-modern European philosophers, like Jean Baudrillard and Slavoj Zizek, have appreciated Dick as not just a fine novelist but as a major thinker and grappler with the key issues of post-modernism”15.
Dick pare declinare in chiave fantascientifica, lungo tutta la sua opera, un concetto che ha radici più lontane nel tempo, addirittura nello gnosticismo. Abbiamo già accennato all’influenza che questa dottrina ha avuto nel pensiero dickiano. “L’intera opera di Dick, perlomeno da Tempo fuor di sesto [Time Out of Joint] del 1959 fino alla trilogia di Valis terminata nel 1982, è percorsa da una “diffidenza” nei confronti della realtà. La matrice di questa visione del mondo, come renderà esplicito lo stesso scrittore americano nella sua Esegesi, è l’antica teologia gnostica: ovvero un corpus di dottrine apocalittiche coeve del cristianesimo primitivo e fortemente influenzate dal platonismo. Secondo gli gnostici il mondo materiale non è altro che un’illusione forgiata da una divinità malvagia, detta il Demiurgo, che nasconde il mondo reale. Una vera e propria prigione dalla quale è possibile fuggire soltanto per mezzo d’uno sforzo intellettuale e spirituale: la gnosi. […] Lo gnosticismo aveva vissuto un vero e proprio revival a cavallo tra Otto e Novecento, testimoniato ad esempio dall’interesse di Carl Gustav Jung (importante influenza di Dick) e riacceso nel 1945 con il ritrovamento dei Codici di Nag Hammadi in Egitto: lettere, trattati, vangeli apocrifi e apocalissi come se piovesse”16.
Un aspetto di questa problematica è di natura più tecnologica, e concerne il rapporto tra vero e falso nel senso del confronto tra ciò che è autentico e ciò che è stato costruito artificialmente per essere il più possibile indistinguibile da ciò che è autentico. Il tema viene indagato per esempio in Do Androids Dream of Electric Sheep?, nel quale degli androidi, definiti replicanti, sono stati costruiti, o potremmo perfino dire creati, per essere uguali, o il più possibile simili, agli esseri umani, come denuncia il loro stesso nome.
In The Man in the High Castle la questione si presenta in maniera esplicita all’interno della narrazione nel momento in cui Robert Childan, il titolare del negozio di antiquariato American Artistic Handcrafts Inc., scopre che una Colt 44 dell’epoca della Guerra Civile tra Nordisti e Sudisti non è un manufatto originale dell’epoca ma il risultato di un’abile falsificazione. Pertanto, pur a sua insaputa, contribuisce all’inganno della falsificazione storica nel proprio campo d’azione. “Il popolo americano oppresso, a sua volta, inganna i suoi dominatori [in questo caso i giapponesi] attraverso abili falsificazioni di oggetti del passato, venduti come rari oggetti di antiquariato: ciò di cui gli uni e gli altri non si rendono conto, però, è che la stessa storia è “falsa” come gli oggetti che dovrebbero testimoniarne gli eventi più importanti (ad esempio l’accendino che portava F.D. Roosevelt quando fu assassinato)”17. In senso più generale questa tematica è alla base della concezione stessa del romanzo, il cui quadro storico viene modificato dall’autore con una transizione dal reale al verosimile, il rovesciamento dell’esito della guerra. Ma in questo quadro storico alternativo Dick inserisce un romanzo, scritto da Hawthorne Abendsen (che nella serie Tv sarà il principale leader della resistenza alle forze di occupazione), proibito dalla censura (dove dominano i nazisti, ma non nella parte occupata dai giapponesi né negli Stati Neutrali, dove a Denver, Colorado, Juliana può comprarlo facilmente), intitolato The Grasshopper Lies Heavy (il titolo è una citazione tratta dalla Bibbia, dal libro dell’Ecclesiaste). Trovata geniale, e post-moderna nel senso migliore del termine, è il fatto che in questo romanzo nel romanzo avvenga un altro rovesciamento: vi si narra che la guerra è stata vinta dagli anglo-americani, invertendo così di nuovo il rapporto tra reale e verosimile. Più in dettaglio, che Roosevelt non fu assassinato ma restò Presidente degli USA fino al 1940, e il suo operato fu portato a termine dal nuovo Presidente Rexford Tugwell, che condusse alla vittoria gli alleati, al posto di presidenti disastrosi quali Garner e Bricker, corresponsabili della sconfitta. Ma questa realtà non è sovrapponibile a quella storica che noi tutti conosciamo. “[…] la realtà alternativa descritta dal testo secondario non coincide con quella che il lettore del testo primario vive (un ipotetico testo zero): infatti nel romanzo dello scrittore Abendsen (The Grasshopper) Roosevelt non viene rieletto nel ’40 e, ancora di più, il dopoguerra vittorioso è una specie di paradiso neocapitalista”18. Potremmo commentare che, ancora una volta, Dick ha visto lontano nel futuro, visto che il trionfo del capitalismo è un fatto assodato perfino in un sistema totalitario come quello della Cina di oggi. Da sottolineare soltanto che non si tratta affatto di un paradiso. “Sono stati debellati i conflitti razziali in America, è vero, ma anche i Paesi comunisti in pratica non esistono più: l’Europa è governata da un Impero Britannico non molto dissimile da quello giapponese di The Man in the High Castle, mentre l’America ha portato pace e benessere in tutto il resto del mondo, naturalmente secondo i principi del paternalismo neocolonialista caro all’ideologia del progresso tecnologico”19.
- Dal romanzo alla serie
Può essere di un certo interesse ricordare come Dick abbia riflettuto sulla televisione e sul suo possibile utilizzo per il condizionamento della popolazione: “Dick’s fear that TV was a vector of conformism and homogenization finds a more straightforward expression in his science-fiction narratives, such as his 1955 short story “The Mold of Yancy”. This evidently bears relation to Orwell’s Nineteen Eighty-Four (published just six years before) with its implacable telescreens […]. [A]ccording to media theorist Gabriele Frasca, totalitarianism and the electronic media go hand in hand”20.
A questo proposito è difficile non vedere il legame tra le dittature storiche del Novecento (nazismo, fascismo, socialismo reale sovietico e cinese) e il monopolio dell’informazione, volta a tacitare ogni tipo di dissidenza. Quello stesso tipo di monopolio, oggi forse per certi versi meno evidente ma ancora molto forte, che ha permesso a un oscuro imprenditore edile lombardo in odore di mafia di indottrinare la popolazione italiana per oltre trent’anni con un pensiero unico propagandistico, creando un impero prima mediatico (ed economico) e poi mediatico-politico che ancora ostacola lo sviluppo democratico dell’Italia. Si pensi per esempio al cosiddetto ‘editto bulgaro’, quando costui pretese, ed ottenne, che dalla Tv di Stato fosse cacciato, insieme ad altri, un giornalista del calibro di Enzo Biagi, proprio per non aver mai accettato di fare da cassa di risonanza alla propaganda di quel ‘Don Rodrigo’ che non ha mai tollerato il matrimonio tra informazione e libertà d’opinione. In The Man in the High Castle la televisione non è tra i protagonisti, pur essendo presente, ma sarebbe stato davvero molto interessante conoscere l’opinione di Dick sulla serie Tv tratta dal suo romanzo.
Nonostante il pregiudizio di chi ancora oggi ritenesse che un autore di science fiction appartenga per ciò stesso necessariamente a un ambito letterario minore, Dick ha più volte dimostrato di essere un grande scrittore. Probabilmente non in termini di qualità di scrittura, di eleganza stilistica, ma certamente per quanto riguarda la sua visionarietà, la capacità di far arrivare lontano il suo sguardo, tanto lontano da parlarci oggi come se fosse un nostro contemporaneo, nonostante sia morto nel 1982, a soli 54 anni. The Man in the High Castle è giustamente considerata una delle sue opere di narrativa più riuscite. Eppure lo sviluppo della trama ha degli ampi margini di miglioramento, come dimostra la serie Tv che ne è stata tratta, che ha potuto andare più in profondità, grazie anche alla caratteristica di potersi dispiegare in maniera molto più ampia, con i suoi 40 episodi dalla durata compresa tra i 48 e i 70 minuti. In questo caso la traduzione intersemiotica, secondo la terminologia introdotta da Roman Jakobson, permette di accentuare la spettacolarità e il coinvolgimento emotivo del fruitore della versione televisiva, prodotta secondo una modalità intrinsecamente cinematografica. Infatti, come già ricordato, nella produzione è coinvolto un personaggio del calibro di Ridley Scott. Ma oltre a questo la serie sottolinea implicitamente lo stato, per quanto ai nostri occhi storicamente determinato, della competizione tra i vari media: “the filmic replacement serves as a node in the network of discourses of media competition among telephone, film, television and ultimately the digital platform itself”21.
Interessanti le considerazioni di Massimo Gusso sulla bellissima sigla iniziale degli episodi della serie, la cover di Edelweiss cantata da Jeanette Olsson, il cui originale compare nel film di Robert Wise The Sound of Music (Tutti insieme appassionatamente, 1965), che “nel suo sonoro quasi sussurrante, sembra spingere gli americani, versando su di loro un balsamo sottile, e apparentemente stordente, a rimanere in realtà ben svegli, in attesa della riscossa. Che tale riscossa, prima individuale, poi collettiva, possa venire anche da un mondo parallelo lo scopriranno gli spettatori della serie”22.
Il romanzo contiene elementi thriller, di spionaggio, che nella serie vengono sviluppati con grande abilità (anche sulla base di appunti lasciati da Dick per un possibile sequel a cui pensava nel 1974), grazie anche a una regia efficace (David Semel nel primo episodio, poi altri, per un totale di 26 registi per 40 episodi) e a un gruppo di attori di grande bravura. Forse il migliore fra questi è Rufus Sewell (già Fortebraccio nell’Hamlet (1996) di Kenneth Branagh), che interpreta l’Obergruppenführer John Smith (nome che è l’equivalente dell’italiano Mario Rossi; chissà, forse un riferimento all’uomo comune, l’Everyman (ognuno) del morality play inglese di fine Quattrocento). Questo personaggio non è presente nel libro, ma ha un ruolo fondamentale nella serie. Il personaggio di Juliana, interpretato da un’ottima Alexa Davalos (nata proprio nell’anno della morte di Dick), rivela uno spessore psicologico decisamente superiore a quello che ha nel romanzo e un ruolo ben più importante per la dinamica degli eventi. Nella sua Introduzione al romanzo Pagetti si riferisce a lei e Tagomi come “i personaggi più deboli e miti”23. Se nel romanzo il personaggio di Juliana appare effettivamente poco più che abbozzato, quasi uno stereotipo, nella serie risulta essere invece un personaggio cardine, né debole né mite. Per quanto riguarda Tagomi forse questo giudizio è ingeneroso, ma è innegabile che nella serie anche questo personaggio risulta avere maggiore profondità e una personalità meglio strutturata. Sempre Pagetti nota che “[n]on solo gli USA sono stati vinti militarmente, ma anche colonizzati culturalmente. […] Perciò essi appaiono come un popolo disfatto e privo di qualsiasi volontà di rivincita. È significativo che Dick non accenni ad alcun movimento partigiano”24. Invece nella serie una Resistenza c’è, e Juliana Crain verrà coinvolta nelle sue attività. Queste, così come gli intrighi interni al Terzo Reich, con la morte di Hitler, e tutti gli sviluppi nei rapporti tra i personaggi principali, sempre legati alle vicende storiche in cui si trovano a vivere, vengono rappresentati sempre con grande abilità, riuscendo a coinvolgere lo spettatore come nella migliore tradizione dei classici del genere. Uno dei momenti più visivamente intensi della serie è per esempio quello nel quale John Smith viene elogiato da Himmler a Berlino davanti a una vasta platea di nazisti, mentre i suoi familiari seguono l’avvenimento in televisione (https://www.youtube.com/watch?v=ozYxOZ3Uhgs).
Di grande interesse è poi il confronto-scontro tra le diverse visioni del mondo, culturali e politiche che caratterizzano giapponesi e tedeschi. Alcuni critici hanno considerato un errore da parte di Dick l’avere considerato i primi meno invasati e pericolosi dei secondi: “[Secondo] Darko Suvin in «P.K. Dick’s Opus» (Science Fiction Studies, marzo 1975), […] «L’assunzione che un fascismo giapponese vittorioso sarebbe radicalmente migliore di quello tedesco è il maggiore errore politico del romanzo di Dick»”25. Naturalmente manca la controprova, ma l’impressione è che, ancora una volta, la visione di Dick arrivi più lontano di quella dei suoi contemporanei. Vale a dire che la matrice spirituale della cultura giapponese la differenzia da quella più materialistica degli occidentali, tedeschi compresi. Il punto quindi non sembra essere tanto stilare una classifica di perniciosità tra versioni diverse di fanatismi di matrice fascista, quanto prendere atto del fatto che il nodo centrale è piuttosto l’imperialismo, con i suoi progetti di espansione territoriale e conseguente dominio sulle popolazioni conquistate, che è certamente più estremo se posto in essere da totalitarismi come questi (ma anche stalinismo e maoismo sono di natura simile) ma non certo assente dalla storia di potenze coloniali occidentali quali quella inglese e quella nord-americana, che pure si richiamano a principi democratici. Nella serie TV Nobusuke Tagomi (interpretato da un eccellente Cary-Hiroyuki Tagawa) è il ministro del commercio giapponese (nel romanzo è semplicemente responsabile di una delle missioni commerciali presso il governo collaborazionista bianco degli Stati del Pacifico controllato dai giapponesi), il cui ufficio si trova a San Francisco. Il suo comportamento riflette un tormento interiore, un’intima lotta tra la lealtà alla patria e al suo ruolo e la voce della sua coscienza, che lo spinge a rifuggire la violenza e la prevaricazione. Il personaggio di Tagomi viene “lodato da Ursula K. Le Guin come prima figura della letteratura fantascientifica che potesse tener testa al Leopold Bloom di Joyce o alla signora Dalloway della Woolf.26”. A un certo punto della narrazione Tagomi riceve da Childan un pezzo d’arte contemporanea, un gioiello d’argento creato da Frink. La sua forma triangolare rimanda da un lato alla valenza esoterica del numero tre (san in giapponese): “il numero del cielo, della Terra, e dell’umanità”27 (tre elementi la cui combinazione nel contesto di The Man in the High Castle potrebbe dar luogo a più di una interpretazione), un legame con forme di spiritualità orientale già richiamato dalla presenza dell’I-ching nel romanzo. Dall’altro “i suoi tre lati sono sia i tre mondi del romanzo (Germania, America, Giappone), sia i tre mondi in assoluto di cui si parla (quello di High Castle, quello di chi legge, quello del romanzo di Abendsen […]. In tutte e due le triadi, il problema è che nessuna di esse è così esplicitamente presentabile come situazione ideale, come momento di illuminazione e di pace […]”28.
Splendida la scena nella serie TV in cui Tagomi, meditando sul gioiello datogli da Childan, trascende la realtà del tempo in cui vive e riapre gli occhi ritrovandosi nella San Francisco dei primissimi anni Sessanta, quella della nostra realtà, trovandosi davanti dei muri sui quali campeggiano alcuni manifesti pubblicitari. Tra questi, il primo sulla destra raffigura la cantante soul Mary Wells (con il suo hit “The One Who Really Loves You”: https://www.youtube.com/watch?v=IVr1bWPJ5nI), mentre sul primo sulla sinistra campeggia l’immagine di un futuro protagonista di una realtà alternativa di tipo diverso, l’attore Ronald Reagan.
“Il nazismo è solo una delle forme più estreme in cui si esprime il dualismo occidentale che oppone spirito e materia, mente e corpo, astratto e concreto, società e individuo. In L’uomo nell’alto castello, come ha osservato Patricia Warrick, Dick mette a confronto nazismo e taoismo, e nel personaggio del giapponese Tagomi, sapientemente chiaroscurato, rappresenta lo scontro e l’incompatibilità tra una visione del mondo che divide e violenta, e una che aspira invece all’equilibrio e alla conciliazione, pur senza escludere la differenza (Warrick 1980)”29.
Proprio il confronto tra Tagomi e John Smith, che pure vive un conflitto tutto sommato non troppo dissimile per certi versi, pur restando sostanzialmente un villain, sembra giustificare a posteriori la cautela nel giudizio di Dick sui giapponesi, così duramente criticata da Suvin. A Tagomi fa da contraltare l’ispettore Kido (interpretato da un altrettanto bravo Joel de la Fuente), capo della Kempeitai (la polizia militare dell’esercito imperiale giapponese) di San Francisco, uomo ciecamente devoto alla causa, ma anche lacerato dal rapporto problematico con suo figlio. Kido appare freddo, senza scrupoli, mentre Tagomi è mosso da sentimenti empatici, e si sforza di impedire, per quanto nelle sue possibilità, un conflitto nucleare tra tedeschi e giapponesi, cercando di appoggiare l’operato del capitano Wegener (alias Baynes). D’altro canto alcuni film ci hanno ricordato come durante la guerra i militari giapponesi non fossero secondi a nessuno in quanto a violenza. Tra questi: Furyo (noto anche come Merry Christmas, Mr. Lawrence) (1983) di Nagisa Oshima, con un cast insolito ma straordinario: David Bowie, Ryuichi Sakamoto, Takeshi Kitano e Tom Conti; e Unbroken (2014), diretto da Angelina Jolie e sceneggiato da Joel ed Ethan Coen, con Jack O’Connell nel ruolo del protagonista, l’italo-americano Louis Zamperini.
- Chi ha vinto la guerra?
Nella serie, a differenza del libro, The Grasshopper Lies Heavy è un film, diffuso in pellicole dalla distribuzione clandestina. Potremmo dire che gli autori della serie applicano la traduzione intersemiotica con coerenza anche alla narrazione alternativa. Scelta vincente, dato che le immagini sono l’asse portante della narrazione tratta dal romanzo di Dick. Così come un’idea ancora migliore è l’invenzione degli scienziati nazisti che permette di passare dal mondo ‘reale’ a quello alternativo, un vero e proprio mondo parallelo (Die Nebenwelt30), dal quale sono tratte le immagini filmate che costituiscono The Grasshopper Lies Heavy. Di grande impatto l’esperienza che il John Smith nazista compie nell’altra realtà, quella in cui lui e la sua famiglia sono i tipici americani dei primi anni Sessanta, di cui noi spettatori abbiamo fatto esperienza, direttamente o indirettamente, nella nostra realtà. Anche qui si crea un notevole coinvolgimento emotivo, dovuto soprattutto alla grande interpretazione di Rufus Sewell (davvero interessante l’intervista che l’attore rilascia allo scrittore Paul Levinson sulla sua esperienza all’interno della serie: https://www.youtube.com/watch?v=6TyvEqvfhjg&t=8s). Non priva di implicazioni è la circostanza che Tagomi e Smith riescono entrambi a raggiungere il mondo parallelo, ma il primo vi accede in modo ‘spirituale’, attraverso la meditazione, il secondo in modo scientifico, attraverso la tecnologia (https://www.youtube.com/watch?v=V3Iii4J4NW4). E dunque l’irrazionale, nella forma del risveglio di poteri insiti, e nascosti, nella psiche, o se si vuole nell’anima, e il razionale, nella forma della tecnologia scientifica, possono raggiungere gli stessi risultati. La dicotomia razionale/irrazionale, alla radice stessa dell’esistenza umana, in questo caso sembra raggiungere un pareggio, onorevole per entrambi i contendenti.
Il romanzo ha un finale tutto sommato aperto, nonostante la rivelazione finale, tramite l’I Ching, che la Germania e il Giappone hanno perduto la guerra, mentre la serie porta avanti tutti i fili che compongono l’intreccio fino a un esito per lo più definitivo e, almeno apparentemente, più realistico. Discostandosi dalla rivelazione finale di Dick, che non è contemplata, la serie ha una conclusione molto più definita che, tenendo vivo il rapporto con le filosofie orientali, Linda Maleh definisce condivisibilmente in termini di karma: “The themes of redemption and karma course through this final season, and become the final message of the show”31.
Il Giappone occupa la maggior parte della costa occidentale degli USA (Japanese Pacific States), i nazisti quella orientale più buona parte di ciò che resta (Greater Nazi Reich), con un piccolo stato cuscinetto indipendente nel mezzo (Neutral Zone). Mentre in Germania si accende una lotta tra le fazioni per la successione a Hitler, che coinvolge indirettamente anche l’America nazista, nei territori di quest’ultima si è costituita una Resistenza che opera in clandestinità, organizzando attentati. Il film The Grasshopper Lies Heavy mostra una realtà alternativa, in cui la guerra è stata vinta dagli angloamericani; quindi le forze di occupazione cercano di intercettare le copie della pellicola diffuse clandestinamente, perché sarebbe un’arma pericolosissima nelle mani degli oppositori, che potrebbe portare la popolazione alla rivolta. L’autore è Hawthorne Abendsen, l’uomo nell’alto castello, interpretato da Stephen Root, che ha lavorato con autori del calibro di Clint Eastwood, i fratelli Coen, George Clooney, e lo stesso Ridley Scott (nel 2014 Root ha partecipato perfino a due episodi di The Big Bang Theory). In realtà, come abbiamo già visto, la situazione geopolitica descritta in The Grasshopper Lies Heavy non è identica a quella che noi lettori del romanzo di Dick conosciamo come storica. In essa ogni forma di comunismo è stata eliminata, e il mondo è diviso tra i territori dell’impero USA e quelli dell’impero britannico. Ecco dunque che lo scarto tra vero e verosimile torna in evidenza, al centro del senso più autentico (qui il gioco di parole è quasi doveroso) del messaggio portato dalla vicenda narrata.
“Chi ha vinto la guerra32? Nel testo zero [la realtà in cui vive il lettore] e nel testo secondario [The Grasshopper Lies Heavy], apparentemente, gli Alleati. Nel testo primario [The Man in the High Castle], apparentemente, l’Asse. Il testo secondario serve a rivelare la “verità” a Juliana Frink, come il testo primario serve a rivelare la “verità” al lettore appartenente al testo zero. Forse l’Asse ha vinto nel testo zero, nel senso che certi suoi “valori” (razzismo, violenza, ipertrofia tecnologica) sono stati acquisiti dai vincitori. Dick sta suggerendo ai suoi lettori che l’America dell’inizio degli anni ’60 è un Paese fascista? Forse, anche se i significati del romanzo non possono esaurirsi qui. Certamente, anche per Dick, come per gran parte dell’arte contemporanea, la storia è un labirinto pieno di trappole e illusioni”33.
Con oltre quarant’anni di vantaggio sul futuro rispetto alle considerazioni di Pagetti, possiamo leggere il “forse” contenuto nell’ultima citazione quasi come un sì. Se all’epoca il massimo del ‘fascismo’ governativo USA era rappresentato da Richard Nixon, oggi, con l’abbozzo di golpe tentato da Donald Trump all’inizio del 2021, la vicinanza oggettiva alle politiche fascistoidi diffuse nel mondo (si pensi per esempio al flirt dello stesso Trump con Putin, l’ex-ufficiale del KGB che sembra voler restaurare un impero neo-stalinista34) si è fatta molto meno sfumata. Ancora una volta la visione di Dick arriva molto lontano, per quanto la cosa possa lasciarci quasi sgomenti. Se quindi le circostanze rocambolesche della sua vita l’hanno confinato nel ghetto della fantascienza, non permettendogli di sviluppare le sue qualità letterarie in maniera adeguata alla sua capacità di insight, le sue intuizioni hanno permesso tuttavia ai potenti mezzi del cinema contemporaneo di realizzare quell’ottimo affresco narrativo che è la serie TV che prende il nome dal suo romanzo. È pur vero che essa ha dei limiti precisi in termini di accuratezza e credibilità, per esempio per quanto riguarda alcuni aspetti, anche linguistici, della cultura giapponese, cedendo al facile stereotipo culturale, rivelando un punto di vista decisamente WASP, come nota Lin King35. Ma ciò non toglie che questa serie sia estremamente godibile ed emotivamente coinvolgente, soprattutto in termini di qualità delle immagini: [essa] lavora molto sulla spettacolarizzazione dell’architettura nazista, sia con immagini a volo d’uccello sulla Berlino più monumentale, sia su una inedita New York, piena di bandiere e aquile naziste, di svastiche sui grattacieli e di parole d’ordine sparate su grandi insegne al neon. In un certo senso gli sceneggiatori hanno in qualche modo preso ad esempio la lettura di Elias Canetti, di Hitler nach Speer, cioe di Hitler secondo Speer”36.
Per concludere, ecco un bel riassunto delle prime due stagioni, narrato da Abendsen/Root: https://www.youtube.com/watch?v=61souSkwDk4
NOTE
1 J. P. Vest, The Postmodern Humanism of Philip K. Dick, Lanham (MD, USA), Scarecrow Press, 2009
2 Antonio Caronia, Domenico Gallo, Philip K. Dick. La macchina della paranoia. Enciclopedia dickiana, Milano, Agenzia X, 2006, p. 183.
3 “Impero da due soldi, con un pagliaccio per leader”. Philip K. Dick, The Man in the High Castle, London, Penguin, 2012 (1° ed. inglese1965)
4 Nota di Domenico Gallo (https://sellerio.it/it/catalogo/Notte-Svastica/Burdekin/12277)
5 “Di maggior rilievo è la popolarità di questo libro e l’adozione del simbolo della svastica e dei suoi colori in esso creati da parte di organizzazioni e gruppi completamente diversi tra loro, come la Legione Cristiana Anticomunista, varie “bande di motociclisti fuorilegge” e i Cavalieri di Bushido in America.” Homer Whipple [in realtà Norman Spinrad], “Nota alla seconda edizione”, Norman Spinrad , Il signore della svastica. Romanzo di Adolf Hitler, Milano, Longanesi, 1976, p. 236
6 “[…] fu scritto nel 1953, poco prima della morte di Hitler, nell’arco di sei settimane […] in una specie di frenesia.” Ibid.
7 “Il libro non è soltanto una satira del machismo di certi generi letterari minori, ma di tutto il pacchetto autoritario. Come tutte le opera serie di Spinrad, è una dichiarazione morale.” Ursula K. Le Guin, “On Norman Spinrad’s The Iron Dream”, Science Fiction Studies 1(1) (part 1), 1973
8 Homer Whipple, cit., p. 238.
9 Ivi, p. 243.
10 http://www.philipkdickfans.com/literarycriticism/frank-views-archive/vertex-interview-with-philip-k-dick/
11 “Dato che molti dei suoi romanzi ruotano attorno all’interrogativo filosofico “Cosa è reale?”, Dick spesso cede alla tentazione di inquadrare lo sviluppo e la risoluzione della questione in un determinato romanzo in categorie platoniche o gnostiche”. Lorenzo Di Tommaso, “Redemption in Philip K. Dick’s The Man in the High Castle”, Science Fiction Studies 77(26), 1999
12 L’I Ching (Libro dei Mutamenti), è stato un libro particolarmente significativo per la storia dell’Asia orientale. Il testo, uno dei principali, e dei più popolari, tra I classici cinesi, è un libro sia di saggezza che di magia. Non è esagerato affermare che la filosofia e la divinazione dell’I Ching siano divenute parte integrante della civiltà cinese. Le due principali tradizioni del pensiero cinese, il Confucianesimo e lo yin e yang, ne sono stati influenzati enormemente, ed entrambi lo reclamano come proprio. Essendo stato nell’orbita della sfera di influenza culturale cinese, il Giappone tradizionale deve molto all’I Ching rispetto allo sviluppo di alcuni aspetti della sua storia. È entrato in diverse aree della vita giapponese, nella politica, nell’economia, nella religione, nella scienza, in campo militare, nell’arte, nel folklore.” Wai-Ming NG, “The History of ‘I Ching’ in Medieval Japan.” Journal of Asian History, 31(1), p. 25, 1997.
13 “I nazisti hanno quasi completamente distrutto e ricostruito il mondo a loro immagine e somiglianza: una Soluzione Finale in Africa, il Mediterraneo prosciugato, le popolazioni slave cacciate dall’Europa e respinte in Asia.” Salvatore Proietti, “The Man in the High Castle”: politica e metaromanzo, in Carlo Pagetti, Gianfranco Viviani (a cura di), Philip K. Dick: il sogno dei simulacri. Una completa rassegna di contributi critici sull’opera letteraria dello scrittore americano, Milano, Nord, 1989, p. 35.
14 “Diamo continuamente forma, e ne siamo a nostra volta modellati, a circostanze al di là della nostra comprensione. […] Gli esseri umani occupano una posizione assurda, costretti ad agire senza sapere perché le cose accadano o dove le nostre scelte ci condurranno.” Franklin Perkins, “Living in a Complex World: The Classic of Changes in The Man in the High Castle [bozza], 2017 (Fonte: Academia.edu)
15 “[Dick] ha dedicato circa 40 romanzi e centinaia di racconti all’idea che non possiamo credere a ciò che vediamo, nè sapere chi siamo, e perfino se il nostro mondo di tutti I giorni esista veramente. Questo punto di vista sembrava al confine con la follia quando Phil pubblicò il suo primo lavoro, oltre 60 anni fa, nel bel mezzo dell’America della Guerra Fredda e del maccartismo. Ma nel ventunesimo secolo sembra piuttosto una visione di profonda saggezza. La qual cosa è il motivo per cui dei filosofi europei post-moderni quali Jean Baudrillard e Slavoj Zizek hanno espresso apprezzamento per Dick non soltanto in quanto romanziere di vaglia, ma in quanto pensatore di rilievo rispetto alle questioni chiave del post-modernismo. “Marc Haefele reports from SF’s “Philip K. Dickfest” on the sci-fi author’s mental maelstroms”
(https://archive.kpcc.org/blogs/offramp/2012/10/18/10544/marc-haefele-reports-sfs-philip-k-dickfest/)
16 Raffaele Alberto Ventura, autore del libro La guerra di tutti. Populismo, terrore e crisi della società liberale (2019), in un articolo pubblicato sulla rivista Sentieri Selvaggi (n. 5 dicembre 2019-febbraio 2020), (https://marioxmancini.medium.com/gnosticismo-politico-in-philip-k-dick-5fccc2ceea3b)
17 Carlo Pagetti, “Introduzione”, in Philip K. Dick, La svastica sul sole, Milano, Nord, 1983 (1° ed. 1977), p. xv
18 Ivi, p. vii
19 Ibid.
20 “Il timore di Dick che la Tv potesse essere un vettore di conformismo e omogeneizzazione trova la sua espressione più diretta nella sua narrativa fantascientifica, come nel racconto del 1955 “The Mold of Yancy”. Il quale ha un nesso evidente con 1984 (pubblicato appena sei anni prima) di Orwell, con I suoi teleschermi implacabili […]. Secondo l’esperto di mass media Gabriele Frasca, il totalitarismo e I media elettronici sono compagni inseparabili.” Umberto Rossi, “From Soft Totalitarianism to TV Introjection. Philip Kindred Dick and the Tube”, in David Sandner (a cura di), Philip K. Dick. Essays of the Here and Now, Jefferson (NC, USA), McFarland, 2020, p. 33
21 “Il surrogato filmico funge da nodo nella rete delle dissertazioni sulla competizione tra media quali telefono, film, televisione e in definitiva la piattaforma digitale stessa.” Chang-Min Yu, “The Digital Dreams Its Rivals: The Man in the High Castle (Amazon, 2015)”, Film Criticism, 40(3), 2016
22 Massimo Gusso, A proposito di “mondi paralleli”, in Fogli. Transeunte n.1, 2021, pp. 35-36
23 Pagetti, cit., p. ix
24 Ivi, p. x
25 Ivi, p. viii
26 Umberto Rossi e Claudio Asciuti, in Caronia-Gallo, op. cit., p. 286
28 Proietti, cit., p. 38
29 Caronia-Gallo, op. cit., p. 185
30 https://the-man-in-the-high-castle.fandom.com/wiki/Die_Nebenwelt
31 “I temi della redenzione e del karma pervadono la stagione conclusiva della serie, diventandone il messaggio finale.” https://www.forbes.com/sites/lindamaleh/2019/11/22/redemption-and-karma-in-the-final-season-of-the-man-in-the-high-castle/
32 “Dick non ci dice se l’America a cui va incontro [Juliana] è quella del testo zero, del testo primario o del testo secondario. Alla fine del romanzo, di fronte alla pagina che diviene bianca, i tre testi coincidono: è Juliana che è cambiata, e con lei la realtà.” Carlo Pagetti, Introduzione, op. cit., p. xxiii.
33 Ivi, p. xiv.
34 Questa parentesi è stata inserita nel testo a gennaio, quindi forse non era così difficile capire chi fosse realmente Putin (ogni riferimento alle destre italiane non è affatto casuale).
35 “[R]epresentations of the Japanese are distractingly and consistently erroneous. When discussing a visit from the Japanese royal family, Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), a Japanese Trade Minister, states that the room is “inappropriate.” A Nazi ambassador explains to his German colleague that this is because the furniture lacks “chi, one of the five great elements.” Chi is, in fact, the Chinese word for “air” or “energy,” frequently used to describe the aura of a space. The same character is pronounced “ki” in Japanese and not at all similar to the Japanese word “chi,” which means “earth.” Whether this linguistic mix-up was inherited from the novel, simple fact checking would have averted the resulting implication that the two cultures are interchangeable.” “Le rappresentazioni dei giapponesi sono sempre erronee. Quando si riferisce a una visita della famiglia reale giapponese, Tagomi, il Ministro del Commercio giapponese, afferma che la stanza è “inadeguata.” Un ambasciatore nazista spiega a un suo collega tedesco che il motivo è la mancanza di “chi, uno dei cinque grandi elementi” nell’arredamento. In realtà “chi” è la parola cinese che significa “aria” o “energia”, spesso utilizzata per descrivere l’aura di uno spazio. Lo stesso carattere in giapponese si pronuncia “ki”, ben diverso dal termine giapponese “chi”, che significa “terra.” Anche se questo miscuglio linguistico proviene dal romanzo sarebbe bastato accertarsi di come stiano le cose per evitare la conseguenza che le due culture sembrino intercambiabili.” Lin King, The white American man in the High Castle (https://princetonbuffer.princeton.edu/2015/11/20/the-white-american-man-in-the-high-castle/)
36 Gusso, cit., p. 38.
Trovo questo lavoro di Ignazio Sanna estremamente approfondito e nello stesso tempo godibile e raffinato, ricco di quelle citazioni e annotazioni che regalano ulteriore significato all’opera di Philip Kindred Dick.
Condivido il giudizio sostanzialmente positivo sulla serie tv (che ho avuto il piacere di vedere qualche anno fa) e mi riconosco nella maggior parte delle osservazioni di Ignazio sul libro di Dick.
Mi sono sforzato di trovare qualche nota discordante, ma non sono riuscito a trovarne.
Dieci e lode a Ignazio Sanna dunque.
Aggiungo che non solo, come scrive Ignazio, sarebbe stato molto interessante conoscere il parere di PK Dick sulla serie tv. Sinceramente, e scrivendolo mi commuovo, avrei voluto davvero sentire il parere di Valerio Evangelisti sull’articolo di Ignazio Sanna. Grazie dunque a Ignazio, a PK e a Valerio per questo, pur immaginario, anzi forse proprio in quanto immaginario, incontro.
Caro Andrea, se il tuo scopo era di mettermi in imbarazzo confesso che è stato raggiunto. In ogni caso ti ringrazio per l’apprezzamento. Posso aggiungere soltanto che Valerio Evangelisti è stato uno degli autori migliori degli ultimi trent’anni, e che mancherà a tutti noi lettori